TekkonKinkreet - Soli contro tutti
Attenzione: la recensione contiene spoiler
Dopo aver visto “Ping Pong - The Animation”, ho letto “Number 5” di Taiyo Matsumoto ed è stata una delusione. Però “Ping Pong - The Animation” mi era piaciuto tanto, così mi sono voluto vedere qualcosa tratto da un manga di questo autore: la scelta è caduta su questo “TekkonKinkreet”. Mi è stato spiegato che il titolo si riferisce a “cemento armato”, la sostanza di cui sono fatte le città, ma anche una materia fredda e dura come la vita di strada.
E sulla strada vivono i gatti, ragazzi orfani, gli yakuza e la gente comune.
La strada è dura, e dunque bisogna diventare disillusi e resistenti alle avversità come Nero (Kuro), ma è possibile rimanere anche un po’ bambini come il suo amico (o fratello) Bianco (Shiro): l’importante è non rimanere soli, come ci insegna la massima “Chi è solo è sempre in cattiva compagnia”. Bianco e Nero hanno bisogno l’uno dell’altro, perché si completano come lo Yin e lo Yang. Nero dice che la città tesoro (un quartiere centrale di una città non meglio identificata) è sua, Bianco sogna di volare al mare e prendere lì casa. Il topo, yakuza cavalleresco, sogna la sua vecchia città tesoro e tradisce i suoi compagni, per salvarla dal serpente. La sua morte è splendida. Molti muoiono, anche se alcune morti sono strane: i tre killer cinesi avrebbero potuto uccidere cento volte i gatti. E il Minotauro chi è? Esiste veramente, anche se lo vediamo in azione?
Comunque, gli sfondi curati dallo studio Ghibli si salvano dal disegno dei personaggi veramente brutto, ma che forse è funzionale alla storia. Il regista americano non spicca per genialità e tutto sommato la seconda parte della storia non convince per niente. All’inizio mi pregustavo un gran bel film, ma alla fine raffazzona un sei.
Dopo aver visto “Ping Pong - The Animation”, ho letto “Number 5” di Taiyo Matsumoto ed è stata una delusione. Però “Ping Pong - The Animation” mi era piaciuto tanto, così mi sono voluto vedere qualcosa tratto da un manga di questo autore: la scelta è caduta su questo “TekkonKinkreet”. Mi è stato spiegato che il titolo si riferisce a “cemento armato”, la sostanza di cui sono fatte le città, ma anche una materia fredda e dura come la vita di strada.
E sulla strada vivono i gatti, ragazzi orfani, gli yakuza e la gente comune.
La strada è dura, e dunque bisogna diventare disillusi e resistenti alle avversità come Nero (Kuro), ma è possibile rimanere anche un po’ bambini come il suo amico (o fratello) Bianco (Shiro): l’importante è non rimanere soli, come ci insegna la massima “Chi è solo è sempre in cattiva compagnia”. Bianco e Nero hanno bisogno l’uno dell’altro, perché si completano come lo Yin e lo Yang. Nero dice che la città tesoro (un quartiere centrale di una città non meglio identificata) è sua, Bianco sogna di volare al mare e prendere lì casa. Il topo, yakuza cavalleresco, sogna la sua vecchia città tesoro e tradisce i suoi compagni, per salvarla dal serpente. La sua morte è splendida. Molti muoiono, anche se alcune morti sono strane: i tre killer cinesi avrebbero potuto uccidere cento volte i gatti. E il Minotauro chi è? Esiste veramente, anche se lo vediamo in azione?
Comunque, gli sfondi curati dallo studio Ghibli si salvano dal disegno dei personaggi veramente brutto, ma che forse è funzionale alla storia. Il regista americano non spicca per genialità e tutto sommato la seconda parte della storia non convince per niente. All’inizio mi pregustavo un gran bel film, ma alla fine raffazzona un sei.
Questo anime si ambienta in un mondo parallelo, con tecnologie riconducibili ai nostri anni '60 e '70.
Si immagina una città molto caotica e affollata, piena di disordine nell'arredo urbano (dettagliatamente illustrato dai disegnatori). In questo mondo, che ricorda un po' i bassifondi e le favelas brasiliane, i bambini e i ragazzini orfani sono lasciati sovente a loro stessi, diventando dei microcriminali che vivono di furtarelli o formano bande dedite a spaccio e lotta con altre bande: situazioni classiche di degrado che possiamo ritrovare nelle grandi metropoli di oggi, in particolare nel Terzo Mondo.
Protagonisti di questo film di animazione sono appunto due bambini orfani, detti "i gatti" per la loro abilità di saltare sui tetti e di essere sfuggenti alle forze dell'ordine. Un bambino è soprannominato "Nero", è quello più grande, dall'animo più duro e disincantato. Quello più piccolo e tenerissimo è nominato "Bianco", e vive in un mondo candido di fantasia, con il suo animo puro così ben delineato dai caratteristi. Ci si affeziona subito a Bianco, in quanto è dolcissimo, ma ben lontano dagli antipatici bimbi viziati che troviamo nelle pubblicità.
Il film narra la vicenda di questi due bambini, che cercano di sopravvivere in una città dove microcriminalità e grandi mafie lottano tra loro per il controllo dei quartieri o dell'intera città. Si noterà come nomi e soprannomi non sono casuali, ma carichi di simbolismo, così come molte immagini e scene secondarie.
Il character design dei personaggi non è molto bello, ma è compensato da sfondi davvero curati e dettagliati. Più che discreta l'animazione e la regia. Musiche di non particolare rilievo, ma gradevoli.
Consiglio la visione di questo film a tutti: vedrete che il piccolo Bianco vi resterà nel cuore.
Si immagina una città molto caotica e affollata, piena di disordine nell'arredo urbano (dettagliatamente illustrato dai disegnatori). In questo mondo, che ricorda un po' i bassifondi e le favelas brasiliane, i bambini e i ragazzini orfani sono lasciati sovente a loro stessi, diventando dei microcriminali che vivono di furtarelli o formano bande dedite a spaccio e lotta con altre bande: situazioni classiche di degrado che possiamo ritrovare nelle grandi metropoli di oggi, in particolare nel Terzo Mondo.
Protagonisti di questo film di animazione sono appunto due bambini orfani, detti "i gatti" per la loro abilità di saltare sui tetti e di essere sfuggenti alle forze dell'ordine. Un bambino è soprannominato "Nero", è quello più grande, dall'animo più duro e disincantato. Quello più piccolo e tenerissimo è nominato "Bianco", e vive in un mondo candido di fantasia, con il suo animo puro così ben delineato dai caratteristi. Ci si affeziona subito a Bianco, in quanto è dolcissimo, ma ben lontano dagli antipatici bimbi viziati che troviamo nelle pubblicità.
Il film narra la vicenda di questi due bambini, che cercano di sopravvivere in una città dove microcriminalità e grandi mafie lottano tra loro per il controllo dei quartieri o dell'intera città. Si noterà come nomi e soprannomi non sono casuali, ma carichi di simbolismo, così come molte immagini e scene secondarie.
Il character design dei personaggi non è molto bello, ma è compensato da sfondi davvero curati e dettagliati. Più che discreta l'animazione e la regia. Musiche di non particolare rilievo, ma gradevoli.
Consiglio la visione di questo film a tutti: vedrete che il piccolo Bianco vi resterà nel cuore.
Pur essendo, probabilmente, “TekkonKinkreet” molto famoso, negli ultimi anni se ne è parlato sempre meno, finendo per essere dimenticato dai più. È il primo anime ad esser gestito da un occidentale, ovvero dall’americano Michael Arias, già celebre in Giappone per “Animatrix”, e che diventerà più conosciuto nel 2015 con “Harmony”. Oltre a questo, “TekkonKinkreet” risulta famoso perché tratto da un manga di Taiyo Matsumoto. Vi dice niente? Proprio l’autore di “Ping Pong the Animation” e del più recente “Sunny”... eh sì, lo stile di disegno è riconoscibilissimo!
La trama del film è incentrata sulle avventure di due bambini orfani, Bianco e Nero, molto legati l’uno all’altro, che vivono in un sobborgo degradato, dove disillusione, criminalità e inquinamento sono all’ordine del giorno. La città viene rappresentata come qualcosa di fantastico, una sorta di “isola che non c’è”, pur non avendo nulla di particolare da offrire. I due vivono rubacchiando, ed ergendosi difensori del loro territorio. Non gli interessa vivere nella miseria, finché sono insieme. Nonostante il loro legame, non potrebbero essere più diversi, e già dai nomi scelti si intuisce la contrapposizione tra due poli opposti: Nero è il bambino più razionale, più protettivo e forte; Bianco, al contrario, è più espansivo, solare, immaturo e debole... Assomiglia a un vero e proprio bambino, insomma. La svolta arriva quando degli Yakuza intendono trasformare la loro città in un parco divertimenti, e i due sono costretti a separarsi.
Il film è il culmine dell’esasperazione, è totalmente privo di compromessi, e ci mostra le reazioni opposte di due bambini opposti, a una situazione del tutto nuova per loro. Se Bianco, che è il più debole, riesce a rialzarsi proprio grazie alla sua ingenuità, Nero cade in una spirale di violenza e follia, perché perde quell’unica persona che gli regalava un certo equilibrio.
“TekkonKinkreet” riesce a toccare tutte le tematiche più tristi, con una maestria unica e, prima fra tutti, la contrapposizione tra i sogni dell’infanzia (rappresentati prima da entrambi i bambini, e poi dalla sola spensieratezza di Bianco) e la mediocrità della vita adulta.
Anche la scelta dei nomi dei nostri due piccoli eroi segna la contrapposizione principale: lo Yin e lo Yang rappresentano, in origine, “l’ombra” e “la luce”, il bianco e il nero... due parti uguali e necessarie di uno stesso insieme. Bianco e Nero sono forti soltanto quando sono insieme, loro si necessitano a vicenda per sopravvivere.
Anche sul lato tecnico nulla da dire, la grafica è sperimentale, c’è una contrapposizione tra fondali dettagliati e colorati, e il chara particolare e quasi stilizzato dei personaggi.
In sostanza, consiglio caldamente a tutti la visione di questo meraviglioso film, suggerendo di non lasciarsi intimorire da uno stile di disegni che, probabilmente, è difficile da apprezzare!
La trama del film è incentrata sulle avventure di due bambini orfani, Bianco e Nero, molto legati l’uno all’altro, che vivono in un sobborgo degradato, dove disillusione, criminalità e inquinamento sono all’ordine del giorno. La città viene rappresentata come qualcosa di fantastico, una sorta di “isola che non c’è”, pur non avendo nulla di particolare da offrire. I due vivono rubacchiando, ed ergendosi difensori del loro territorio. Non gli interessa vivere nella miseria, finché sono insieme. Nonostante il loro legame, non potrebbero essere più diversi, e già dai nomi scelti si intuisce la contrapposizione tra due poli opposti: Nero è il bambino più razionale, più protettivo e forte; Bianco, al contrario, è più espansivo, solare, immaturo e debole... Assomiglia a un vero e proprio bambino, insomma. La svolta arriva quando degli Yakuza intendono trasformare la loro città in un parco divertimenti, e i due sono costretti a separarsi.
Il film è il culmine dell’esasperazione, è totalmente privo di compromessi, e ci mostra le reazioni opposte di due bambini opposti, a una situazione del tutto nuova per loro. Se Bianco, che è il più debole, riesce a rialzarsi proprio grazie alla sua ingenuità, Nero cade in una spirale di violenza e follia, perché perde quell’unica persona che gli regalava un certo equilibrio.
