I miei vicini Yamada
Spesso ingiustamente dimenticato nell’oblio, oscurato dalla fama del celeberrimo Hayao Miyazaki, con cui nel lontano 1985 fondò lo Studio Ghibli, Isao Takahata è stato, al pari del sensei, autore di lungometraggi iconici, in grado di “competere” con quelli del suo collaboratore, nonché amico di lunga data. Perché se il buon vecchio Miyazaki ha dato alla luce capolavori come “Il mio vicino Totoro” e “Laputa – Il Castello nel cielo”, Takahata è stato il regista di opere di straordinaria fattura come “La tomba delle lucciole” e “La Storia della Principessa Splendente”. Entrambi film dal forte impatto emotivo, estremamente coinvolgenti e sempre intrisi di quella cultura e quel familismo giapponese che, agli occhi di noi occidentali, non possono che apparire come modelli da seguire. Una tendenza, quella di trasmettere attraverso il grande schermo i valori tradizionali della società nipponica, talvolta anche mistificando, che si ritrova in molte delle pellicole targate Ghibli, tranne che in una, “I miei vicini Yamada”.
In assenza di qualsiasi tipo di filtro, Isao Takahata trasporta lo spettatore nella vita quotidiana di una comune famiglia giapponese, quella degli Yamada, il cui nucleo è composto dalla nonna materna, Shige, la madre svampita e il padre pseudo-autoritario, Matsuko e Takashi, e i due figli: la bambina, Nonoko, e il ragazzo nel pieno della propria adolescenza, Noboru. Suddividendo il lungometraggio in tanti capitoli di varia lunghezza, Takahata ci narra dei fatti, dei problemi e delle disavventure a cui va incontro la famiglia Yamada, che lo spettatore impara a conoscere man mano che la storia prosegue. Ecco, quindi, che il quadro viene delineandosi poco per volta. Takashi è il tipico padre di famiglia, la cui vita si scandisce in due blocchi precisi: casa e lavoro. Questa è la spirale in cui è costretto, anche perché se non ci fosse lui, nessuno baderebbe ai bisogni economici della famiglia. Takashi ogni giorno porta il pane a casa, indi per cui esige rispetto per se e per la sua stanchezza. Cerca a più riprese di imporre la propria autorità sulla famiglia, senza però riuscirci, essendo succube delle due donne di casa. Matsuko è una casalinga, che si occupa dei bisogni primari dei propri famigliari. A lei è richiesta una certa dedizione, soprattutto nella cura del focolare domestico. Nonostante ciò, è un po’ svampita e dimentica le cose troppo facilmente. Ma guai a criticarla. La casa la gestisce lei e sempre lei la vive ventiquattro ore su ventiquattro senza sosta, quindi guai a fiatare. Shige, la madre di Matsuko, è donna di una certa età, molto probabilmente più vecchia della casa in cui vive sua figlia. Per questa ragione, conosce troppo bene il mondo e i principi che lo muovono. Donna dotata di grande autorità, verso cui Takashi mostra una certa riverenza. Anche lei, complice sicuramente gli anni che si porta sulle spalle, dimentica troppo spesso le cose da fare (ora si capisce da chi ha preso Matsuko). Noboru è il primogenito, quindi, le aspettative riposte in lui sono molto alte. La scuola è il suo dovere primario, ma non sembra essere molto portato nello studio. Inoltre, inizia a scoprire per la prima volta il dolce frutto dell’amore. Il ragazzo sta crescendo e le preoccupazioni dei genitori con lui. Nonoko è la piccola di casa. A lei tutto è dovuto e tutto è concesso. È sicuramente una bambina intelligente, ma del mondo sa ancora troppo poco e l’ingenuità, tipica di chi ha la sua età, non l’ha ancora abbandonata.
Così delineati, i personaggi della storia appaiono estremamente familiari, soprattutto a coloro il cui focolare è composto dagli stessi membri. L’immedesimazione è quindi spontanea ed è resa possibile dall’incredibile realismo, che muove l’intera opera. Non nego, infatti, di aver rivisto nel film parecchi degli scenari in cui sono coinvolto giornalmente con i miei genitori, e questo perché Takahata non fa altro che narrare le vicende di una famiglia giapponese come tante altre, con l’unico obiettivo di mostrarne i rapporti gioco-forza che ne regolano il funzionamento. La famiglia è come una macchina, tutt’altro che perfetta, il cui meccanismo può essere appreso prestando attenzione agli eventi e ai fatti che si susseguono nella quotidianità e a come questi vengono affrontati. In quanto macchina, ogni membro svolge un ruolo fondamentale al suo interno, ma le gerarchie sono tutt’altro che ben definite e, spesso e volentieri, capita che alcune componenti possano entrare in conflitto tra di loro. In una famiglia non esiste l’io o il tu, esiste il noi. Se c’è un problema lo si risolve tutti insieme, ma soprattutto si impara ad accettare i difetti altrui e a conviverci. Non lasci tua moglie perché è un po’ svampita, ma ci fai l’abitudine e alla fine ti rassegni. Per il bene della famiglia e per permettere a quest’ultima di vivere una vita serena. Un messaggio forte, che io condivido in pieno. La vita di tutti noi, anche quella familiare, è fatta di alti e bassi e se ci soffermassimo soltanto sui suoi aspetti negativi, vivere sarebbe impossibile. Molto meglio comprenderli, riconoscerne l’esistenza e andare avanti lo stesso, cercando di apprezzare le cose buone che la vita, come le persone che ci stanno intorno, ha da offrirci.
