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Credo che per qualsiasi prodotto dell’inventiva umana esistano due tipologie di “capolavori”: la prima è quella immediatamente riconosciuta, quella che entra prepotentemente nell’immaginario comune come opera che reclama attenzioni, le esige perché le merita e ha il suo stuolo di ammiratori che non mancano di ricordarci che esistono opere del genere e che non tutto quello che ci circonda emerge dallo stesso oceano di mediocrità; la seconda è di tipo più schivo, di misura “ridotta”, per così dire, non per merito o spessore ma per la risonanza che esse hanno, non solo di pubblico, ma la stessa musica che suonano è più un sottofondo che una voce roboante e prominente.

“Koe no Katachi” appartiene indubbiamente a quest’ultima categoria, capolavoro silenzioso e dimesso per titolo e per lunghezza complessiva dell’opera, solo sette volumi per essere catapultati in un turbinio di emozioni così forti da lasciare il segno, pagina dopo pagina, che hanno i volti di numerosi personaggi.

La vicenda si avvia con un lungo flashback portandoci ai giorni delle elementari dei due protagonisti, che nel normale tempo della storia sono ormai all’ultimo anno di liceo, Shoko Nishimiya e Shoya Ishida: la prima è una bambina di sesta elementare sordomuta che si è trasferita ad anno scolastico avviato nella classe di Shoya, un bambino che si voterà sin da subito a essere il suo bullo personale senza alcun motivo apparente, solo per sconfiggere la noia. “La vita è una battaglia costante contro la noia” ama ripetere il piccolo Shoya riprendendo le parole della pigra ma saggia sorella maggiore. Le ingenue e deprecabili azioni del bambino si portano dietro pian piano quasi tutti i suoi compagni di classe, incapaci di instaurare un qualsiasi rapporto con la nuova arrivata, quando però la situazione diventa così grave da arrivare all’orecchio degli insegnanti e del dirigente scolastico, il mostro di discriminazione che Shoya aveva generato contro Shoko gli si rivolta contro, facendo di lui un alienato e a sua volta vittima di bullismo, portando Nishimiya a trasferirsi nuovamente. Shoya, ormai giunto al liceo, disgustato dalla società e dal mondo che lo circonda, sulla soglia del suicidio, preso quasi da una follia masochista, deciderà di punirsi e di fare ammenda per il suo passato votando la sua vita alla felicità di Nishimiya, tentando di restituirle tutto ciò che a causa sua ha perso, tentativo evidentemente vano sin dal principio.

La storia è narrata principalmente dal punto di vista di Shoya ma non mancheranno le doppie narrazioni di una stessa situazione anche dal punto di vista di Shoko. Sono i due poli attorno ai quali ruotano le vicende, Shoko sorda e muta per costituzione, spettatrice di un mondo che la considera un prodotto difettoso, Shoya sordo e muto per scelta di fronte a un mondo che non ha mai compreso e che disprezzandosi disprezza.

Sin dalle prime pagine si nota una coscienza e un’autenticità senza pari dei personaggi che si muovono in un mondo vivo e reale tanto da essere quasi tangibile. Raramente ho riscontrato una tale precisione e doloroso affetto verso l’infanzia e l’adolescenza come quello mostrato dalla sensei Yoshitoki Oima. I giovani e i giovanissimi protagonisti di questa storia vivono la loro vita sia in funzione della propria età sia in rapporto con l’età adulta e con gli adulti, mostrando un’insanabile incomunicabilità fra i due mondi: tutta la vicenda è un costante tentativo di comunicare con se stessi e con gli altri; anche il tema del bullismo, certamente uno dei più importanti, è portato in scena proprio come un problema di incapacità a comunicare, non come cattiveria del singolo o del gruppo. Il dialogo è mancato per caratteristiche intrinseche alla cultura giapponese (ma non solo, quest’opera si presenta quanto mai valida a valicare i confini dell’arcipelago nipponico) e per difficoltà nell’instaurarlo, perché le due parti sono reciprocamente sorde sia letteralmente che metaforicamente.

L’opera affonda pesantemente le mani nelle piaghe dei giovani giapponesi, fa della comunicazione e della voce, sia verbale sia gestuale, le vere protagoniste della storia; pagina dopo pagina l’autrice sembra volerci dire che persino chi è assolutamente impossibilitato a comunicare, perché privo dei mezzi necessari alla comunicazione “normale”, può avere un futuro e una voce per raccontarlo e l’autrice lo fa portando sulle sue pagine lo scontro/incontro di queste personalità ferite e incomprese che sono i personaggi di “A Silent Voice”, tanti grumi di emozioni represse e indistinguibili che si manifestano in modi diversi e peculiari: rabbia, timidezza, indifferenza, ognuno alla ricerca del proprio linguaggio per esprimersi.

Uno dei pregi più grandi del manga è proprio la sua mancanza di qualsiasi tipo di finzione narrativa che sebbene debba essere un ovvio presupposto del genere slice of life, non sempre viene rispettato dagli altri titoli appartenenti alla categoria. Qui non c’è trucco e non c’è inganno, le tavole mostrano la loro verità attraverso un disegno che trema nel tratto e vibra di emozione. La qualità dei disegni della sensei è superlativa e in perfetta simbiosi con l’opera: indefiniti e appena schizzati per i personaggi e accurati e maniacali per gli sfondi che contribuiscono a calarci in questa atmosfera di realtà irreale.

Senza infamia né lode si presenta l’edizione Star Comics, con una semplice sovraccoperta con alette e senza pagine a colori a un prezzo standard, arricchita da un “cofanetto” compreso di serie completa all’interno, per omaggiare l’uscita del film nelle sale cinematografiche italiane.
Per concludere, manga assolutamente consigliato e da avere nelle vostre librerie per rileggerlo più e più volte, trovandone sempre nuovi significati e nuove chiavi di lettura, non solo dell’opera ma anche, perché no, della vostra vita.