“TekkonKinkreet” riesce a toccare tutte le tematiche più tristi, con una maestria unica e, prima fra tutti, la contrapposizione tra i sogni dell’infanzia (rappresentati prima da entrambi i bambini, e poi dalla sola spensieratezza di Bianco) e la mediocrità della vita adulta.
Anche la scelta dei nomi dei nostri due piccoli eroi segna la contrapposizione principale: lo Yin e lo Yang rappresentano, in origine, “l’ombra” e “la luce”, il bianco e il nero... due parti uguali e necessarie di uno stesso insieme. Bianco e Nero sono forti soltanto quando sono insieme, loro si necessitano a vicenda per sopravvivere.
Anche sul lato tecnico nulla da dire, la grafica è sperimentale, c’è una contrapposizione tra fondali dettagliati e colorati, e il chara particolare e quasi stilizzato dei personaggi.
In sostanza, consiglio caldamente a tutti la visione di questo meraviglioso film, suggerendo di non lasciarsi intimorire da uno stile di disegni che, probabilmente, è difficile da apprezzare!
Attenzione: la recensione contiene lievi spoiler
Che anime ragazzi! Una trama complessa, profonda, emozionante, ricca di poesia, ironia, drammaticità.
Bianco e Nero sono due bimbi fratelli e orfani, molto legati l’uno all'altro, che vivono a Città Tesoro, un sobborgo degradato e deprimente, abitato da persone disagiate e disilluse, conteso da criminali e bande giovanili, sporco e inquinato. Nonostante siano molto giovani, vivono come piccoli criminali, rubando, pestando piccole bande per la difesa del loro territorio, vivendo nella vera povertà e miseria, dormendo in un'auto o nei parchi con un barbone loro amico, rovistando nei cassonetti. Si fanno chiamare Gatti, per via della loro agilità e violenza contro chi si mette contro di loro.
Il nome di questi ragazzi esprime in maniera semplice e allo stesso tempo profonda le personalità dei due fratelli, così diverse tra loro, eppure intimamente complementari: Nero è il fratello giudizioso all'apparenza, riflessivo, protettivo, introverso e soprattutto aggressivo. Difende il fratellino Bianco a spada tratta e ne ha fatto la propria ragione di vita. Bianco, di riflesso, come il colore è l'esatto opposto del fratello psicologicamente: un bambino socievole, simpatico, espansivo, solare, sensibile, ma soprattutto un gran sognatore. Il legame tra i due protagonisti è quanto di più profondo si possa immaginare. A differenza di Nero, Bianco è ancora fortemente ingenuo e conserva quell'innocenza e spensieratezza tipica della sua età infantile. E' lui il vero faro di tutta la storia. Anche se non sembra, è Bianco che protegge il fratello, perché la sua presenza tranquillizza l'inquietudine di Nero e lo rasserena.
I due Gatti, per via del loro temperamento teppistico, costituiscono un ostacolo per un losco e potente yakuza megalomane intenzionato, con altri clan mafiosi, a trasformare Città Tesoro in un gigantesco parco divertimenti. Quindi manderà tre sicari un po' particolari ad eliminare i Gatti.
E qui il grande legame che unisce i due fratelli viene messo a rischio e a dura prova, e ci regala scene di meravigliosa bellezza che fanno riflettere, come la totale disperazione in cui entrambi cadono dopo essere stati separati. Bianco, nonostante lo strazio iniziale, riesce in parte a rialzarsi, grazie alla propria natura ingenua e allegra, senza però smettere di pensare al fratello. Nero, d'altro canto, dopo aver perso l'unica persona che gli dava stabilità psicologica con la sua gioia e spensieratezza, cade inevitabilmente in una spirale di violenza e folle distruzione. Diventa disperatamente aggressivo, a tratti catatonico. La mancanza di quella figura positiva che era il fratello lo destabilizza psicologicamente al punto da riflettere l'immagine di Bianco su un pupazzo, e il suo inconscio crede che sia proprio lui. Culmine di questa discesa negli abissi dell'oscurità è l'incontro con la quintessenza della malvagità: il famigerato Minotauro, che rappresenta sé stesso, la sua parte più intimamente oscura e violenta. E qui viene mostrata con grande maestria la lotta interiore di Nero, dilaniato tra la nostalgia e la necessità di Bianco e il totale abbandono a un mondo di crudeltà, sofferenza e disperazione. Mostra con grande impatto il fascino del Male su una mente indebolita dalla solitudine, dal dolore, dalla miseria. Per culminare in un finale fantastico ed emozionante. Mi ha toccato nel profondo, non lo nego.
Dal punto di vista tecnico, le scene sono ben girate, con il giusto ritmo, l'architettura è curatissima, i personaggi ben disegnati.
Notevole il doppiaggio, che gode di ottime interpretazioni. Che grandi doppiatori abbiamo in italia!
In sostanza, consiglio a tutti la visione di questo splendido anime. Davvero strepitoso!
"TekkonKinkreet" è un microcosmo vivo e pulsante dove si intrecciano legalità e crimine, innocenza e sete di sangue, sogni e avidità, speranze e paure, disperazione e riscatto, intenso amore fraterno e purezza.
Che anime ragazzi! Una trama complessa, profonda, emozionante, ricca di poesia, ironia, drammaticità.
Bianco e Nero sono due bimbi fratelli e orfani, molto legati l’uno all'altro, che vivono a Città Tesoro, un sobborgo degradato e deprimente, abitato da persone disagiate e disilluse, conteso da criminali e bande giovanili, sporco e inquinato. Nonostante siano molto giovani, vivono come piccoli criminali, rubando, pestando piccole bande per la difesa del loro territorio, vivendo nella vera povertà e miseria, dormendo in un'auto o nei parchi con un barbone loro amico, rovistando nei cassonetti. Si fanno chiamare Gatti, per via della loro agilità e violenza contro chi si mette contro di loro.
Il nome di questi ragazzi esprime in maniera semplice e allo stesso tempo profonda le personalità dei due fratelli, così diverse tra loro, eppure intimamente complementari: Nero è il fratello giudizioso all'apparenza, riflessivo, protettivo, introverso e soprattutto aggressivo. Difende il fratellino Bianco a spada tratta e ne ha fatto la propria ragione di vita. Bianco, di riflesso, come il colore è l'esatto opposto del fratello psicologicamente: un bambino socievole, simpatico, espansivo, solare, sensibile, ma soprattutto un gran sognatore. Il legame tra i due protagonisti è quanto di più profondo si possa immaginare. A differenza di Nero, Bianco è ancora fortemente ingenuo e conserva quell'innocenza e spensieratezza tipica della sua età infantile. E' lui il vero faro di tutta la storia. Anche se non sembra, è Bianco che protegge il fratello, perché la sua presenza tranquillizza l'inquietudine di Nero e lo rasserena.
I due Gatti, per via del loro temperamento teppistico, costituiscono un ostacolo per un losco e potente yakuza megalomane intenzionato, con altri clan mafiosi, a trasformare Città Tesoro in un gigantesco parco divertimenti. Quindi manderà tre sicari un po' particolari ad eliminare i Gatti.
E qui il grande legame che unisce i due fratelli viene messo a rischio e a dura prova, e ci regala scene di meravigliosa bellezza che fanno riflettere, come la totale disperazione in cui entrambi cadono dopo essere stati separati. Bianco, nonostante lo strazio iniziale, riesce in parte a rialzarsi, grazie alla propria natura ingenua e allegra, senza però smettere di pensare al fratello. Nero, d'altro canto, dopo aver perso l'unica persona che gli dava stabilità psicologica con la sua gioia e spensieratezza, cade inevitabilmente in una spirale di violenza e folle distruzione. Diventa disperatamente aggressivo, a tratti catatonico. La mancanza di quella figura positiva che era il fratello lo destabilizza psicologicamente al punto da riflettere l'immagine di Bianco su un pupazzo, e il suo inconscio crede che sia proprio lui. Culmine di questa discesa negli abissi dell'oscurità è l'incontro con la quintessenza della malvagità: il famigerato Minotauro, che rappresenta sé stesso, la sua parte più intimamente oscura e violenta. E qui viene mostrata con grande maestria la lotta interiore di Nero, dilaniato tra la nostalgia e la necessità di Bianco e il totale abbandono a un mondo di crudeltà, sofferenza e disperazione. Mostra con grande impatto il fascino del Male su una mente indebolita dalla solitudine, dal dolore, dalla miseria. Per culminare in un finale fantastico ed emozionante. Mi ha toccato nel profondo, non lo nego.
Dal punto di vista tecnico, le scene sono ben girate, con il giusto ritmo, l'architettura è curatissima, i personaggi ben disegnati.
Notevole il doppiaggio, che gode di ottime interpretazioni. Che grandi doppiatori abbiamo in italia!
In sostanza, consiglio a tutti la visione di questo splendido anime. Davvero strepitoso!
"TekkonKinkreet" è un microcosmo vivo e pulsante dove si intrecciano legalità e crimine, innocenza e sete di sangue, sogni e avidità, speranze e paure, disperazione e riscatto, intenso amore fraterno e purezza.
Che sia un film che gode di sé stesso e si crogiola in una certa spocchia autosufficiente è palese, ma questo per me non è altro che un valore aggiunto a una scenografia e una regia di altissimo livello. Forse la trama si sarebbe potuta ampliare dando uno sfondo alla storia di Kuro e Shiro, anche perché tra le critiche vi era proprio l'eccessiva libertà che il regista si è preso nei confronti del manga originario; conseguentemente, un leggero maggiore interesse nel dare delle solide basi a ciò che lo spettatore osserva sarebbe stato apprezzabile e apprezzato. Questo comunque sarebbe stato un surplus, perché, a mio parere, "TekkonKinkreet" va apprezzato per il suo sfavillio intenso: i volti dei personaggi così poco strutturati e bambineschi - seppure quasi verosimili rispetto ad opere come "Kemonozume" - creano un incredibile agrodolce nella loro sovrapposizione a sfondi iperrealistici, sebbene onirici e quasi schizofrenici. L'architettura è curatissima, e d'altronde fa da padrona in quasi tutte le scene; vi è un roteante sincretismo di bassifondi, temi da luna-park e astrazioni iper-barocche con un pizzico di mitologia indù. Onestamente il film va guardato anche e quasi soprattutto per questo, sebbene per molti possa essere una completa eresia. Non sono, comunque, stato troppo impressionato dal concetto, che avevo già visto in - e andiamo verso operette colte da pochi estimatori - "Onkyou Seimeitai Noiseman" e nel più fortunato "Paprika". Certo è che qui è stato fatto in modo magnificente.
Forse due ore di visione di magnifiche palazzine è leggermente eccessivo e la mente potrebbe perdere la concentrazione attorno alla metà dell'opera, se non fosse che l'ultimo terzo del film si riprende violentemente scatenando tutte le energie trattenute dall'allontanamento dei due poli magnetici, che tendono necessariamente all'appropinquamento.
Ottimo pre-finale e ottimo finale, entrambi opposti, ma l'uno il completamento dell'altro, tema d'altronde fondamentale: il primo caliginoso, martellante, quasi una riproposizione del lupo miuriano in chiave più pop, il secondo vitale, ceruleo e lieto, a dimostrare che anche da un cumulo di polvere e macerie truculente può germogliare qualcosa di verde brillante.
Forse due ore di visione di magnifiche palazzine è leggermente eccessivo e la mente potrebbe perdere la concentrazione attorno alla metà dell'opera, se non fosse che l'ultimo terzo del film si riprende violentemente scatenando tutte le energie trattenute dall'allontanamento dei due poli magnetici, che tendono necessariamente all'appropinquamento.
