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Arte è una parola che al suo interno può assumere molteplici sfumature. La sua definizione è senza dubbio ancora oggetto di controversia, ma tutti saranno concordi sul fatto che sia un linguaggio, ossia la capacità di trasmettere emozioni e messaggi, senza un codice unico inequivocabile d’interpretazione.

Prima di giudicare “Shelter”, corto musicale del 2016 nato dalla collaborazione tra Crunchyroll e A1 Pictures, ho voluto far passare del tempo. All’epoca la regia di Toshifumi Akai e la colonna sonora di Porter Robinson mi avevano parecchio impressionato. Giudicare un’opera così breve ma ricca al tempo stesso mi era risultato impossibile. Troppe le sfumature, troppe le interpretazioni... andava lasciato passare del tempo, dovevo vivere nuove esperienze e dopo anni potevo finalmente riconfrontarmi con essa. Il risultato è stato lo stesso di molti: una nuova emozione, una nuova interpretazione. “Shelter” si candida fortemente al titolo di “corto artistico animato”.

Parlare di trama è riduttivo, ma necessario. Il video comincia con un dialogo nel freddo silenzio, con una ragazzina sola nella stanza intenta a leggere eventuali messaggi nella casella tristemente vuota da oltre 2500 giorni. All’improvviso, la cupa e silenziosa atmosfera viene squarciata dalla musica elettronica di Porter Robinson, che da sola descrive l’intera scena: paesaggi mozzafiato occupano lo spazio, colori accesi illuminano l’ambiente, ma soprattutto i bellissimi ricordi del padre, descritti nel testo della canzone, fanno breccia nel cuore dello spettatore. Poi, dopo questa carrellata di positività e creatività, arriva un finale agrodolce: la ragazzina, ormai diciassettenne, si ritrova sola in una navicella nello spazio, sostentata da misteriosi cavi d’acciaio e con il solo ricordo del padre che la tiene in vita nel vuoto assoluto. All’ultimo secondo, però, la casella di posta si illumina: c’è ancora speranza. Lui è con lei, non l’ha abbandonata.

La storia può presentare diversi livelli d’interpretazione, tutti plasmabili a discrezione dello spettatore. Si potrebbe inventare una storia legata a ciò che si è visto, ma anche su ciò che si è percepito, persino su ciò che può esser stato intuito. “Shelter”, in poche parole, proprio come un capolavoro d’arte classica, comunica con lo spettatore, trascinandolo nel suo mondo ma donandogli anche il libero arbitrio d’interpretazione. “Shelter” non ha bisogno di essere contestualizzato: comunica tanto bene a un europeo come a un melanesiano. Il messaggio di fondo universale, legato al fatto che il ricordo delle persone a cui abbiamo voluto bene ci accompagnerà sempre ovunque noi saremo, è universalmente condivisibile: diverso nelle sue rappresentazioni, ma presente in ognuno di noi. Del resto, c’è sempre nel mondo una persona pronta a farci sentire speciali almeno una volta nella nostra vita, a lasciarci ricordi indelebili che diverranno parte del nostro mantra.

Graficamente “Shelter” è spettacolare, un mare di immagini che passa dalla piatta, noiosa bonaccia della solitudine agli elevati picchi dei ricordi del padre, colorati e intensi, che si infrangono sullo spettatore. La musica, benché appartenente a un genere a me poco affine, è calzante e a pennello, concisa ed efficace nelle poche parole di testo.

Concludendo, “Shelter” sono sei minuti di pura introspezione. Bisognava far passare del tempo prima di giudicarlo, e quindi elevarlo ad arte visiva, ma era già palese a una prima visione che contenesse una qualche magia. Tra dieci anni, “Shelter” resterà comunque un punto di riferimento per l’animazione, dunque perché non fare un tuffo in questo oceano di emozioni?