Recensione
Vivere
10.0/10
Akira Kurosawa, maestro indiscusso del cinema mondiale, con "Vivere" ci regala un’opera di straordinaria profondità. Un racconto che attraversa il tempo e le culture per parlare direttamente al nostro cuore e alla nostra mente. Girato nel 1952, il film è una vera e propria meditazione sull’esistenza, la morte e il significato della vita. È una pellicola che incarna ed esalta la poetica di Kurosawa, non solo per la maestria tecnica con cui è realizzata, ma anche per il suo impegno e la sua efficacia nell'esplorare dilemmi morali e condizioni universali dell'umanità.
La storia è incentrata su Kanji Watanabe, anziano funzionario pubblico che ha trascorso decenni a vivere una vita monotona e senza scopo, sommerso dalla burocrazia. Quando scopre di essere malato terminale di cancro e di avere pochi mesi di vita, la sua esistenza viene sconvolta. E davanti alla consapevolezza della morte imminente inizia a interrogarsi su ciò che significa davvero vivere.
La trama si sviluppa in due parti ben distinte. Nella prima, seguiamo il viaggio personale di Watanabe, che tenta di trovare un nuovo senso attraverso dei piaceri fugaci, come la vita notturna, ma scopre presto che questi non riempiono il suo vuoto esistenziale. La sua rinascita arriva quando decide di dedicare il tempo che gli rimane a costruire qualcosa di significativo: un parco giochi per bambini in un quartiere degradato. Un simbolo tangibile del suo impegno verso il bene comune.
La seconda parte del film si svolge dopo la morte di Watanabe, durante una veglia in suo onore. Attraverso i flashback e i ricordi degli altri personaggi, emerge il suo lascito: un uomo che, pur avendo vissuto gran parte della vita nell'apatia, ha trovato il coraggio di trasformare il tempo che gli restava in un'opera di amore e dal profondo significato.
Il film incarna perfettamente uno dei temi prediletti della poetica di Kurosawa: la lotta dell'individuo per trovare uno scopo in un mondo dominato dall'indifferenza e dall'assurdità. Il regista usa quindi Watanabe come simbolo di redenzione umana, dimostrando che anche la vita apparentemente più insignificante può diventare significativa quando vissuta con consapevolezza e con uno scopo. L’autore pone anche una domanda fondamentale allo spettatore: come possiamo lasciare un’impronta duratura nel mondo, nonostante la nostra mortalità? In questo senso, "Vivere" non è solo un film sulla morte, ma un’opera che esalta la vita in tutta la sua complessità e in tutto il suo potenziale.
A livello tecnico Kurosawa impiega un linguaggio cinematografico che sottolinea il contrasto tra vita e morte. Le scene con Watanabe, prima della diagnosi, sono spesso immerse nelle ombre, mentre il suo percorso di trasformazione è illuminato da una luce più chiara e diretta. La sequenza simbolica del protagonista che canta "Gondola no Uta" in una sala da ballo, una vecchia canzone giapponese sulla brevità della vita, è uno dei momenti più commoventi della storia del cinema mondiale. La regia qui non cerca di enfatizzare attraverso degli artifici, ma lascia che l'emozione pura prenda il sopravvento.
Takashi Shimura ci regala una delle interpretazioni più straordinarie nella storia del cinema. Il suo Watanabe, con la schiena curva e lo sguardo vacuo, si trasforma lentamente in un uomo animato da uno scopo. La scena finale, in cui siede sull'altalena nel parco che ha contribuito a costruire, cantando sotto la neve, è un'immagine che si scolpisce in modo indelebile nella mente e nella coscienza dello spettatore.
Kurosawa utilizza il contesto lavorativo del protagonista per criticare la disumanizzazione della burocrazia e della società in generale, un tema universale che risuona ancora oggi con potenza. L'inerzia delle istituzioni e il cinismo dei colleghi di Watanabe, che minimizzano il suo contributo anche dopo la sua morte, sono specchio di una società che spesso perde di vista l'importanza dell'individuo e di ciò che conta davvero.
Dividere il film nettamente in due parti principali, invece, è stata una scelta narrativa audace e innovativa per l'epoca. Mentre la prima metà esplora il viaggio interiore del protagonista, la seconda si concentra sull'impatto che la sua trasformazione ha avuto sugli altri. Questa struttura permette a Kurosawa di ampliare l'orizzonte sul tema del significato della vita, mostrando come l'eredità di una persona possa continuare a vivere anche dopo la morte.
"Vivere" rimane quindi straordinariamente attuale anche a più di 70 anni dalla sua uscita. In un mondo che corre sempre più veloce e spesso misura il valore della vita in termini di successo materiale, Kurosawa ci ricorda l'importanza di trovare uno scopo più profondo. Il messaggio di Watanabe – ovvero che il significato della vita si trova in ciò che diamo – è universale e senza tempo. Ma la modernità del film risiede anche nella sua rappresentazione della condizione umana: l’alienazione dell’individuo, il bisogno di essere ricordati e il desiderio di lasciare un segno sono temi che parlano a ogni generazione.