Ottimo pre-finale e ottimo finale, entrambi opposti, ma l'uno il completamento dell'altro, tema d'altronde fondamentale: il primo caliginoso, martellante, quasi una riproposizione del lupo miuriano in chiave più pop, il secondo vitale, ceruleo e lieto, a dimostrare che anche da un cumulo di polvere e macerie truculente può germogliare qualcosa di verde brillante.
"Tekkon Kinkreet" (sottotitolo italiano: "Soli contro tutti") è un film d'animazione giapponese del 2006, diretto dal regista americano, ma giapponese d'adozione, Michael Arias. E' tratto dall'omonimo manga di Taiyo Matsumoto.
Attenzione: la recensione contiene lievi spoiler
Bianco (Shiro) e Nero (Kuro) sono due giovanissimi fratelli orfani, molto legati l’uno all'altro, che vivono di furtarelli e scontri con altri monelli e piccoli criminali a Città Tesoro, un enorme e caotico distretto di una cosmopolita città giapponese non meglio identificata. Nero è silenzioso, introverso, aggressivo e si riferisce a quel disordinato agglomerato di case come "la sua città". Tendenzialmente solitario, ha fatto della protezione del più debole Bianco la propria ragione di vita: quest'ultimo, infatti, è un bambino espansivo, solare, sensibile e molto emotivo, facile al pianto come al sorriso.
I due, noti come "I Gatti" per via della loro agilità, costituiscono un ostacolo per un losco e ambiguo affarista straniero, intenzionato, con l'aiuto di yakuza e finanzieri disonesti, a trasformare Tesoro in un gigantesco parco divertimenti.
Contro i due ragazzini, dunque, vengono inviati tre feroci e brutali assassini, che di umano hanno ben poco. In seguito al grave ferimento di Bianco, egli viene preso in custodia dalla polizia per protezione, mentre Nero, ormai privo del sostegno morale e psicologico di Bianco, viene lasciato solo ad affrontare il proprio lato più oscuro e violento, rappresentato da un'entità nota come il Minotauro.
"Tekkon Kinkreet" si configura, già dalle primissime sequenze, come un anime pesantemente influenzato dallo stile di disegno e dall'animazione occidentale e, in particolare, europea. Probabilmente, se non fosse stato per i nomi dei personaggi e per alcuni particolari dell'ambientazione (insegne, ecc.) mi sarebbe stato difficile credere di trovarmi di fronte ad un prodotto nipponico (seppur con un regista americano).
In particolare, il design dei personaggi, costituito da poche linee che però non mancano di caratterizzare inequivocabilmente ogni membro del cast, unito a sfondi dettagliati e ad un uso creativo della prospettiva, mi ha immediatamente ricordato alcuni prodotti animati francesi.
Ciascun personaggio, Nero e Bianco su tutti, è ben approfondito psicologicamente e, anche quando lo spazio ad esso dedicato è minimo, riesce comunque ad esprimere se stesso in maniera eccellente e a risultare completo, reale e affascinante. Magistrale l'interpretazione di Suzuki, attempato boss della yazuka, che non può fare a meno di guardare con occhi colmi di malinconia e nostalgia i cambiamenti che sconvolgono Città Tesoro, il mondo in cui è cresciuto e si formato. Tuttavia, è Bianco il vero faro di questa storia: con la sua disarmante spontaneità e la sua perspicacia, con i suoi vaneggiamenti e le inquietanti premonizioni, egli manifesta un’unione unica e speciale non solo con Città Tesoro, ma con le energie dell’universo, che recepisce in base alla propria fervida immaginazione e da cui è sollevato o atterrito.
Il legame tra i due protagonisti è quanto di più profondo si possa immaginare e rappresentare: la forza del loro rapporto è evidente nel sostegno reciproco, nei loro sogni di un futuro assieme, lontano dalla povertà e dalla violenza, e nella totale disperazione in cui si cadono dopo essere stati separati. Bianco, nonostante lo strazio iniziale, riesce in parte ad adattarsi, grazie alla propria natura ingenua e allegra, senza però smettere di pensare a Nero e al fatto che entrambi siano indispensabili alla reciproca sopravvivenza. Nero, d'altro canto, dopo aver perso la sua unica fonte di luce e speranza, viene risucchiato in una spirale di ferocia belluina, precipitando in una sorta di stato catatonico, ormai ridotto ad un relitto umano. Culmine di questa discesa all'inferno è l'incontro con la quintessenza dell'oscurità e della malvagità: il famigerato Minotauro. La lotta interiore di Nero, dilaniato tra la fedeltà a Bianco e il totale abbandono ad un mondo di crudeltà, sofferenza e disperazione, è sicuramente la scena più suggestiva e spettacolare di tutto il film, qualcosa che andrebbe rivisto all'infinito; grazie ad un'atmosfera angosciante, vibrante e inquieta, trasmette alla perfezione il disturbante fascino che il Male può esercitare su una mente indebolita dagli stenti e dalla solitudine.
Città Tesoro è un sobborgo degradato realistico e, proprio in quanto tale, deprimente: abitato da persone disagiate e disilluse, conteso da gruppi criminali e bande giovanili, sporco e inquinato, rende bene l'idea di un complesso di edifici e anime con i giorni contati che si trascina lentamente verso la fine del proprio tempo, ricolmo di vita e allo stesso tempo apatico, incapace di reggere il ritmo incalzante del progresso. Invece, alcuni dei bucolici e pacifici paesaggi che compaiono nei sogni di Bianco (apnea subacquea e fantasie animate vivacemente dipinte) e alla fine del film, di una bellezza onirica tale da far dimenticare il dolore vissuto pochi minuti prima, si pongono in netto contrasto nei confronti di una realtà sordida e rugginosa.
Riguardo la componente tecnica: emblematico è il design dei personaggi, volutamente sgraziato e scarno, sia per quanto riguarda le fisionomie, delineate da pochi tratti essenziali e inconfondibili, sia per il vestiario e gli accessori. Al contrario, gli sfondi aggrediscono e soffocano lo spettatore con una moltitudine di dettagli e colori, in una grandiosa manifestazione di horror vacui. L’ambientazione, non mero contenitore della storia narrata, ma protagonista quasi senziente, è esplorata in ogni suo anfratto (dagli alti minareti ai vicoli più miserabili) da una regia alla costante ricerca di soluzioni sempre nuove e dinamiche: movimenti frenetici della camera nelle scene d’azione e di inseguimento e lenti o statici negli attimi più riflessivi, prospettive distorte, inquadrature dal basso e a volo d’uccello ed ampie panoramiche, che raffigurano Città Tesoro come un grottesca concrezione artificiale troppo grande e insostenibile per un mondo così piccolo.
Anche la computer grafica, cui si fa ricorso soprattutto negli sfondi e per alcuni particolari, è curatissima e si amalgama alla perfezione con il disegno tradizionale.
Le animazioni sono ottime, fluide e riescono a catturare alla perfezione l’essenza dei personaggi e della vicenda con il loro andamento leggermente sincopato.
La colonna sonora accompagna adeguatamente la vicenda in ogni circostanza, ma è talmente discreta da passare quasi inosservata, ad eccezione del penultimo brano, una melodia strumentale così gioiosa e rilassante che stringe il cuore. La seconda parte dei titoli di coda, invece, è dominata da “Aru Machi no Gunjou” (“A Town in Blue”), una canzone degli Asian Kung-Fu Generation che, per quanto orecchiabile, risulta poco affine ai toni generali della vicenda.
Di buon livello è anche il doppiaggio italiano, che, ad esclusione di un paio di performance sottotono (ma associate a personaggi molto secondari, quindi quasi impercettibili), gode di grandi interpretazioni, che contribuiscono a rendere Città Tesoro un microcosmo vivo e multiforme in cui si intrecciano drammi, sogni, paure e speranze, dove si incontrano e scontrano la fede in Dio e l’amore per i propri cari, la sete di sangue e l’avidità, legalità e crimine.
"Tekkon Kinkreet" è un racconto visionario e surreale, di stampo intimo e raccolto, ma, allo stesso tempo, potente e universale: è la storia di due ragazzini in lotta contro il mondo intero e dell'umanità nella sua dimensione più generale e comprensiva, perennemente contesa dall'Oscurità, mai così allettante e disturbante, e dalla Luce, fioca e solitaria, ma sempre pronta a guidare fuori dal baratro chiunque vi sia precipitato. Tuttavia, è anche un monito per non dimenticare che la parte più irrazionale e violenta di noi è sempre in agguato nei recessi più profondi del nostro animo, in attesa di approfittare dei nostri momenti di debolezza per prendere il sopravvento.
Attenzione: la recensione contiene lievi spoiler
Bianco (Shiro) e Nero (Kuro) sono due giovanissimi fratelli orfani, molto legati l’uno all'altro, che vivono di furtarelli e scontri con altri monelli e piccoli criminali a Città Tesoro, un enorme e caotico distretto di una cosmopolita città giapponese non meglio identificata. Nero è silenzioso, introverso, aggressivo e si riferisce a quel disordinato agglomerato di case come "la sua città". Tendenzialmente solitario, ha fatto della protezione del più debole Bianco la propria ragione di vita: quest'ultimo, infatti, è un bambino espansivo, solare, sensibile e molto emotivo, facile al pianto come al sorriso.
I due, noti come "I Gatti" per via della loro agilità, costituiscono un ostacolo per un losco e ambiguo affarista straniero, intenzionato, con l'aiuto di yakuza e finanzieri disonesti, a trasformare Tesoro in un gigantesco parco divertimenti.
Contro i due ragazzini, dunque, vengono inviati tre feroci e brutali assassini, che di umano hanno ben poco. In seguito al grave ferimento di Bianco, egli viene preso in custodia dalla polizia per protezione, mentre Nero, ormai privo del sostegno morale e psicologico di Bianco, viene lasciato solo ad affrontare il proprio lato più oscuro e violento, rappresentato da un'entità nota come il Minotauro.
"Tekkon Kinkreet" si configura, già dalle primissime sequenze, come un anime pesantemente influenzato dallo stile di disegno e dall'animazione occidentale e, in particolare, europea. Probabilmente, se non fosse stato per i nomi dei personaggi e per alcuni particolari dell'ambientazione (insegne, ecc.) mi sarebbe stato difficile credere di trovarmi di fronte ad un prodotto nipponico (seppur con un regista americano).
In particolare, il design dei personaggi, costituito da poche linee che però non mancano di caratterizzare inequivocabilmente ogni membro del cast, unito a sfondi dettagliati e ad un uso creativo della prospettiva, mi ha immediatamente ricordato alcuni prodotti animati francesi.
Ciascun personaggio, Nero e Bianco su tutti, è ben approfondito psicologicamente e, anche quando lo spazio ad esso dedicato è minimo, riesce comunque ad esprimere se stesso in maniera eccellente e a risultare completo, reale e affascinante. Magistrale l'interpretazione di Suzuki, attempato boss della yazuka, che non può fare a meno di guardare con occhi colmi di malinconia e nostalgia i cambiamenti che sconvolgono Città Tesoro, il mondo in cui è cresciuto e si formato. Tuttavia, è Bianco il vero faro di questa storia: con la sua disarmante spontaneità e la sua perspicacia, con i suoi vaneggiamenti e le inquietanti premonizioni, egli manifesta un’unione unica e speciale non solo con Città Tesoro, ma con le energie dell’universo, che recepisce in base alla propria fervida immaginazione e da cui è sollevato o atterrito.
