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4.5/10
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Correva l’anno 2008, e tra il mondo che vedeva per la prima volta quest’anime, nell’Anime Night di MTV, un episodio a settimana, c’ero anch’io. Altri tempi. Facendo due calcoli, erano quindici anni fa. Tanto, tanto tempo... non cronologico, ma mentale, personale. Ho accettato la sfida di rivederlo, perché i ricordi si erano offuscati e sentivo di voler ritrovare la ragazzina che all’epoca stravide per Yoite e Miharu. Ad anime visto, mi rendo conto che, crescendo, si diventa più critici, e che opere all’epoca meravigliose per alcuni elementi narrativi non erano stati capite nel modo giusto. E, anche se così fosse stato, c’era sempre la possibilità di demolirli.
Allora eccomi qui, non più ingenua, non più così emotiva, a recensire un anime di cui m’innamorai e che, ad oggi, ha rivelato grandissimi spunti di critica (feroce).

La “trama”

Miharu, uno dei soliti ragazzini che vanno a scuola, viene tirato per la giacchetta dal professor Komoira e da Koichi Aizawa, uno studente dello stesso professore del famoso club di ninja della scuola (quanti topos narrativi nipponici, e non abbiamo ancora finito!), nel suddetto club e nel mondo di Nabari, già che c’erano. I due lo ‘stalkerano’, ma lui ha passato la vita ad evitare soggetti rompiscatole e, freddo com’è, non ha stretto legami con nessuno, nonni a parte, quindi per lui è più che naturale mollare ‘sti due ‘stressoni’ e continuare a farsi gli affari suoi. Purtroppo, il mondo lo reclama, e non è quello umano, ma quello di Nabari, una sottospecie di mondo ninja alla “Naruto” con villaggi vari, tecniche segrete, adepti maledetti, che vivono una vita apparentemente normale, per poi trasformarsi in ninja brutti e cattivi (ma tutto sommato impotenti) o giusti o gentili, oppure, come quel maledetto di Fuma, ‘brigoni’, lavativi, manipolatori.
Miharu cerca di restare freddo e indifferente, e ce la farebbe benissimo, se non che nella sua vita entra l’arcinoto Yoite, un soggetto tutto particolare di cui parlerò a parte poi, il quale, con la sua storia, i suoi modi spicci, le sue parole pungenti, i suoi patemi da sofferente, prima ‘stalkera’ Miharu, rompendo il suo guscio di indifferenza, minacciandolo, poi ne viene ‘stalkerato’ senza possibilità di fuga, perché Miharu, quando ci si mette, è cattivello e pure perseguitatore.
Non è che sono tutti impazziti a braccare un ragazzino nerd, no, è che lui ha un potere, in corpo, che lo rende desiderato e desiderabile, perché può alterare gli equilibri del mondo di Nabari. Davanti a tale potere, lo Shinrabansho, c’è chi lo vuole usare per creare un mondo giusto, troppo giusto, e chi invece, davanti alla prospettiva di quel mondo troppo “giusto”, preferisce veder sparire quel potere assoluto, oppure, ancora, chi glielo vuole far usare per i suoi scopi.
Insomma, Miharu si ritrova trascinato in una situazione più grande di lui, tra ninja bislacchi, situazioni alla “Naruto”, bugiardi che levano la maschera, esaltati senza forza apparente, e fasulli senza vergogna, che agiscono solo per i loro scopi (non reconditi, praticamente li urlano in una stanza dalle pareti sottili, con le finestre aperte, o li dichiarano con malizia e senza vergogna).

La trama è la classica vicenda che piace ai ragazzini e alle ragazzine, con un personaggio giovane, che si era autoesiliato (capiremo poi il perché, ma non tanto) e che, davanti alla possibilità di esprimere il suo potenziale, arriva a decidere per sé, malgrado la pressione di adulti brutti, cattivi, egoisti e inutili (o utili solo perché hanno un tetto sulla testa e budget per andare ai negozi o denaro per finanziare spostamenti fuoriporta o perché, magari, decidono, per motivi tutti loro, notate il particolare, di aiutarlo). Insomma, è la solita minestra del ragazzino che arriva ad essere riconosciuto maturo dopo che l’hanno trattato per tutto l’anime come l’ultimo degli incapaci, come un mero contenitore, come, in definitiva, un bambino manipolabile. Stessa cosa vale per Yoite, che, pur essendo più grande di lui, appartiene alla categoria degli appiedati, senza risorse, mangiapane a ufo, infantilmente egoista, aiutato da adulti che pure loro non sono rigidi e bacucchi. È una lode ai giovani, dentro e fuori, che, come ogni giovane, si esprime, urla, grida, non media molto, ma non parla affatto. È una fratellanza fasulla di minorenni cerebrali, che, pur parendo ben saldi, ben piantati nella vita, agiscono istintivamente, rumorosamente, egoisticamente. Pochi personaggi si salvano da questa classificazione feroce e sono davvero disinteressati, risultando troppo astratti rispetto un generale ‘teenagerismo’ che invade la trama, a cominciare dal professor Komoira, che, credendo di sapere quello che fa, non sa quello che fa, cieco ai segnali che Miharu lanciava come un faro nella notte, a dispetto della sua natura pacata e riservata.

