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Approcciarsi all’animazione occidentale non è cosa scontata, soprattutto quando, da parte del sottoscritto, è presente una discreta non conoscenza di fondo che rischierebbe, nel corso della stesura della recensione, d'intaccare negativamente la qualità del giudizio, rendendolo ancor più fallace di quanto già non sia. In effetti anime e cartoni animati sono alla fine la stessa cosa, eppure, proprio come un bislacco ossimoro, allo stesso tempo divergono notevolmente. Concetti, ideologie e culture diversificano infatti quello che all’apparenza può apparire come un semplice cartone animato, un linguaggio visivo universale per tutti, indipendentemente dalla bandiera d’origine. È dunque toccato un attento studio, nei limiti del mio (ahimè) fin troppo limitato tempo libero, per poter colmare queste mie lacune inerenti la mitologia irlandese, permettendomi così, finalmente, di giudicare un’opera non solo nei suoi aspetti meramente narrativi e scenografici, ma di comprenderne appieno i significati culturali in essa celati. "La canzone del mare", film d’animazione del 2014 di Tomm Moore, agli occhi di un bambino, ma anche di uno spettatore “distratto” (come lo ero io stesso a inizio visione), può apparire come una semplice storiella, una piccola leggenda narrata per i più piccini, priva di chissà quali psicologie contorte o di sviluppi degni di nota... eppure intrattiene egregiamente, forte del suo sottile, ma oculato, equilibrio tra narrazione e folklore.

La storia si apre con un flashback di Ben, piccolo bambino residente su un'isola al largo delle coste irlandesi insieme a suo padre Conor, che lavora come guardiano del faro, e la misteriosa madre Bronagh, incinta della futura sorellina Saoirse. Tutto sembrerebbe andare per il verso giusto, sennonché, prima di partorire, Bronagh sparisce misteriosamente tra le tempestose onde del mare, non prima di aver consegnato a Conor, come dono d’addio, la piccola Saoirse avvolta in un velo bianco. Gli anni passano, ma, indipendentemente dall’aiuto dei dottori, Saroise non riesce in alcuna maniera a parlare. Ben, d’altro canto, pur avendo compiuto dieci anni, non è in grado nuotare, e rifugge dall’acqua poiché traumatizzato dal doloroso ricordo della madre, scomparsa nel profondo oceano. Come se non bastasse, detesta la sorellina, incolpandola indirettamente del tragico lutto. Le vite dei due bambini prendono una svolta quando Saoirse ritrova il misterioso mantello bianco, lasciatole in eredità dalla madre. Conor, tormentato dal ricordo di Bronagh, accetta però, controvoglia, di allontanare i due bambini dal faro, facendoli ospitare in città a casa della nonna, non prima di essersi sbarazzato del mantello, gettandolo in fondo al mare dentro un robusto baule. Dopo varie peripezie, i due bambini scopriranno che Saoirse è in realtà una selkie, una leggendaria creatura in grado di trasformarsi in foca e dagli straordinari poteri magici. Purtroppo, però, privata del mantello, rischia una tragica morte. I due bambini, volenti o nolenti, si trovano così costretti in un lungo viaggio alla ricerca del bianco oggetto, tallonati nel mentre dai gufi della strega Macha, una malvagia creatura in grado di privare gli esseri viventi delle proprie emozioni.

I personaggi sono semplici, ma genialmente delineati. Alcuni, come il protagonista Ben e il padre Conor, rappresentano la componente più “umana” del cast, ed entrambi sono soggetti a un processo di maturazione, nel corso del film, non indifferente. Soprattutto Ben, che da piccolo bambino incapace di accettare la scomparsa della madre, comprende il proprio dolore, finendo così per accettare la propria sorellina “speciale”, e diventarne così la spalla nel corso delle varie peripezie. Altri personaggi, come la bella Bronagh, la piccola Saroise, il cane Cu e la strega Macha, sono invece puro folklore: tutti quanti sono estrapolati dalla mitologia irlandese, e s’incastrano nella storia con una semplicità disarmante, forti di una sceneggiatura lineare ed efficace. La trama, infatti, viaggia parallelamente alla leggenda, generando così due piani interpretativi tanto diversi quanto complementari. Si potrebbe quasi dire che l’opera di Moore possa essere visionata in due prospettive: da un lato abbiamo una bella favola per i più piccini, dall’altro c’è un’interessante lezione di folklore per i più curiosi. Forse non è azzardato un paragone con le opere del maestro Miyazaki, intrise della stessa magia e rispetto per le tradizioni. Ci sarebbe infine da trattare a dovere il personaggio di Macha, la grande antagonista della storia, ma, poiché anche solo a parlarne si finirebbe per generare spoiler, soprassiedo. Ad ogni modo voglio lo stesso lasciarvi un input, un dilemma aperto: una vita senza emozioni può davvero negare la sofferenza?

Graficamente l’anime è complesso. Moore sperimenta, immagine dopo immagine, frame dopo frame, un curioso contrasto tra composizioni rigorosamente geometriche, simili alle illustrazioni di un libro per bambini, e un character design morbido, spensierato, in netto contrasto con la meticolosa attenzione per i dettagli, sfumature, accostamenti cromatici, mai ripetitivi e sempre suggestivi. I colori cambiano drasticamente, dalle cupe ambientazioni cittadine, alle vivaci praterie, fino alle profonde, solenni onde del mare, acquerellate di un blu intenso e maestoso. Le ambientazioni, per alcuni aspetti, ricordano un impressionismo di matrice vangoghiana, tanto surreale quanto significativo. L’animatore irlandese sfrutta a proprio favore l’assenza di prospettiva, sfruttando la bidimensionalità per raccontare al meglio la favola, senza tridimensionalità e realismi che avrebbero potuto distogliere l’attenzione. A tratti si può quasi percepire il cambio di scena come un libro che viene sfogliato, quasi come una dolce madre che racconta una favola della buona notte.
La colonna sonora è notevole, dove poche ma significative tracce, tutte a tema, lasciano spazio alla suggestiva “canzone del mare”, perla folkloristica nonché fototessera del film. La musica accompagna silenziosamente lo spettatore, introducendolo alla scena ma mai rubandola, mantenendo così toni pacati, in pieno stile narrativo, senza scadere in un musical disneyano, che mai come in questo caso sarebbe stato fuori contesto.

Concludendo, si può dire che Moore, con “La canzone del mare”, abbia lasciato in eredità una commovente favola sulle innumerevoli difficoltà della vita, sull’elaborazione del dolore ma anche sul significato, imprescindibile, delle emozioni. Sfruttando con abilità la tradizione irlandese, Moore ha realizzato un piccolo capolavoro, una storia per tutte le età dal finale amaro ma universale. Consiglio caldamente la visione a tutti, dai più grandi ai più piccini. Vale davvero la pena imitare la nostra selkie: prendete coraggio e tuffatevi in questo oceano animato, non resterete delusi.