Il legame tra i due protagonisti è quanto di più profondo si possa immaginare e rappresentare: la forza del loro rapporto è evidente nel sostegno reciproco, nei loro sogni di un futuro assieme, lontano dalla povertà e dalla violenza, e nella totale disperazione in cui si cadono dopo essere stati separati. Bianco, nonostante lo strazio iniziale, riesce in parte ad adattarsi, grazie alla propria natura ingenua e allegra, senza però smettere di pensare a Nero e al fatto che entrambi siano indispensabili alla reciproca sopravvivenza. Nero, d'altro canto, dopo aver perso la sua unica fonte di luce e speranza, viene risucchiato in una spirale di ferocia belluina, precipitando in una sorta di stato catatonico, ormai ridotto ad un relitto umano. Culmine di questa discesa all'inferno è l'incontro con la quintessenza dell'oscurità e della malvagità: il famigerato Minotauro. La lotta interiore di Nero, dilaniato tra la fedeltà a Bianco e il totale abbandono ad un mondo di crudeltà, sofferenza e disperazione, è sicuramente la scena più suggestiva e spettacolare di tutto il film, qualcosa che andrebbe rivisto all'infinito; grazie ad un'atmosfera angosciante, vibrante e inquieta, trasmette alla perfezione il disturbante fascino che il Male può esercitare su una mente indebolita dagli stenti e dalla solitudine.
Città Tesoro è un sobborgo degradato realistico e, proprio in quanto tale, deprimente: abitato da persone disagiate e disilluse, conteso da gruppi criminali e bande giovanili, sporco e inquinato, rende bene l'idea di un complesso di edifici e anime con i giorni contati che si trascina lentamente verso la fine del proprio tempo, ricolmo di vita e allo stesso tempo apatico, incapace di reggere il ritmo incalzante del progresso. Invece, alcuni dei bucolici e pacifici paesaggi che compaiono nei sogni di Bianco (apnea subacquea e fantasie animate vivacemente dipinte) e alla fine del film, di una bellezza onirica tale da far dimenticare il dolore vissuto pochi minuti prima, si pongono in netto contrasto nei confronti di una realtà sordida e rugginosa.
Riguardo la componente tecnica: emblematico è il design dei personaggi, volutamente sgraziato e scarno, sia per quanto riguarda le fisionomie, delineate da pochi tratti essenziali e inconfondibili, sia per il vestiario e gli accessori. Al contrario, gli sfondi aggrediscono e soffocano lo spettatore con una moltitudine di dettagli e colori, in una grandiosa manifestazione di horror vacui. L’ambientazione, non mero contenitore della storia narrata, ma protagonista quasi senziente, è esplorata in ogni suo anfratto (dagli alti minareti ai vicoli più miserabili) da una regia alla costante ricerca di soluzioni sempre nuove e dinamiche: movimenti frenetici della camera nelle scene d’azione e di inseguimento e lenti o statici negli attimi più riflessivi, prospettive distorte, inquadrature dal basso e a volo d’uccello ed ampie panoramiche, che raffigurano Città Tesoro come un grottesca concrezione artificiale troppo grande e insostenibile per un mondo così piccolo.
Anche la computer grafica, cui si fa ricorso soprattutto negli sfondi e per alcuni particolari, è curatissima e si amalgama alla perfezione con il disegno tradizionale.
Le animazioni sono ottime, fluide e riescono a catturare alla perfezione l’essenza dei personaggi e della vicenda con il loro andamento leggermente sincopato.
La colonna sonora accompagna adeguatamente la vicenda in ogni circostanza, ma è talmente discreta da passare quasi inosservata, ad eccezione del penultimo brano, una melodia strumentale così gioiosa e rilassante che stringe il cuore. La seconda parte dei titoli di coda, invece, è dominata da “Aru Machi no Gunjou” (“A Town in Blue”), una canzone degli Asian Kung-Fu Generation che, per quanto orecchiabile, risulta poco affine ai toni generali della vicenda.
Di buon livello è anche il doppiaggio italiano, che, ad esclusione di un paio di performance sottotono (ma associate a personaggi molto secondari, quindi quasi impercettibili), gode di grandi interpretazioni, che contribuiscono a rendere Città Tesoro un microcosmo vivo e multiforme in cui si intrecciano drammi, sogni, paure e speranze, dove si incontrano e scontrano la fede in Dio e l’amore per i propri cari, la sete di sangue e l’avidità, legalità e crimine.
"Tekkon Kinkreet" è un racconto visionario e surreale, di stampo intimo e raccolto, ma, allo stesso tempo, potente e universale: è la storia di due ragazzini in lotta contro il mondo intero e dell'umanità nella sua dimensione più generale e comprensiva, perennemente contesa dall'Oscurità, mai così allettante e disturbante, e dalla Luce, fioca e solitaria, ma sempre pronta a guidare fuori dal baratro chiunque vi sia precipitato. Tuttavia, è anche un monito per non dimenticare che la parte più irrazionale e violenta di noi è sempre in agguato nei recessi più profondi del nostro animo, in attesa di approfittare dei nostri momenti di debolezza per prendere il sopravvento.
Un adattamento - tanto etereo quanto granitico - dall'omonimo manga di Taiyo Matsumoto "Black and White" (Kuro to Shiro), gestito da Michael Arias: "TekkonKinkreet" è il primo americano che si cimenta nel ruolo di regista per un film d'animazione che si evolve nella dualità di ogni estremo: è banale ma complesso, spietato ma clemente, che parla in prosa ma in poesia.
In una città (Treasure Town) che è tutta un tesoro per i protagonisti, in un mondo che è sconosciuto ma desiderato, la sceneggiatura ci catapulta nelle peripezie quotidiane dei Gatti e dei Ratti, della zona della società più bassa, figurata e non, estendendo esplicitamente il disegno della realtà senza cancellature di gomma, all'interno di quel foglio che non è né bianco né nero - né Shiro né Kuro, i protagonisti - ma è tutto e nulla, e basta.
In altre parole, l'antitesi tra due entità, il contrasto di una coppia che continuamente si scambia una parte di sé confondendola con l'altra metà: questa è la chiave per leggere (vedere, meglio) "Tekkonkinkreet"; è lo stesso nome a dircelo: la traduzione letterale del titolo è "cemento armato", nonostante due sillabe siano invertite: cemento armato in giapponese si dice infatti "tekkin konkuriito".
La narrazione, sebbene leggermente cadenzale all'inizio (ma smorzata da una grafica sperimentale e al suo interno antitetica, che fa ritorno al concetto di contrasto), si aggrappa al proprio filo conduttore risalendolo senza fatica alcuna; una narrazione, insomma, rifinita dai ricami di scene d'azione ghiotte di suspense ma allo stesso tempo semplici, di una prevedibilità che non annoia, e guarnita di uno strato delizioso - ma duro - come un dolce morbido ma salato, che è quello della grafica.
La grafica riprende il concetto di lettura dell'animazione, stravolgendone la banalità e sovvertendone l'instabilità: la piacevolezza del reparto grafico di "Tekkonkinkreet" si cela all'ombra del dualismo dello stile di disegno tra personaggi e ambienti, ripiegandosi sui più particolari dettagli di una città immaginaria come quella di Treasure Town e sulle più peculiari sagome del volto vissuto, duro, di due bambini soli, contro tutti.
Una visione panoramica dell'utopia e del desiderio più avido dell'uomo: bramando una città ai propri piedi, l'antagonista, il Serpente, è il destinatario di una vicenda spietata, più della stessa realtà, che riesce a strappare sorrisi e lacrime - è molto più semplice farlo in contesti avversi come questi.
In conclusione, "Tekkonkinkreet" è ciò che voleva essere: un film sperimentale, complicato ma risolvibile, disegnato ai margini di una società che, a sua volta, disegna i margini dei volti di due ragazzi così diversi - ma così vicini - non curandosi di avere affilato troppo la matita da disegno; un'originale produzione interessata a sviluppare, sulla scia che l'innocenza di una tenera età si lascia dietro, l'introspezione di sé, di una vita dura e compatta come il "cemento armato": "Tekkonkinkreet" non è altro che se stesso, un po' diritto, un po' al contrario, dal significato latente, vero.
L'obiettivo che lo studio 4°C si era prefissato era riuscire a creare un titolo del genere. Non diverso. Non differente. Ma questo titolo. È una sorte di perfezione indiretta, nata dalle mani e dalle menti che hanno lavorato allo stesso film.
Una chicca per i cultori dell'animazione. Adatto e consigliato a ogni tipo di pubblico.
In una città (Treasure Town) che è tutta un tesoro per i protagonisti, in un mondo che è sconosciuto ma desiderato, la sceneggiatura ci catapulta nelle peripezie quotidiane dei Gatti e dei Ratti, della zona della società più bassa, figurata e non, estendendo esplicitamente il disegno della realtà senza cancellature di gomma, all'interno di quel foglio che non è né bianco né nero - né Shiro né Kuro, i protagonisti - ma è tutto e nulla, e basta.
In altre parole, l'antitesi tra due entità, il contrasto di una coppia che continuamente si scambia una parte di sé confondendola con l'altra metà: questa è la chiave per leggere (vedere, meglio) "Tekkonkinkreet"; è lo stesso nome a dircelo: la traduzione letterale del titolo è "cemento armato", nonostante due sillabe siano invertite: cemento armato in giapponese si dice infatti "tekkin konkuriito".
La narrazione, sebbene leggermente cadenzale all'inizio (ma smorzata da una grafica sperimentale e al suo interno antitetica, che fa ritorno al concetto di contrasto), si aggrappa al proprio filo conduttore risalendolo senza fatica alcuna; una narrazione, insomma, rifinita dai ricami di scene d'azione ghiotte di suspense ma allo stesso tempo semplici, di una prevedibilità che non annoia, e guarnita di uno strato delizioso - ma duro - come un dolce morbido ma salato, che è quello della grafica.
La grafica riprende il concetto di lettura dell'animazione, stravolgendone la banalità e sovvertendone l'instabilità: la piacevolezza del reparto grafico di "Tekkonkinkreet" si cela all'ombra del dualismo dello stile di disegno tra personaggi e ambienti, ripiegandosi sui più particolari dettagli di una città immaginaria come quella di Treasure Town e sulle più peculiari sagome del volto vissuto, duro, di due bambini soli, contro tutti.
Una visione panoramica dell'utopia e del desiderio più avido dell'uomo: bramando una città ai propri piedi, l'antagonista, il Serpente, è il destinatario di una vicenda spietata, più della stessa realtà, che riesce a strappare sorrisi e lacrime - è molto più semplice farlo in contesti avversi come questi.
In conclusione, "Tekkonkinkreet" è ciò che voleva essere: un film sperimentale, complicato ma risolvibile, disegnato ai margini di una società che, a sua volta, disegna i margini dei volti di due ragazzi così diversi - ma così vicini - non curandosi di avere affilato troppo la matita da disegno; un'originale produzione interessata a sviluppare, sulla scia che l'innocenza di una tenera età si lascia dietro, l'introspezione di sé, di una vita dura e compatta come il "cemento armato": "Tekkonkinkreet" non è altro che se stesso, un po' diritto, un po' al contrario, dal significato latente, vero.
L'obiettivo che lo studio 4°C si era prefissato era riuscire a creare un titolo del genere. Non diverso. Non differente. Ma questo titolo. È una sorte di perfezione indiretta, nata dalle mani e dalle menti che hanno lavorato allo stesso film.
Una chicca per i cultori dell'animazione. Adatto e consigliato a ogni tipo di pubblico.