Se gli elementi sono questi, non c’è affatto da gioire, e se all’inizio avevo un buon giudizio, pur storcendo il naso, da metà in poi ho capito: io non sono più così, come quella ragazzina che adorava Yoite, che faceva il tifo per lui e Miharu, soli in un mondo di adulti troppo ciechi per pensare anche solo ai loro bisogni. E quando crolla il disincanto, ci si accorge di gravi problemi, sia nella trama, che nei personaggi.

Cominciamo dalla trama. L’elemento narrativo dei ninja è trito e ritrito, tale che la banalità che mi ingenera mi avrebbe spinta all’abbandono già al primo episodio. Ma ho resistito, sperando che i pezzi si mettessero assieme in un quadro narrativo sensato. Sono apparsi i famigerati villaggi, quattro poveri superstiti di un’enormità possibile, con quattro gatti cadauno a lavorare come muli, troppi personaggi mal pennellati e presentati troppo velocemente. Davvero un solo personaggio si salva, in tutta questa storia, per la qualità della vicenda che la coinvolge e per il peso che ha nel dare una scossa a una trama soporifera, con la sua forza rabbiosa che spinge pure Yoite e Miharu a svelarsi, alla buonora. Ci si riempie, poi, la bocca di tecniche segrete, ma non c’è nulla di esaltante nella loro manifestazione. Lo stesso Shinrabansho è più volte detto, ridetto, acclamato, temuto, ma non si vede un beneamato nulla, mai. Se c’è, dormiva di grosso, ops, era la fata indisponente, giusto! I combattimenti sono brevi, mal orchestrati, non sono, e si vede, il focus narrativo.

Venticinque episodi dovrebbero bastare per sciorinare storia e personaggi, e invece no, qui la regia è scadente. Abbiamo tempi iper-compressi in cui c’è il fenomeno strabiliante della mente collettiva, già visto in “Fena”: per abbreviare la spiegazione, già data all’episodio 4, senza sorprese poi, due gruppi parlano della stessa cosa e le loro voci s’intersecano in un concerto stonato. L’idea è parsa così buona, da riproporla ancora e ancora. E se i tempi compressi potevano lasciare spazio a trama e personaggi, qui ci sbagliamo ancora di grosso, perché abbiamo momenti di morta tipo mummia millenaria, con personaggi (di solito Yoite e Miharu) che condividono momenti con chiara descrizione BL (tutti alludono al loro rapporto più che amicale, quando non c’è nulla da vedere e nulla su cui fare un degno focus), ci sono momenti di chiacchiere che finiscono in un tedio cosmico, flashback che arrivano tardi e sono di una lunghezza letale e pure poco esplicativi, e, infine, concludiamo la lista degli orrori con troppi personaggi con la loro motivazionetta, che sgomitano per agire tutti allo stesso tempo. E la cosa più ironica è che, se sono assieme, a momenti si abbracciano senza un filo d’odio e stanno vicini vicini, se sono lontani, si parlano o parlano ad altri della medesima cosa, in una telepatia non ninja, ma di regia scadente. Parlare di trama è solo esagerato, in realtà si tratta solo di interessi che si scontrano, gente che parla, evoluzioni quasi nulle, salvo che tutti, con a cuore lo Shinrabansho, magheggiano per averlo o usarlo. Ecco, la trama in una frase.