La visione di "Vivere" quindi è una vera e propria esperienza esistenziale. Un invito a riflettere sulla brevità della vita e sul modo in cui decidiamo di impiegarla. Con una regia perfetta, una narrazione ricca di sfumature e una performance totale di Takashi Shimura, Kurosawa ci consegna una delle opere più profonde e poetiche di sempre. È un film che continua a risuonare perché, come tutte le grandi opere d'arte, parla di noi, del nostro essere, della nostra esistenza. E ci chiede: "Voi come scegliete di vivere?"
La storia è incentrata su Kanji Watanabe, anziano funzionario pubblico che ha trascorso decenni a vivere una vita monotona e senza scopo, sommerso dalla burocrazia. Quando scopre di essere malato terminale di cancro e di avere pochi mesi di vita, la sua esistenza viene sconvolta. E davanti alla consapevolezza della morte imminente inizia a interrogarsi su ciò che significa davvero vivere.
La trama si sviluppa in due parti ben distinte. Nella prima, seguiamo il viaggio personale di Watanabe, che tenta di trovare un nuovo senso attraverso dei piaceri fugaci, come la vita notturna, ma scopre presto che questi non riempiono il suo vuoto esistenziale. La sua rinascita arriva quando decide di dedicare il tempo che gli rimane a costruire qualcosa di significativo: un parco giochi per bambini in un quartiere degradato. Un simbolo tangibile del suo impegno verso il bene comune.
La seconda parte del film si svolge dopo la morte di Watanabe, durante una veglia in suo onore. Attraverso i flashback e i ricordi degli altri personaggi, emerge il suo lascito: un uomo che, pur avendo vissuto gran parte della vita nell'apatia, ha trovato il coraggio di trasformare il tempo che gli restava in un'opera di amore e dal profondo significato.
Il film incarna perfettamente uno dei temi prediletti della poetica di Kurosawa: la lotta dell'individuo per trovare uno scopo in un mondo dominato dall'indifferenza e dall'assurdità. Il regista usa quindi Watanabe come simbolo di redenzione umana, dimostrando che anche la vita apparentemente più insignificante può diventare significativa quando vissuta con consapevolezza e con uno scopo. L’autore pone anche una domanda fondamentale allo spettatore: come possiamo lasciare un’impronta duratura nel mondo, nonostante la nostra mortalità? In questo senso, "Vivere" non è solo un film sulla morte, ma un’opera che esalta la vita in tutta la sua complessità e in tutto il suo potenziale.
A livello tecnico Kurosawa impiega un linguaggio cinematografico che sottolinea il contrasto tra vita e morte. Le scene con Watanabe, prima della diagnosi, sono spesso immerse nelle ombre, mentre il suo percorso di trasformazione è illuminato da una luce più chiara e diretta. La sequenza simbolica del protagonista che canta "Gondola no Uta" in una sala da ballo, una vecchia canzone giapponese sulla brevità della vita, è uno dei momenti più commoventi della storia del cinema mondiale. La regia qui non cerca di enfatizzare attraverso degli artifici, ma lascia che l'emozione pura prenda il sopravvento.
Takashi Shimura ci regala una delle interpretazioni più straordinarie nella storia del cinema. Il suo Watanabe, con la schiena curva e lo sguardo vacuo, si trasforma lentamente in un uomo animato da uno scopo. La scena finale, in cui siede sull'altalena nel parco che ha contribuito a costruire, cantando sotto la neve, è un'immagine che si scolpisce in modo indelebile nella mente e nella coscienza dello spettatore.
Kurosawa utilizza il contesto lavorativo del protagonista per criticare la disumanizzazione della burocrazia e della società in generale, un tema universale che risuona ancora oggi con potenza. L'inerzia delle istituzioni e il cinismo dei colleghi di Watanabe, che minimizzano il suo contributo anche dopo la sua morte, sono specchio di una società che spesso perde di vista l'importanza dell'individuo e di ciò che conta davvero.
Dividere il film nettamente in due parti principali, invece, è stata una scelta narrativa audace e innovativa per l'epoca. Mentre la prima metà esplora il viaggio interiore del protagonista, la seconda si concentra sull'impatto che la sua trasformazione ha avuto sugli altri. Questa struttura permette a Kurosawa di ampliare l'orizzonte sul tema del significato della vita, mostrando come l'eredità di una persona possa continuare a vivere anche dopo la morte.
"Vivere" rimane quindi straordinariamente attuale anche a più di 70 anni dalla sua uscita. In un mondo che corre sempre più veloce e spesso misura il valore della vita in termini di successo materiale, Kurosawa ci ricorda l'importanza di trovare uno scopo più profondo. Il messaggio di Watanabe – ovvero che il significato della vita si trova in ciò che diamo – è universale e senza tempo. Ma la modernità del film risiede anche nella sua rappresentazione della condizione umana: l’alienazione dell’individuo, il bisogno di essere ricordati e il desiderio di lasciare un segno sono temi che parlano a ogni generazione.
La visione di "Vivere" quindi è una vera e propria esperienza esistenziale. Un invito a riflettere sulla brevità della vita e sul modo in cui decidiamo di impiegarla. Con una regia perfetta, una narrazione ricca di sfumature e una performance totale di Takashi Shimura, Kurosawa ci consegna una delle opere più profonde e poetiche di sempre. È un film che continua a risuonare perché, come tutte le grandi opere d'arte, parla di noi, del nostro essere, della nostra esistenza. E ci chiede: "Voi come scegliete di vivere?"