Tekkonkinkreet è una favola metropolitana. Ma attenzione al termine usato, perché di fiabesco ha ben poco, come si evince anche dalla traduzione letterale del titolo: "cemento armato" (tekkin konkuriito, invertendo due sillabe del titolo)
E' una favola cruda e spietata, dove al posto delle torri medievali ritroviamo palazzi fatiscenti e i banditi si sono evoluti in mafiosi imprenditori, pronti a trasformare la città in un gigantesco luna park. Essa diventa dunque un vortice che risucchia tutto e tutti: vecchi, bambini, criminali,sbirri, prostitute, papponi, barboni…un magmatico calderone di esistenze.
Tra loro due giovani fratelli, Bianco e Nero, cercano a tutti i costi di aggrapparsi alla vita. Diventano teppistelli di quartiere che racimolano soldi rubando, con l'obiettivo di fuggire presto da quell'incubo e trovare riparo in un sogno lontano, come quello di una casa al mare. Il più "puro" dei due è senza dubbio Bianco, il più giovane, che ancora non si rende pienamente conto della malvagità dilagante e si rifugia in un suo mondo fatto di strane creature e bizzarri animali.
Ed è proprio il fratello minore a frenare l'oscuro animo di Nero. Ma quando Bianco verrà affidato ai servizi sociali questo delicato equilibrio tra luci ed ombre svanirà e cederà il posto ai demoni che Nero si porta dentro. Solo l'amore tra i due potrà placare il suo animo irrequieto.
Il disegno spezzato si scontra piacevolmente con i colori cangianti. In modo analogo la storia altamente drammatica e fin troppo realistica ritrova un briciolo di ingenuità e genuinità nei disegni infantili del piccolo Bianco e nelle sue oniriche visioni, che ci accompagnano per i sobborghi di Città Tesoro.
Un'opera senz'altro interessante, che consiglio caldamente a chiunque cerchi qualcosa di particolare ed emozionante al contempo.
E' una favola cruda e spietata, dove al posto delle torri medievali ritroviamo palazzi fatiscenti e i banditi si sono evoluti in mafiosi imprenditori, pronti a trasformare la città in un gigantesco luna park. Essa diventa dunque un vortice che risucchia tutto e tutti: vecchi, bambini, criminali,sbirri, prostitute, papponi, barboni…un magmatico calderone di esistenze.
Tra loro due giovani fratelli, Bianco e Nero, cercano a tutti i costi di aggrapparsi alla vita. Diventano teppistelli di quartiere che racimolano soldi rubando, con l'obiettivo di fuggire presto da quell'incubo e trovare riparo in un sogno lontano, come quello di una casa al mare. Il più "puro" dei due è senza dubbio Bianco, il più giovane, che ancora non si rende pienamente conto della malvagità dilagante e si rifugia in un suo mondo fatto di strane creature e bizzarri animali.
Ed è proprio il fratello minore a frenare l'oscuro animo di Nero. Ma quando Bianco verrà affidato ai servizi sociali questo delicato equilibrio tra luci ed ombre svanirà e cederà il posto ai demoni che Nero si porta dentro. Solo l'amore tra i due potrà placare il suo animo irrequieto.
Il disegno spezzato si scontra piacevolmente con i colori cangianti. In modo analogo la storia altamente drammatica e fin troppo realistica ritrova un briciolo di ingenuità e genuinità nei disegni infantili del piccolo Bianco e nelle sue oniriche visioni, che ci accompagnano per i sobborghi di Città Tesoro.
Un'opera senz'altro interessante, che consiglio caldamente a chiunque cerchi qualcosa di particolare ed emozionante al contempo.
Lungometraggio del 2006 tratto dal manga "Black and White" di Taiyo Matsumoto, si tratta del primo film d'animazione giapponese ad essere diretto da un americano, Michael Arias (già produttore in Animatrix) per lo Studio 4°C.
La storia si sviluppa intorno alle figure di due giovanissimi fratelli orfani cresciuti in strada, due cuccioli randagi alle prese con la crudele realtà di una selvaggia giungla d'asfalto, nella fattispecie dei bassifondi di Treasure Town, quartiere di una megalopoli non ben identificata. L'unione simbiotica fra i due scandirà e caratterizzerà le loro vicende e sarà la loro forza e la loro debolezza, come due siamesi che, inevitabilmente legati, non possono fare a meno l'uno dell'altro. I loro nomi (Black e White) mettono in risalto un dualismo degli opposti (tipico della filosofia taoista) che si ripeterà sotto altre forme durante tutta la durata del film. La disperata innocenza e la voglia di riscatto di White fa da contrappunto all'indole violenta e al lato oscuro di Black. Intorno a queste due figure paradigmatiche gravita un mondo di personaggi, tutti molto ben delineati; fra poliziotti, yakuza, teppistelli e homeless, tutta una gamma di umanità fa capolino sullo schermo e arricchisce una trama che fila liscio fino all'epilogo in cui viene dispensato un inaspettato barlume di luce alla fine del tunnel.
Il ritmo della narrazione è sempre ben cadenzato con scene d'azione funamboliche e spettacolari che tengono alto il livello di adrenalina, e scene patetiche in grado di strappare qualche lacrima agli spettatori più sensibili.
La simbologia degli opposti è evidente anche nel comparto grafico: alle scenografie ed ai fondali, che sfoggiano ricchezza di particolari e una maniacale ricerca del dettaglio più minuzioso (notevoli gli scorci suburbani), fa da contraltare un design dei personaggi piatto e stilizzato ma estremamente efficace ed espressivo, soprattutto nella fluidità delle movenze, che fa un pregevole uso della tecnica "cel-shading": un contrasto portato alle estreme conseguenze che dà un'impronta visiva molto originale al film e ne stabilisce la cifra stilistica votata alla sperimentazione.
La colonna sonora ad opera del duo inglese Plaid è un mix di musica ambient ed elettronica con ritmiche ripetitive ed ipnotiche di grande impatto. Mentre la song sui titoli di coda è firmata dal gruppo giapponese Asian Kung-fu Generation.
Guardando questa pellicola vengono in mente alcuni paralleli e similitudini con altri film ispirati all'infanzia difficile, in particolare "City of God" di Fernando Meirelles con cui condivide l'ambientazione malfamata e "ai margini".
Un film molto intrigante, graficamente e stilisticamente fra i più originali visti di recente, merita senz'altro la visione sia da parte degli appassionati di animazione che dei cinefili più tradizionali.
La storia si sviluppa intorno alle figure di due giovanissimi fratelli orfani cresciuti in strada, due cuccioli randagi alle prese con la crudele realtà di una selvaggia giungla d'asfalto, nella fattispecie dei bassifondi di Treasure Town, quartiere di una megalopoli non ben identificata. L'unione simbiotica fra i due scandirà e caratterizzerà le loro vicende e sarà la loro forza e la loro debolezza, come due siamesi che, inevitabilmente legati, non possono fare a meno l'uno dell'altro. I loro nomi (Black e White) mettono in risalto un dualismo degli opposti (tipico della filosofia taoista) che si ripeterà sotto altre forme durante tutta la durata del film. La disperata innocenza e la voglia di riscatto di White fa da contrappunto all'indole violenta e al lato oscuro di Black. Intorno a queste due figure paradigmatiche gravita un mondo di personaggi, tutti molto ben delineati; fra poliziotti, yakuza, teppistelli e homeless, tutta una gamma di umanità fa capolino sullo schermo e arricchisce una trama che fila liscio fino all'epilogo in cui viene dispensato un inaspettato barlume di luce alla fine del tunnel.
Il ritmo della narrazione è sempre ben cadenzato con scene d'azione funamboliche e spettacolari che tengono alto il livello di adrenalina, e scene patetiche in grado di strappare qualche lacrima agli spettatori più sensibili.
La simbologia degli opposti è evidente anche nel comparto grafico: alle scenografie ed ai fondali, che sfoggiano ricchezza di particolari e una maniacale ricerca del dettaglio più minuzioso (notevoli gli scorci suburbani), fa da contraltare un design dei personaggi piatto e stilizzato ma estremamente efficace ed espressivo, soprattutto nella fluidità delle movenze, che fa un pregevole uso della tecnica "cel-shading": un contrasto portato alle estreme conseguenze che dà un'impronta visiva molto originale al film e ne stabilisce la cifra stilistica votata alla sperimentazione.
La colonna sonora ad opera del duo inglese Plaid è un mix di musica ambient ed elettronica con ritmiche ripetitive ed ipnotiche di grande impatto. Mentre la song sui titoli di coda è firmata dal gruppo giapponese Asian Kung-fu Generation.
Guardando questa pellicola vengono in mente alcuni paralleli e similitudini con altri film ispirati all'infanzia difficile, in particolare "City of God" di Fernando Meirelles con cui condivide l'ambientazione malfamata e "ai margini".
Un film molto intrigante, graficamente e stilisticamente fra i più originali visti di recente, merita senz'altro la visione sia da parte degli appassionati di animazione che dei cinefili più tradizionali.
Alla domanda "Conosci lo Studio 4°C?" probabilmente non tutti darebbero una risposta affermativa. La cosa è dovuta soprattutto al fatto che questa casa di produzione, nonostante abbia all'attivo titoli di una certa notorietà, come Memories o alcuni episodi di Animatrix, si è sempre fatta fautrice di un concetto di animazione fortemente sperimentale e non-convenzionale, inviso rispetto alla maggior parte delle produzioni animate giapponesi, e per questo forse non sempre recepito con la dovuta attenzione dal grande pubblico. Nonostante questo, il successo non è mai mancato in casa 4°C, tutt'altro: ne è la dimostrazione il qui presente TekkonKinkreet, lungometraggio tratto dall'omonimo manga di Taiyo Matsumoto, accolto calorosamente in numerosi festival cinematografici, tra cui quello di Berlino, e spesso considerato come uno dei prodotti di punta dello Studio. Dopo la visione, tutto quello che mi frullava per la testa era una considerazione riferita proprio a quest’ultimo punto: “Il meglio della 4°C? Ma siamo sicuri?”.
Ebbene sì: nonostante TekkonKinkreet sia un film notevole, rimane però un’opera gonfiata dal successo e che non fa altro che ribadire quanto di buono è già stato detto dallo Studio, tra l’altro in maniera piuttosto blanda e monotona. Ovviamente le mie considerazioni non si riferiscono al fumetto originale di Matsumoto, che non conosco, per cui non posso dire quanto esso abbia influito sul risultato di questo lungometraggio, il quale ostenta nel complesso una sfarzosità superficiale e ininfluente sul godimento dello spettatore, tanto nella trama che nella componente visiva. Quest’ultima si mantiene in toto nei canoni 4°C, presentando così un utilizzo massiccio della cel-shading (tecnica di animazione digitale che fa apparire le figure tridimensionali generate dal computer come se fossero semplicemente disegnate), un character design grezzo e stilizzato, e numerosi svolazzi onirici – ciò che però non mi ha convinto sono le ambientazioni metropolitane, marce, decadenti, all’insegna della contaminazione culturale più estrema, ma che non costituiscono un valore aggiunto, dando invece un senso di opulenza e autocompiacimento che rende l’atmosfera generale sgradevolmente ruffiana nei confronti di chi cerca qualcosa di graficamente inconsueto o complesso.