In tutto questo cancan senza ordine (basti pensare che Yoite piange, strilla, parla, geme e solo a più di metà anime lo capiamo, ma forse pure no), si sussegue la corsa zoppa verso un finale assolutamente ridicolo. Ci sono scene da bagno pubblico di “The Vampire Die In No Time”. Ricordate l’episodio in cui il vampiro delle terme fa un invito ai cacciatori e si ritrova tutta la banda senza volerlo? Ecco, qui la banda si scioglie e si incontra, su invito o imbucata, ovunque Miharu sia, poveraccio, è diventato l’istrione di una festa a base di ninja invasati. All’ultimo incontro i protagonisti sono chi sapete voi, ma ve lo dico, Miharu e Yoite. Miharu, mi direte, è più che ovvio, dato il peso del potere che ha, ma Yoite? È lì in veste di sé stesso o di amichetto del cuore? Sbagliate tutte e due, pure lui è in veste da alienato. Pare che lo Shinrabansho sia quel potere che tutti vogliono... alla follia, e non ce n’è uno sano che, vicino a quel potere, lo resti. Pure Miharu, seppur pacatissimo, arriverà a urlare, sbracciarsi, torturarsi, per colpa di ‘sto potere. Ci sarà una reunion ovvia e scontata, così pilotata che pare uno di quei banchetti fatati a cui non sembra invitato nessuno, ma arrivano tutti, e in questo bell’incontro non ci si menerà o accapiglierà molto, resterà ancora il tempo per parlare, urlare, trasformarsi, meditare, discutere, applaudendo poi la scemenza degli adulti che non hanno capito il potenziale distruttivo di quelli che consideravano minori incapaci, dopo che, per tutta la “trama”, li hanno maledetti come poveretti appiedati, senza mai fermarli davvero se non alla fine, dopo immense concessioni che erano solo segno di una debolezza che emergeva dalle parole roboanti e minacciosamente adulte. Servirà dare energia a un cattivo ormai inflazionato, e allora avremmo una squadra di tirapiedi, che, troppo tardi ormai, userà la forza, menando, come meritavano, Yoite e Miharu. È un anime prevedibilissimo, quindi i cattivi finiscono come sappiamo, i buoni si flagellano per aver maltrattato Yoite e Miharu, tanto che poi stendono ponti d’oro per farli stare bene, assumendosi colpe che non hanno (la gioventù ha i suoi limiti di prospettiva, non sempre ha ragione) e facendo gli adulti, offrendo cioè vitto e alloggio gratis e in più amorevolissime cure riparatorie.
Dello Shinrabansho nulla di nulla, c’è solo una fata, una madre incapace di parlare dopo lungo tempo al figliolo e un ragazzino egoista e sfrontato che prima ha supplicato una fata, per poi mandarla in un posto a tutti noto.

Parliamo dei personaggi. Parlare di un sistema di personaggi organico è opera ben sensata. Strano a dirsi, ma, pur essendo molti, con l’ideale e semplicistica suddivisione creata dall’anime in villaggi, li si riconosce e, malgrado non si vada in profondità se non in rarissimi casi, alcuni hanno un’istantanea migliore di altri. Il fatto, nel bene e nel male, è che sono quasi tutti, soprattutto gli adulti, monoblocco, portatori di un’aura colorata chiarissima, e ogni mutamento è così rapido (vedi Raiko), che non fa testo chi era prima, tanto si affrettano a dirti chi è adesso, e nulla cambierà. Pure le lunghe e tese meditazioni di un personaggio sull'altro sono inutili: paiono meditazioni sulla natura di un sasso sulla scrivania; pur coprendosi di polvere, non cambia né la forma né la sua composizione atomica.

Partiamo dalla coppia d’oro, Yoite e Miharu. Miharu è e resta un ragazzino, che diventa sì consapevole delle sue scelte, ma sono e restano egoistiche e personalistiche. Per lui il mondo degli adulti è un avere e mai un dare; Miharu è un ingrato, prende, ma non dà a chi non vuole, mentre a Yoite si appiccica tipo rapporto simbiotico: lui è una stampella, Yoite l’altra. Zoppicano, ma procedono. Non per merito loro solamente, ma soprattutto grazie agli adulti per i quali provano distacco, paura, diffidenza. Miharu è un personaggio immaturo, che si atteggia ad adulto, ma è “vuoto”: di lui emerge così poco, che pare vivere in funzione di Yoite. Decide, ma sull’onda emotiva più nascosta, e quasi nulla, nell’anime, aiuta a sentirla pure noi, quest’onda.

