Recensione
Dark Water
8.0/10
"Honogurai mizu no soko kara" - "Dal profondo delle acque scure" potrebbe essere una traduzione letterale del titolo originale di "Dark Water". Trattasi di un film molto psicologico, molto poco horror per certi versi e molto toccante per altri.
Non riassumerò nuovamente la trama, mi limito a dire che la cosa più interessante di questo film è la presenza costante dell'acqua: una presenza continua, martellante come la pioggia che continua a scrosciare per tutto il tempo del film e incessante come le macchie di umidità che si allargano sui muri dell'appartamento in cui vanno a vivere Yoshimi Matsubara e la figlia Ikuko. L'edificio è stato teatro della tragica morte di una bambina un anno prima, bambina che frequentava lo stesso asilo in cui va ora Ikuko.
Non è un caso che sia stata scelta l'acqua come tema accompagnatore per la morte di un bambino: nella cultura giapponese si chiamano infatti "mizuko" (bambini d'acqua) quei bambini non nati, abortiti e condannati a rimanere per sempre senza forma, raffigurati per questo dall'elemento acquatico, simbolo del liquido amniotico. Sono bambini rifiutati, che per questo rifiuto covano rancore (come tutti coloro che muoiono di morte non naturale nella cultura giapponese), diventando una minaccia per la pace dei vivi. In questo film non si parla di mizuko nel senso stretto del termine, ma a loro è il riferimento, più o meno consapevole.
Oltretutto a confrontarsi con i mizuko sono solo ed esclusivamente le madri, costrette ad una pratica che le colpevolizza e le obbliga a non dimenticare, e in questo film il rapporto più presente è appunto quello fra Ikuko e sua madre. Il padre c'è, ma è un padre che non si vede, che appare giusto per firmare i documenti di divorzio dalla moglie.
È una pellicola triste, che in qualche modo risveglia quei sentimenti atavici spesso trasmessi dai bambini, dal rapporto con le loro madri, dall'acqua portatrice di vita ma anche di morte.
Un film da vedere, a mio parere, specialmente per le implicazioni culturali legate all'immaginario giapponese.
Non riassumerò nuovamente la trama, mi limito a dire che la cosa più interessante di questo film è la presenza costante dell'acqua: una presenza continua, martellante come la pioggia che continua a scrosciare per tutto il tempo del film e incessante come le macchie di umidità che si allargano sui muri dell'appartamento in cui vanno a vivere Yoshimi Matsubara e la figlia Ikuko. L'edificio è stato teatro della tragica morte di una bambina un anno prima, bambina che frequentava lo stesso asilo in cui va ora Ikuko.
Non è un caso che sia stata scelta l'acqua come tema accompagnatore per la morte di un bambino: nella cultura giapponese si chiamano infatti "mizuko" (bambini d'acqua) quei bambini non nati, abortiti e condannati a rimanere per sempre senza forma, raffigurati per questo dall'elemento acquatico, simbolo del liquido amniotico. Sono bambini rifiutati, che per questo rifiuto covano rancore (come tutti coloro che muoiono di morte non naturale nella cultura giapponese), diventando una minaccia per la pace dei vivi. In questo film non si parla di mizuko nel senso stretto del termine, ma a loro è il riferimento, più o meno consapevole.
Oltretutto a confrontarsi con i mizuko sono solo ed esclusivamente le madri, costrette ad una pratica che le colpevolizza e le obbliga a non dimenticare, e in questo film il rapporto più presente è appunto quello fra Ikuko e sua madre. Il padre c'è, ma è un padre che non si vede, che appare giusto per firmare i documenti di divorzio dalla moglie.
È una pellicola triste, che in qualche modo risveglia quei sentimenti atavici spesso trasmessi dai bambini, dal rapporto con le loro madri, dall'acqua portatrice di vita ma anche di morte.
Un film da vedere, a mio parere, specialmente per le implicazioni culturali legate all'immaginario giapponese.