Attenzione: la seguente parte contiene spoiler
Il plot non è particolarmente articolato, ma offre comunque buoni spunti narrativi, soprattutto per quanto riguarda i personaggi secondari: le sottotrame dei quali sono protagonisti sono infatti ben più interessanti della trama principale, a conti fatti una semplice cornice dominata dalla relazione tra i due protagonisti Bianco e Nero, che essendo personificazioni dello Ying e dello Yang, degli opposti complementari che devono ricongiungersi per non autoannichilirsi, soffrono di una caratterizzazione eccessivamente schematica e che non riserva risvolti inaspettati. Il film inizia piuttosto bene, riesce a captare senza intoppi l’attenzione dello spettatore, che però verso metà viene sensibilmente dissipata: tutto viene affidato alla vicenda della perdizione di Nero dopo la separazione da Bianco, in un escalation di eventi la cui prevedibilità azzera quasi completamente il coinvolgimento, a parte in certe scene, come quella della morte di Topo, un vera chicca rispetto a tutto il resto. Il finale segna una buona ripresa, assolutamente convenzionale nel delirante climax (anche visivo) che vede Nero riconciliarsi con sé stesso, ma che riesce ugualmente a portare il tutto ad una debita risoluzione. Nota dolente anche per la sceneggiatura: in certi passaggi è veramente troppo macchinosa, troppo costruita a tavolino, si dilunga su sequenze dal forte impatto drammatico perdendo così immediatezza e verosimiglianza, come nell’inseguimento di Bianco e Nero da parte dei sicari di Serpente che, diciamola nuda e cruda, se fossero stati veramente assassini degni del loro nome li avrebbero freddati senza stare a perdere tempo come invece fanno, concedendo così ai mocciosi la possibilità di salvarsi.
Fine parte contenente spoiler
Chi legge è avvisato: se volete guardare TekkonKinkreet per testare la validità dello Studio 4°C, consideratelo semplicemente come la punta di un iceberg, un insipido antipasto di quello che l’istrionica casa d’animazione sa realmente offrire. Il coraggio di strafare (doveroso nella realizzazione di qualunque opera divergente dai canoni mainstream) c’è, quello che invece manca è lo stupore, la follia, il senso di vertigine che ha reso uniche opere come Mind Game, a mio parere il vero baluardo della poetica 4°C, ben più di questo esercizio di stile senza infamia e senza lode, senza dubbio guardabile, ma che necessita di un doveroso ridimensionamento.
Ebbene sì: nonostante TekkonKinkreet sia un film notevole, rimane però un’opera gonfiata dal successo e che non fa altro che ribadire quanto di buono è già stato detto dallo Studio, tra l’altro in maniera piuttosto blanda e monotona. Ovviamente le mie considerazioni non si riferiscono al fumetto originale di Matsumoto, che non conosco, per cui non posso dire quanto esso abbia influito sul risultato di questo lungometraggio, il quale ostenta nel complesso una sfarzosità superficiale e ininfluente sul godimento dello spettatore, tanto nella trama che nella componente visiva. Quest’ultima si mantiene in toto nei canoni 4°C, presentando così un utilizzo massiccio della cel-shading (tecnica di animazione digitale che fa apparire le figure tridimensionali generate dal computer come se fossero semplicemente disegnate), un character design grezzo e stilizzato, e numerosi svolazzi onirici – ciò che però non mi ha convinto sono le ambientazioni metropolitane, marce, decadenti, all’insegna della contaminazione culturale più estrema, ma che non costituiscono un valore aggiunto, dando invece un senso di opulenza e autocompiacimento che rende l’atmosfera generale sgradevolmente ruffiana nei confronti di chi cerca qualcosa di graficamente inconsueto o complesso.
Attenzione: la seguente parte contiene spoiler
Il plot non è particolarmente articolato, ma offre comunque buoni spunti narrativi, soprattutto per quanto riguarda i personaggi secondari: le sottotrame dei quali sono protagonisti sono infatti ben più interessanti della trama principale, a conti fatti una semplice cornice dominata dalla relazione tra i due protagonisti Bianco e Nero, che essendo personificazioni dello Ying e dello Yang, degli opposti complementari che devono ricongiungersi per non autoannichilirsi, soffrono di una caratterizzazione eccessivamente schematica e che non riserva risvolti inaspettati. Il film inizia piuttosto bene, riesce a captare senza intoppi l’attenzione dello spettatore, che però verso metà viene sensibilmente dissipata: tutto viene affidato alla vicenda della perdizione di Nero dopo la separazione da Bianco, in un escalation di eventi la cui prevedibilità azzera quasi completamente il coinvolgimento, a parte in certe scene, come quella della morte di Topo, un vera chicca rispetto a tutto il resto. Il finale segna una buona ripresa, assolutamente convenzionale nel delirante climax (anche visivo) che vede Nero riconciliarsi con sé stesso, ma che riesce ugualmente a portare il tutto ad una debita risoluzione. Nota dolente anche per la sceneggiatura: in certi passaggi è veramente troppo macchinosa, troppo costruita a tavolino, si dilunga su sequenze dal forte impatto drammatico perdendo così immediatezza e verosimiglianza, come nell’inseguimento di Bianco e Nero da parte dei sicari di Serpente che, diciamola nuda e cruda, se fossero stati veramente assassini degni del loro nome li avrebbero freddati senza stare a perdere tempo come invece fanno, concedendo così ai mocciosi la possibilità di salvarsi.
Fine parte contenente spoiler
Chi legge è avvisato: se volete guardare TekkonKinkreet per testare la validità dello Studio 4°C, consideratelo semplicemente come la punta di un iceberg, un insipido antipasto di quello che l’istrionica casa d’animazione sa realmente offrire. Il coraggio di strafare (doveroso nella realizzazione di qualunque opera divergente dai canoni mainstream) c’è, quello che invece manca è lo stupore, la follia, il senso di vertigine che ha reso uniche opere come Mind Game, a mio parere il vero baluardo della poetica 4°C, ben più di questo esercizio di stile senza infamia e senza lode, senza dubbio guardabile, ma che necessita di un doveroso ridimensionamento.
Per quanto questo anime sia piaciuto a tanti, a me ha dato solo l'idea di un film (e quindi anche manga, visto che è tratto da un fumetto) specificatamente pensato per essere alternativo, impegnato, di nicchia. Insomma più che un'opera, un'operazione piena di furbizia.
Partiamo dalla storia: due fratelli orfani che vivono nei bassifondi di una megalopoli. Aspetta, dove avrò già sentito una storia del genere? Ovunque?
Già la sinossi dell'intreccio non è altro che la ripetizione di un catalogo di storie da festival cinematografaro che hanno la stessa funzione del tappeto di Drugo de "Il grande Lebowski": danno un tono. Peccato però che non ci siano elementi per dare uno spessore alla trama. Questi due da dove vengono? Si tratta di una megalopoli del Terzo Mondo? Di un ghetto degli Stati Uniti? Di Scampia? No, non è la stessa cosa. Ogni luogo ha i suoi paradigmi, basti pensare a quello che scriveva Saviano sui killer scissionisti: "Mi stupii il fatto che mentre i killer nei bassifondi americani uccidono ascoltando hip hop a Scampia lo fanno ascoltando brani neomelodici". Tutto questo per dire che di un'erba non si può fare un fascio. Altro elemento: siamo nel passato? Futuro? Presente? Possibile che due bambini orfani scorrazzino senza andare a scuola, senza casa, senza genitori e nessuno dica nulla? "Eh, ma nel Terzo Mondo..." E daje: ma siamo o non siamo nel Terzo Mondo? Perché se è il Giappone, ma anche Napoli, difficilmente due minori non accompagnati e senza casa non starebbero in un istituto. Peccato che non si sa. Quindi la serietà dell'opera è già abbastanza devastata fin dai primi cinque minuti di film.
Anche le scene oniriche sono pressochè inutili. Nel bel mezzo della trama spuntano elefanti, i bambini volano, le cornacchie parlano. Perché? Boh. Ma volete mettere quanto fa visionario? Quanto fa film di nicchia lasciare lo spettatore interdetto a chiedersi "ma che cavolo..."? Peccato che non c'entrino assolutamente nulla, visto che non aggiungono elementi di comprensione del quadro generale, non danno profondità ai personaggi. Ci sono, punto, ma la sensazione che stiano lì solo per rendere più trendy la pochezza della storia è fortissima.
Infine, il tratto. Semplicemente orribile. Il peggior character design di sempre secondo me. I personaggi sembrano disegnati con Paint, forse per rendere l'opera graficamente ostica giusto per rendere più di stampo elitario il film.
Insomma, un film di una furbizia sconvolgente. Tutto è pensato per farlo passare per un'opera da festival di Cannes: disegno alternativo (o preferirei dire brutto), i bambini poverelli, la triste e squallida città (non pervenuta quale, ma vabbè cosa vuoi che sia), le scene scrause. Ma la mistura finale non inganna e non arriva alla sufficienza.
Partiamo dalla storia: due fratelli orfani che vivono nei bassifondi di una megalopoli. Aspetta, dove avrò già sentito una storia del genere? Ovunque?
Già la sinossi dell'intreccio non è altro che la ripetizione di un catalogo di storie da festival cinematografaro che hanno la stessa funzione del tappeto di Drugo de "Il grande Lebowski": danno un tono. Peccato però che non ci siano elementi per dare uno spessore alla trama. Questi due da dove vengono? Si tratta di una megalopoli del Terzo Mondo? Di un ghetto degli Stati Uniti? Di Scampia? No, non è la stessa cosa. Ogni luogo ha i suoi paradigmi, basti pensare a quello che scriveva Saviano sui killer scissionisti: "Mi stupii il fatto che mentre i killer nei bassifondi americani uccidono ascoltando hip hop a Scampia lo fanno ascoltando brani neomelodici". Tutto questo per dire che di un'erba non si può fare un fascio. Altro elemento: siamo nel passato? Futuro? Presente? Possibile che due bambini orfani scorrazzino senza andare a scuola, senza casa, senza genitori e nessuno dica nulla? "Eh, ma nel Terzo Mondo..." E daje: ma siamo o non siamo nel Terzo Mondo? Perché se è il Giappone, ma anche Napoli, difficilmente due minori non accompagnati e senza casa non starebbero in un istituto. Peccato che non si sa. Quindi la serietà dell'opera è già abbastanza devastata fin dai primi cinque minuti di film.
Anche le scene oniriche sono pressochè inutili. Nel bel mezzo della trama spuntano elefanti, i bambini volano, le cornacchie parlano. Perché? Boh. Ma volete mettere quanto fa visionario? Quanto fa film di nicchia lasciare lo spettatore interdetto a chiedersi "ma che cavolo..."? Peccato che non c'entrino assolutamente nulla, visto che non aggiungono elementi di comprensione del quadro generale, non danno profondità ai personaggi. Ci sono, punto, ma la sensazione che stiano lì solo per rendere più trendy la pochezza della storia è fortissima.
Infine, il tratto. Semplicemente orribile. Il peggior character design di sempre secondo me. I personaggi sembrano disegnati con Paint, forse per rendere l'opera graficamente ostica giusto per rendere più di stampo elitario il film.
Insomma, un film di una furbizia sconvolgente. Tutto è pensato per farlo passare per un'opera da festival di Cannes: disegno alternativo (o preferirei dire brutto), i bambini poverelli, la triste e squallida città (non pervenuta quale, ma vabbè cosa vuoi che sia), le scene scrause. Ma la mistura finale non inganna e non arriva alla sufficienza.
Un’animazione ricca di fascino e di sensibilità, un’opera decadente, malinconica e visionaria in cui emerge chiaramente l’impronta filosofica taoista, esplicita nel voler regalare come evidenza maggiore la compenetrazione dei mondi di buio e di luce, il conflitto tra buio e luce, già dal nome dei due bambini protagonisti. È un lungometraggio decisamente adulto, consigliato agli adolescenti e non a i bimbi, a dispetto di ciò che potrebbe lasciar supporre l’età di Bianco e Nero. Adulto perché violento e straziante, con picchi lirici e commoventi, e con una filosofia di fondo che indulge nell’indagare nel profondo dell’antro più buio della natura umana, pur chiudendo su scenari di pura luce e acque incontaminate.