Yoite è tipo Yuliy, di “Sirius The Jaeger”, sempre davanti al naso, raramente non citato, dentro alle discussioni di tutti, ma risulta sempre e comunque un illustre sconosciuto. Di lui tutti hanno ricordi, giudizi, commenti, ma di suo parla per metafore, cerca di manipolare Miharu per farsi fare un favore, ma non spiega il perché azzardi una richiesta così curiosa. Pure quando potrebbe parlare, è una sfinge. È sbagliato pensare che sia deciso, in realtà è la forza del dolore a spingerlo avanti, ma la natura stessa della sofferenza fa mettere in pratica condotte che poi abortiscono troppo tardi. Yoite è il classico tipo con la corazza di cartapesta e una ferita aperta: sadicamente, fa di tutto per riaprirla, nel tentativo di chiudersela, e poi dà la colpa agli adulti (è più comodo).
Il suo rapporto con Miharu è ambiguo, pesante, claustrofobico e, se loro ci vedono serenità, meglio per loro, in realtà è un abbraccio tra annegati vicinissimi alla riva, ma troppo avvinghiati e terrorizzati per slegarsi e troppo ciechi per motivi loro per vederla. Il loro finale è felice? Per me no, è forzatamente di comodo, troppo buonista dopo mareggiate emotive che hanno spinto questi ‘porelli’ a spezzarsi (da soli e assieme) senza quasi ricomporsi.

Parlare di buoni o cattivi in questo anime, non è cosa facile. Infatti, come già ho detto, quasi tutti sono eterni adolescenti, si trincerano dietro corazze di rispettabilità e maturità (anagrafica o presunta) e agiscono spinti da moti interni che non li rendono responsabili, in definitiva, delle loro azioni. Sbagliano in eccesso e in difetto.
Se sbagliano in eccesso, si chiudono sulla difensiva o attaccano, diventano essenzialmente incapaci di gestire la loro forza, usandola troppo tardi e in modo inefficace, vedi Komoira e la squadra degli eliminatori e il loro mandante (troppo dedito alle parole per passare ai fatti, se non in extremis perché deve). Se sbagliano per difetto, finiscono con l’assecondare questi poveri bambini (come sono d’accordo con l’assistente di Hattori), nel bene e nel male, aiutandoli o lasciandolo agire indisturbati, dando loro la corda di cui hanno bisogno per legarsi ancora più stretti ai loro guai.
La pateticità dei nemici è così di facciata, da essere dura trovare un villain decente, forse è la fata, perché, egoista e piena di potere com’è, può permettersi tutto, gli altri sono poveri adepti sulla strada dell’inferno, e di strada ne hanno parecchia da fare, per diventare boss. Coloro che esercitano davvero la forza, la squadra Tategami, arriva tardi e agisce quando orami la situazione è squilibrata: se da una parte Yoite e Miharu sono diventati troppo forti (leggi: gli adulti li aiutano), dall’altra fanno la figura dei cattivi che altri non riescono a fare, finendo in una disgraziata forca caudina dopo l’altra, ma con che aplomb!

I buoni disinteressati sono pochi, in generale fanno la figura dei fessi, assecondando (pure loro!) Yoite e Miharu, e, se non li aiutano, risultano cattivoni agli occhi dei due. Se li soccorrono, è soprattutto, poi, per interesse loro privato. Facciamo un esempio: Raiko è il giustiziere per eccellenza e si comporta da giusto pure quando è etichettato in altro modo. Al momento di aiutare Miharu e Yoite, non lo farà per interesse suo, ma per ripagare un favore avuto da uno di loro due tempo addietro.
Gli amici sono tremendi: o parlano troppo ed emotivamente abbracciano tutta la causa dei due in maniera stupidamente incondizionata, autoassolvendosi come maturi, o fanno dichiarazioni di facciata e intanto fanno i loro calcoli. E nessuna confessione che dovrebbe provocare sfavore o sfiducia generano tali sentimenti: tra amici puoi raccontare di essere immortale e nessuno ti guarderà male. Che bello questo mondo non polemico!