L’animazione sceglie tratti molto particolari, affatto aggraziati, palesemente inquieti e sovente suggestivamente indefiniti, per evocare, probabilmente, altri da sé metamorfici. Metamorfosi che arrivano puntuali nel mondo onirico, sia in quello sognante e lucente di Bianco, in cui la vita germoglia colorata, sia nella personificazione dei mostri inconsci, in una cornice psichedelica che tende a dilatare e deformare i volti, nella quale Nero combatte con il suo dark side dal volto di Minotauro. La vibrante sequenza dell’epilogo conclude, dopo un andamento narrativo totalmente pessimistico, cedendo il passo alla speranza, figlia di una liberazione che prelude a un ricongiungimento. Bianco e Nero si ritrovano, ricomponendo l’unita degli opposti complementari: lo ying e lo yang. Lì dove la luce tiene sotto controllo il buio. Curioso anche l’approccio che ha l’opera nei confronti dell’elemento trascendente e divino - in una bellissima sequenza dei primissimi minuti si vede spuntare una gigantesca costruzione d’un Ganesha meccanico, controversa divinità dalla testa d’elefante del pantheon induista. Gli stessi elefanti, riproposti visivamente più volte, tra le giostre abbandonate di Treasure Town, hanno evidente valenza simbolica -, percepito come lontano dalle grigie dinamiche contingenti, o abilmente dissimulato ma sempre agognato come possibile fonte di salvezza.
L’animazione sceglie tratti molto particolari, affatto aggraziati, palesemente inquieti e sovente suggestivamente indefiniti, per evocare, probabilmente, altri da sé metamorfici. Metamorfosi che arrivano puntuali nel mondo onirico, sia in quello sognante e lucente di Bianco, in cui la vita germoglia colorata, sia nella personificazione dei mostri inconsci, in una cornice psichedelica che tende a dilatare e deformare i volti, nella quale Nero combatte con il suo dark side dal volto di Minotauro. La vibrante sequenza dell’epilogo conclude, dopo un andamento narrativo totalmente pessimistico, cedendo il passo alla speranza, figlia di una liberazione che prelude a un ricongiungimento. Bianco e Nero si ritrovano, ricomponendo l’unita degli opposti complementari: lo ying e lo yang. Lì dove la luce tiene sotto controllo il buio. Curioso anche l’approccio che ha l’opera nei confronti dell’elemento trascendente e divino - in una bellissima sequenza dei primissimi minuti si vede spuntare una gigantesca costruzione d’un Ganesha meccanico, controversa divinità dalla testa d’elefante del pantheon induista. Gli stessi elefanti, riproposti visivamente più volte, tra le giostre abbandonate di Treasure Town, hanno evidente valenza simbolica -, percepito come lontano dalle grigie dinamiche contingenti, o abilmente dissimulato ma sempre agognato come possibile fonte di salvezza.
Di fronte a tekkonkinkreet, non bisogna farsi ingannare dal chara design praticamente orrendo. Se ciò accadesse, vi perdereste uno dei più bei anime degli ultimi tempi.
I due protagonisti, Nero e Bianco, sono due orfani che vivono come "gatti" randagi a Città Tesoro, lottando ogni giorno contro bande rivali che mirano al dominio della città. Bianco è il più piccolo dei due ed è molto più ingenuo, mentre Nero è quello più crudele e spietato. In realtà Bianco è essenziale per frenare l'istinto omicida di Nero, ma ciò lo si capirà solo infine, quando gli scontri con la yakuza e con loschi individui rischieranno di dividere i due fratelli.
Il design, come ho già detto, è orrendo. Eppure dopo un po' ci si abitua e penso che lo si possa pure amare proprio per la sua stravaganza. Le animazioni sono spettacolari, degne di quelle dello studio Ghibli: sono queste animazioni ben curate che rendono le scene d'azione davvero esaltanti. Durante il film, soprattutto nelle scene d'introspezione, possiamo scorgere effetti particolarissimi, che lo rendono quasi un prodotto sperimentale, ma davvero interessanti e ben curati.
Ciò che colpirà è però la trama, che non è la solita storiella dei due orfanelli, ma si rivela cruda e violenta, adulta e profonda in più di una scena, come in quella della morte del Topo (una sequenza drammatica che io adoro).
Tekkonkinkrett è un vero piccolo capolavoro che vi consiglio caldamente. Di sicuro si farà ricordare.
I due protagonisti, Nero e Bianco, sono due orfani che vivono come "gatti" randagi a Città Tesoro, lottando ogni giorno contro bande rivali che mirano al dominio della città. Bianco è il più piccolo dei due ed è molto più ingenuo, mentre Nero è quello più crudele e spietato. In realtà Bianco è essenziale per frenare l'istinto omicida di Nero, ma ciò lo si capirà solo infine, quando gli scontri con la yakuza e con loschi individui rischieranno di dividere i due fratelli.
Il design, come ho già detto, è orrendo. Eppure dopo un po' ci si abitua e penso che lo si possa pure amare proprio per la sua stravaganza. Le animazioni sono spettacolari, degne di quelle dello studio Ghibli: sono queste animazioni ben curate che rendono le scene d'azione davvero esaltanti. Durante il film, soprattutto nelle scene d'introspezione, possiamo scorgere effetti particolarissimi, che lo rendono quasi un prodotto sperimentale, ma davvero interessanti e ben curati.
Ciò che colpirà è però la trama, che non è la solita storiella dei due orfanelli, ma si rivela cruda e violenta, adulta e profonda in più di una scena, come in quella della morte del Topo (una sequenza drammatica che io adoro).
Tekkonkinkrett è un vero piccolo capolavoro che vi consiglio caldamente. Di sicuro si farà ricordare.
...Ok è vero ...la trama di fondo non è molto originale (l'amicizia vince su tutto), ma già il particolare tratto del disegno e la perfetta realizzazione degli sfondi è sufficiente a rendere questo titolo qualcosa di molto particolare, e come se non bastasse gli autori sono riusciti a creare dei personaggi così complessi, come i due protagonisti Bianco e Nero o lo yakuza Suzuki detto "il Ratto" che per riuscire a capire ciò che sono si è "costretti" a rivedere svariate volte questo titolo! Una piacevolissima sorpresa in un periodo in cui ce ne sono poche di questa portata!!
Consigliatissimo !!
Consigliatissimo !!
Ho acquistato questo DVD due giorni fa, a scatola chiusa, basandomi unicamente sulle recensioni positive che avevo letto in giro (soprattutto qui).
L'orrido character design visto in copertina ed una ambientazione che non sembrava avere molto da dirmi continuavano a farmi temere di aver buttato via dei soldi.
Questo finchè non l'ho guardato: assolutamente fantastico, uno dei migliori film di animazione che ho visto negli ultimi anni, sono rimasto quasi tutto il tempo a bocca aperta.
Il character design, rozzo e quasi abbozzato, una volta "in movimento", mi ha restituito la sensazione di una città Tesoro (questo il nome dell'ambientazione) marcia i cui abitanti, quasi fantasmi che ne abitano i cunicoli, cercano di sopravvivere alla meno peggio.
I due protagonisti, Nero e Bianco, fratelli, sopravvivono nella giungla urbana difendendosi a vicenda, il primo scudo fisico del secondo, il secondo ancora di salvezza spirituale del primo.
Tutti gli eventi narrati nel film descrivono il loro tentativo di sopravvivere, spettatori di un mondo indifferente ed in continuo cambiamento dal quale cercano di non essere risucchiati.
Eccezionale il comparto tecnico, le animazioni ben realizzate (e ben integrate con la CG - che è presente in abbondanza, se la odiate a prescindere siete avvisati) ed un'ottima regia sono accompagnate da un doppiaggio italiano che ho gradito molto (cosa veramente rara). Molto belle anche le musiche.
Fantastico il finale, visivamente impressionante, psichedelico.
Consigliato senza riserve!
L'orrido character design visto in copertina ed una ambientazione che non sembrava avere molto da dirmi continuavano a farmi temere di aver buttato via dei soldi.
Questo finchè non l'ho guardato: assolutamente fantastico, uno dei migliori film di animazione che ho visto negli ultimi anni, sono rimasto quasi tutto il tempo a bocca aperta.
Il character design, rozzo e quasi abbozzato, una volta "in movimento", mi ha restituito la sensazione di una città Tesoro (questo il nome dell'ambientazione) marcia i cui abitanti, quasi fantasmi che ne abitano i cunicoli, cercano di sopravvivere alla meno peggio.
I due protagonisti, Nero e Bianco, fratelli, sopravvivono nella giungla urbana difendendosi a vicenda, il primo scudo fisico del secondo, il secondo ancora di salvezza spirituale del primo.
Tutti gli eventi narrati nel film descrivono il loro tentativo di sopravvivere, spettatori di un mondo indifferente ed in continuo cambiamento dal quale cercano di non essere risucchiati.
Eccezionale il comparto tecnico, le animazioni ben realizzate (e ben integrate con la CG - che è presente in abbondanza, se la odiate a prescindere siete avvisati) ed un'ottima regia sono accompagnate da un doppiaggio italiano che ho gradito molto (cosa veramente rara). Molto belle anche le musiche.
Fantastico il finale, visivamente impressionante, psichedelico.
Consigliato senza riserve!
NO SPOILER
Che dire. Sono rimasto "scottato" dalla visione di questo anime. Spiazzato da un lavoro anche più serio di quanto non mi potessi aspettare, vista la produzione di grande qualità. Dal punto di vista tecnico il lavoro è ovviamente ineccepibile, ma credo che il valore aggiunto stia nella regia. La storia parla di due fratellini, uno (Nero) maturo e disilluso e l'altro (Bianco) incantato ed apparentemente infantile. Mi fermo qui,non voglio parlare di trama, quanto far sapere, a chi possa interessare,che nei due bambini è racchiuso più di quello che la solita storia di bianco/nero, notte/giorno ecc. potrebbe far supporre, ho vissuto parecchi momenti piuttosto intensi. Da guardare senza dubbio, non a tutti piacerà di sicuro ma io lo consiglio decisamente.
Che dire. Sono rimasto "scottato" dalla visione di questo anime. Spiazzato da un lavoro anche più serio di quanto non mi potessi aspettare, vista la produzione di grande qualità. Dal punto di vista tecnico il lavoro è ovviamente ineccepibile, ma credo che il valore aggiunto stia nella regia. La storia parla di due fratellini, uno (Nero) maturo e disilluso e l'altro (Bianco) incantato ed apparentemente infantile. Mi fermo qui,non voglio parlare di trama, quanto far sapere, a chi possa interessare,che nei due bambini è racchiuso più di quello che la solita storia di bianco/nero, notte/giorno ecc. potrebbe far supporre, ho vissuto parecchi momenti piuttosto intensi. Da guardare senza dubbio, non a tutti piacerà di sicuro ma io lo consiglio decisamente.
Non male. Solita storia: 7,5, ma non c'è. Anche se non rimarrà nella leggenda l'anime nel complesso non è male. I disegni sono particolari e molto azzeccati, la storia non è geniale, ma neanche da buttare. L'amicizia come ancora di salvezza, unico mezzo per scacciare le tenebre dal proprio cuore. Solita storia. Però la variante dal tema principale c'è: il soffocamento della grande città e della modernità. E' già qualcosa. I personaggi sono ben fatti e anche discretamente caratterizzati. Si lascia decisamente guardare!
<b>NB: contiene mini spoiler...</b>
Senza dubbio spettacolare, mi sono avvicinato a questo film per la bellezza dei disegni e delle animazioni aspettandomi una trama calibrata per un pubblico infantile ma adatto anche per gli adulti, ma mi sono dovuto ricredere.
Nonostante un inizio un pò soft, il film è crudo, spietato sotto certi aspetti, e le scene introspettive (e pesanti) dei personaggi principali hanno più significato di tanti altri avvenimenti.
Il ravvedimento di Nero e il finale "solare" a lieto fine, lo ritengo un pò forzato e forse un pò stona nel complesso.
Un film da vedere per un pubblico adulto!
Elam
Senza dubbio spettacolare, mi sono avvicinato a questo film per la bellezza dei disegni e delle animazioni aspettandomi una trama calibrata per un pubblico infantile ma adatto anche per gli adulti, ma mi sono dovuto ricredere.
Nonostante un inizio un pò soft, il film è crudo, spietato sotto certi aspetti, e le scene introspettive (e pesanti) dei personaggi principali hanno più significato di tanti altri avvenimenti.
Il ravvedimento di Nero e il finale "solare" a lieto fine, lo ritengo un pò forzato e forse un pò stona nel complesso.
Un film da vedere per un pubblico adulto!
Elam
N.B.: contiene un piccolo <b>mini spoiler</b>: uomo avvisato...
Prodotto sicuramente spettacolare come disegni e anche come storia, narra di una citta' immaginifica in cui vivono due bambini, di nome Bianco e Nero, senza genitori, che vivono di espedienti, e soprattutto temuti anche dalla stessa yakuza, visto la loro capacità combattiva,
soprattutto di Nero.
Il film narra appunto della lotta dei due ragazzini contro la stessa Yakuza, e poi dopo che Bianco viene ferito e preso in cura dalla polizia, della lotta di Nero contro i demoni della sua devastante follia.
Film sicuramente appassionante, ha pero' a mio modesto avviso, una pecca e cioe' che i protagonisti, che sono la personificazione dello yin e dello yang, sono decisamente molto meno interessanti dei comprimari, tra cui un detective frigido, uno yakuza maniaco degli oroscopi e uno che cerca di non coinvolgere la sua famiglia a causa della pericolosità del suo lavoro.
Infatti il film si dilunga troppo spesso sul personaggio piu' insopportabile, lo svalvolato,infantile e pure mezzo ritardato Bianco,dopo mezz'ora mi era diventato di un odioso incredibile, e francamente speravo che la Yakuza riuscisse ad ammazzarlo,magari triturandolo per benino. Purtroppo nonostante si becchi una coltellata di un energumeno in pieno petto, riesce a sopravvivere con mia grande delusione. Infatti a mio avviso, con un film cosi' cupo, stona decisamente il finale troppo consolatorio e felice, cosa che magari sarebbe stata evitata con Bianco morto e sepolto e Nero devastato dalla sua stessa follia, e con un maggiore risalto ai personaggi comprimari, decisamente piu' riusciti. Questa pecca fa si' che Tekkon Kinkreet non meriti il massimo dei voti, film spettacolare, parzialmente rovinato dal protagonista piu' odioso della storia dell'animazione dai tempi di Biancaneve.
Prodotto sicuramente spettacolare come disegni e anche come storia, narra di una citta' immaginifica in cui vivono due bambini, di nome Bianco e Nero, senza genitori, che vivono di espedienti, e soprattutto temuti anche dalla stessa yakuza, visto la loro capacità combattiva,
soprattutto di Nero.
Il film narra appunto della lotta dei due ragazzini contro la stessa Yakuza, e poi dopo che Bianco viene ferito e preso in cura dalla polizia, della lotta di Nero contro i demoni della sua devastante follia.
Film sicuramente appassionante, ha pero' a mio modesto avviso, una pecca e cioe' che i protagonisti, che sono la personificazione dello yin e dello yang, sono decisamente molto meno interessanti dei comprimari, tra cui un detective frigido, uno yakuza maniaco degli oroscopi e uno che cerca di non coinvolgere la sua famiglia a causa della pericolosità del suo lavoro.
Infatti il film si dilunga troppo spesso sul personaggio piu' insopportabile, lo svalvolato,infantile e pure mezzo ritardato Bianco,dopo mezz'ora mi era diventato di un odioso incredibile, e francamente speravo che la Yakuza riuscisse ad ammazzarlo,magari triturandolo per benino. Purtroppo nonostante si becchi una coltellata di un energumeno in pieno petto, riesce a sopravvivere con mia grande delusione. Infatti a mio avviso, con un film cosi' cupo, stona decisamente il finale troppo consolatorio e felice, cosa che magari sarebbe stata evitata con Bianco morto e sepolto e Nero devastato dalla sua stessa follia, e con un maggiore risalto ai personaggi comprimari, decisamente piu' riusciti. Questa pecca fa si' che Tekkon Kinkreet non meriti il massimo dei voti, film spettacolare, parzialmente rovinato dal protagonista piu' odioso della storia dell'animazione dai tempi di Biancaneve.
"Questa è una storia di amore, amicizia, e trasformazioni" - il regista, Michael Arias
Dopo l'enorme successo dell'opera originale da cui è tratta l'animazione, l'omonimo fumetto firmato Taiyou Matsumoto, con oltre un milione di copie vendute nella sua terra natale, il leggendario Tekkon Kinkuriito (titolo letteralmente intraducibile, basato su un gioco di parole tra tekkin = "cemento armato", e konkuriito = equivalente anglofono per "cemento") diventa un lungometraggio animato diretto dal regista di Animatrix nonché maggiore rappresentante dell'animazione made in Hollywood, Michael Arias, in una collaborazione da sogno con il maggiore esponente dell'animazione nipponica, lo Studio 4°C.
L'animazione rapisce gli occhi degli spettatori con uno straripante senso di movimento e di volo mai visti prima, le voci appassionate e appassionanti dei personaggi attribuiscono sentimenti e anima ai personaggi al punto di trascinare dentro il mondo di Tekkon. Inoltre, il totale senso di ebbrezza e di vertigine che trasuda tutta l'opera, la contraddistingueranno come capolavoro indiscusso dell'anno.
Una risposta che cambia il mondo: "Cosa vedi, tu, da lì?"
Un quartiere d'"inferno" avvolto da yakuza (malavita organizzata giapponese) "Giri e Ninjo" (giri, si legge "ghiri", è il senso del dovere in senso confuciano, ossia la necessità di accettare i sacrifici che spettano ad ognuno; ninjo è il sentimento di umanità spontaneo. Sono due concetti che si sono sviluppati nella classe samuraica durante il feudalesimo giapponese. Il rapporto feudale tra superiori e inferiori si basava sul "sentimento di debito morale", il giri, che l'inferiore provava nei confronti del suo superiore per i favori ricevuti. Tali valori pur entrando talvolta in forte conflitto, rappresentano in realtà due facce di una stessa medaglia. Il rapporto giri-ninjo è un motivo ricorrente nelle rappresentazioni teatrali del kabuki). Due ragazzi che vi svolazzano liberamente, chiamati anche i "gatti", Shiro e Kuro. In questo quartiere, chiamato Takaramachi ("il quartiere del tesoro" o anche "la città del tesoro"), che sembrava immutato da tempo immemorabile, si cominciano a intravedere misteriosi movimenti con il pretesto di un nuovo sviluppo. Yakuza che escono dal giro, espropriazioni territoriali, violenza quasi tribale, il progetto imperscrutabile della costruzione di un "castello dei bambini", tre loschi uccisori, e poi l'ombra di un uomo conosciuto come Hebi (il Serpente)... Aggredito da questi tre uccisori, Shiro viene prelevato dalla polizia, che lo prende anche in custodia. Nel cuore di Kuro, costretto a separarsi da Shiro, con cui era ormai una sola anima, si fanno strada violenza e pungente devastazione. Nel frattempo, si sparge nel quartiere che sia comparso "un ragazzino leggendario assetato di sangue e violenza" (la Donnola). Kuro, Shiro, gli Yakuza, gli ispettori, gli assassini, il Serpente e poi la Donnola... Un quartiere e i suoi abitanti che vanno cambiando. Si ribelleranno o subiranno la situazione? Quale sarà la scelta di Kuro e Shiro, nei confronti mondo della verità che si espande a un'estremità in cui Luce e Buio si fronteggiano?
Una leggenda in un sol fiato. La cristallizzazione dell'appassionata volontà dei creatori e dei doppiatori.
<b>Tratta dal forum Kanjisub</b>
Dopo l'enorme successo dell'opera originale da cui è tratta l'animazione, l'omonimo fumetto firmato Taiyou Matsumoto, con oltre un milione di copie vendute nella sua terra natale, il leggendario Tekkon Kinkuriito (titolo letteralmente intraducibile, basato su un gioco di parole tra tekkin = "cemento armato", e konkuriito = equivalente anglofono per "cemento") diventa un lungometraggio animato diretto dal regista di Animatrix nonché maggiore rappresentante dell'animazione made in Hollywood, Michael Arias, in una collaborazione da sogno con il maggiore esponente dell'animazione nipponica, lo Studio 4°C.
L'animazione rapisce gli occhi degli spettatori con uno straripante senso di movimento e di volo mai visti prima, le voci appassionate e appassionanti dei personaggi attribuiscono sentimenti e anima ai personaggi al punto di trascinare dentro il mondo di Tekkon. Inoltre, il totale senso di ebbrezza e di vertigine che trasuda tutta l'opera, la contraddistingueranno come capolavoro indiscusso dell'anno.
Una risposta che cambia il mondo: "Cosa vedi, tu, da lì?"
Un quartiere d'"inferno" avvolto da yakuza (malavita organizzata giapponese) "Giri e Ninjo" (giri, si legge "ghiri", è il senso del dovere in senso confuciano, ossia la necessità di accettare i sacrifici che spettano ad ognuno; ninjo è il sentimento di umanità spontaneo. Sono due concetti che si sono sviluppati nella classe samuraica durante il feudalesimo giapponese. Il rapporto feudale tra superiori e inferiori si basava sul "sentimento di debito morale", il giri, che l'inferiore provava nei confronti del suo superiore per i favori ricevuti. Tali valori pur entrando talvolta in forte conflitto, rappresentano in realtà due facce di una stessa medaglia. Il rapporto giri-ninjo è un motivo ricorrente nelle rappresentazioni teatrali del kabuki). Due ragazzi che vi svolazzano liberamente, chiamati anche i "gatti", Shiro e Kuro. In questo quartiere, chiamato Takaramachi ("il quartiere del tesoro" o anche "la città del tesoro"), che sembrava immutato da tempo immemorabile, si cominciano a intravedere misteriosi movimenti con il pretesto di un nuovo sviluppo. Yakuza che escono dal giro, espropriazioni territoriali, violenza quasi tribale, il progetto imperscrutabile della costruzione di un "castello dei bambini", tre loschi uccisori, e poi l'ombra di un uomo conosciuto come Hebi (il Serpente)... Aggredito da questi tre uccisori, Shiro viene prelevato dalla polizia, che lo prende anche in custodia. Nel cuore di Kuro, costretto a separarsi da Shiro, con cui era ormai una sola anima, si fanno strada violenza e pungente devastazione. Nel frattempo, si sparge nel quartiere che sia comparso "un ragazzino leggendario assetato di sangue e violenza" (la Donnola). Kuro, Shiro, gli Yakuza, gli ispettori, gli assassini, il Serpente e poi la Donnola... Un quartiere e i suoi abitanti che vanno cambiando. Si ribelleranno o subiranno la situazione? Quale sarà la scelta di Kuro e Shiro, nei confronti mondo della verità che si espande a un'estremità in cui Luce e Buio si fronteggiano?
Una leggenda in un sol fiato. La cristallizzazione dell'appassionata volontà dei creatori e dei doppiatori.
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