La stessa credibilità dei personaggi è inflazionata da scenette in cui rivelano debolezze stupide, dei mezzi pubblici o una personalità malandrina ma tutto sommato innocua (chi si ricorda Happosai di “Ranma ½”? Bene, Fuma ne è la versione candeggiata e ripulita). Fuma stesso, doppiogiochista che si smaschera da solo, farà il cartonato diabolico di sé, perdendo di episodio in episodio.
Ultima critica ai personaggi: nessuno sceglie un agito lungimirante e consapevole, perché pare non abbia sentore di ciò che prevedibilmente accadrà. Subiscono le azioni degli altri, rispondono in maniera inconsulta e con il loro agire danno la spinta ad altri ancora, creando un marasma che, visto con i miei occhi da adulta, non salva nemmeno i personaggi essenziali e il loro filone narrativo. Miharu, infatti, non è il protagonista morale dell’opera, ma una vittima del sistema, come tutti, come Yoite, solo che loro fanno più pena perché sono appiedati, affamati, senza risorse (a parte un vagone sventrato dalla natura in una linea ferroviaria abbandonata, metafora forse del fatto che pure loro sono a un capolinea in mezzo al nulla).
L’inconsapevolezza dei personaggi è la loro cifra pure quando devono parlarsi: dicono all’aria aperta segreti militari, rivelano diagnosi con porte aperte da cui l’interessato sente eccome con persone terze che non dovrebbero avere conoscenza della cartella clinica altrui. “Nabari” non è l’anime dei segreti: l’unico segreto è che nessuno ha segreti e, se li ha, è perché non ha tempo e persone a cui parlarne, tipo Yoite, e, nell’economia del racconto, non paiono servire a nulla. Stringi stringi, un personaggio si può giudicare solo e solamente dalle azioni (posticipando poi fumose e ormai inutili spiegazioni della sua condotta)? Per me no, ma per “Nabari” è così.

Disegni, musiche

Il chara design è bruttino, con questi colli allungati, ‘ste facce da fame, ‘sti colli lunghi, i volti piattini, i capelli, corti o lunghi che siano, stopposi come la barba di Hattori, queste figure longilinee ed esangui (oddio, le gambette di Reimei!). Spezzo una lancia per gli occhi, non particolarmente belli, ma grandi e colorati (che belli gli occhi blu di Yoite o quelli verdi di Miharu!).

Molte belli i fondali pastellati, che rendono bene sia i luoghi naturali, che gli interni delle case in legno, che la famosa chiesa con la splendida vetrata. È spettacolare l'apparizione dello Shinrabansho e il momento visivo in cui la fata si manifesta.

Opening ed ending sono stampati a fuoco nella mia memoria di ragazzina.
L’opening presenta i personaggi, ma meglio di quello che è l’anime. Pare un bel promo, pieno di gente e di azione. A livello musicale dà un tono all’anime, è bella ritmata, rock.
La prima ending, invece, è più lenta, sinfonica, strumentale, cantata dalla voce dolce di Eliza, una cantante nipponica. La seconda ending valorizza una versione più pulita del cantato. Abbiamo una bella voce femminile, un’altra che fa da controcanto e una chitarra, pura delicatezza.

Le OST sono ben curate e musicalmente si adattano alla malinconia tragica delle vicende.

Conclusioni

Quando lessi le recensioni, prima di ripartire col rivederlo, ero quasi costernata dai voti bassi e criticavo chi aveva scritto simili resoconti: era troppo roseo in me il ricordo di un “Nabari” perfetto. Ma sono passati quindici anni, come ho già detto, e devo dire che sono d’accordo con coloro i cui pareri prima aborrivo. “Nabari” è invecchiato male: al tempo aveva il fascino di quello che oggi critico, disperazione a palate, adulti incapaci sia nel bene che nel male, un ragazzino che vuole salvare una persona cara e un rapporto a due che mi parve affascinante, per non parlare poi del fascino malato di Yoite.
Non mi sento di consigliarlo se non al mio peggior nemico, ma ben legato a una sedia, perché altrimenti pure questo fa l’escapista e non se lo guarda fino alla fine. Ora, so da tempo che esiste un manga, e per curiosità mi sono ‘spoilerata’, leggendone i commenti e le trama che l’anime non si è degnato di spiegare. Il giudizio sul cartaceo è ottimo, ciò significa che l’anime non l’ha rispettato, forse, ma, se fosse così, non sarebbe né la prima né l’ultima volta in cui un’opera è malamente stravolta.
Sulla grafica avrei molte critiche, ma è un fatto soggettivo, che piaccia o meno; resta il blocco evanescente di una narrazione lenta, noiosa, patetica, quasi senza trama e senza eventi, in cui tutti sono comparse e gli appiedati (o i deragliati) finiscono con l'essere gli eroi morali in un mondo in cui l’adolescenza (quella brutta, bruttissima) non è mai finita per nessuno (a parte due personaggi tutto sommato risibili nella narrazione intera).
Confermo, dunque, un voto assolutamente negativo, anche se salvo la parte sonora; ne sconsiglio la visione, a meno che non soffriate di insonnia cronica, e lascio “Nabari” nel dimenticatoio, evitando altre pescate nostalgiche, perché rimestare nel passato è pericoloso: si arriva ad abiurarsi da soli, ma, in fin dei conti, questa si chiama crescita. Grazie, “Nabari”, per avermelo ricordato.