Questa storia, nella sua immediatezza, si fa carico di valori e significati di un certo spessore, che compensano la semplicità dei suoi disegni. Takahata, come avrebbe fatto anche per “La storia della Principessa Splendente”, opta per uno stile che sia tutto giocato sull’alternanza di matita e pastelli, talvolta mescolati a colori acquerellati. L’essenzialità dello stile raggiunge l’apice nelle scene che sembrano appena abbozzate, dove il centro è ben definito e lo sfondo sembra quasi essere stato dimenticato. Una semplicità necessaria, che si conforma a quella della storia e che, con quest’ultima, si mescola dando vita ad un connubio ottimo. Musicalmente parlando, siamo dinanzi ad un altro capolavoro, merito soprattutto di Akiko Yano, che ha adattato perfettamente la sua musica allo stile dell’opera. Da menzionare, la citazione a Kekko Kamen, del grandissimo Go Nagai, a cui Takahata sembra voler riservare il giusto riconoscimento, con scena e musica perfettamente in linea con l’opera originale.
In definitiva, siamo alle solite. Ghibli è ormai sinonimo di certezza, secondo soltanto alla morte e se cercate qualcosa di spontaneo, magari da guardare a spezzoni, “I miei vicini Yamada” potrebbe fare al caso vostro.
In assenza di qualsiasi tipo di filtro, Isao Takahata trasporta lo spettatore nella vita quotidiana di una comune famiglia giapponese, quella degli Yamada, il cui nucleo è composto dalla nonna materna, Shige, la madre svampita e il padre pseudo-autoritario, Matsuko e Takashi, e i due figli: la bambina, Nonoko, e il ragazzo nel pieno della propria adolescenza, Noboru. Suddividendo il lungometraggio in tanti capitoli di varia lunghezza, Takahata ci narra dei fatti, dei problemi e delle disavventure a cui va incontro la famiglia Yamada, che lo spettatore impara a conoscere man mano che la storia prosegue. Ecco, quindi, che il quadro viene delineandosi poco per volta. Takashi è il tipico padre di famiglia, la cui vita si scandisce in due blocchi precisi: casa e lavoro. Questa è la spirale in cui è costretto, anche perché se non ci fosse lui, nessuno baderebbe ai bisogni economici della famiglia. Takashi ogni giorno porta il pane a casa, indi per cui esige rispetto per se e per la sua stanchezza. Cerca a più riprese di imporre la propria autorità sulla famiglia, senza però riuscirci, essendo succube delle due donne di casa. Matsuko è una casalinga, che si occupa dei bisogni primari dei propri famigliari. A lei è richiesta una certa dedizione, soprattutto nella cura del focolare domestico. Nonostante ciò, è un po’ svampita e dimentica le cose troppo facilmente. Ma guai a criticarla. La casa la gestisce lei e sempre lei la vive ventiquattro ore su ventiquattro senza sosta, quindi guai a fiatare. Shige, la madre di Matsuko, è donna di una certa età, molto probabilmente più vecchia della casa in cui vive sua figlia. Per questa ragione, conosce troppo bene il mondo e i principi che lo muovono. Donna dotata di grande autorità, verso cui Takashi mostra una certa riverenza. Anche lei, complice sicuramente gli anni che si porta sulle spalle, dimentica troppo spesso le cose da fare (ora si capisce da chi ha preso Matsuko). Noboru è il primogenito, quindi, le aspettative riposte in lui sono molto alte. La scuola è il suo dovere primario, ma non sembra essere molto portato nello studio. Inoltre, inizia a scoprire per la prima volta il dolce frutto dell’amore. Il ragazzo sta crescendo e le preoccupazioni dei genitori con lui. Nonoko è la piccola di casa. A lei tutto è dovuto e tutto è concesso. È sicuramente una bambina intelligente, ma del mondo sa ancora troppo poco e l’ingenuità, tipica di chi ha la sua età, non l’ha ancora abbandonata.
Così delineati, i personaggi della storia appaiono estremamente familiari, soprattutto a coloro il cui focolare è composto dagli stessi membri. L’immedesimazione è quindi spontanea ed è resa possibile dall’incredibile realismo, che muove l’intera opera. Non nego, infatti, di aver rivisto nel film parecchi degli scenari in cui sono coinvolto giornalmente con i miei genitori, e questo perché Takahata non fa altro che narrare le vicende di una famiglia giapponese come tante altre, con l’unico obiettivo di mostrarne i rapporti gioco-forza che ne regolano il funzionamento. La famiglia è come una macchina, tutt’altro che perfetta, il cui meccanismo può essere appreso prestando attenzione agli eventi e ai fatti che si susseguono nella quotidianità e a come questi vengono affrontati. In quanto macchina, ogni membro svolge un ruolo fondamentale al suo interno, ma le gerarchie sono tutt’altro che ben definite e, spesso e volentieri, capita che alcune componenti possano entrare in conflitto tra di loro. In una famiglia non esiste l’io o il tu, esiste il noi. Se c’è un problema lo si risolve tutti insieme, ma soprattutto si impara ad accettare i difetti altrui e a conviverci. Non lasci tua moglie perché è un po’ svampita, ma ci fai l’abitudine e alla fine ti rassegni. Per il bene della famiglia e per permettere a quest’ultima di vivere una vita serena. Un messaggio forte, che io condivido in pieno. La vita di tutti noi, anche quella familiare, è fatta di alti e bassi e se ci soffermassimo soltanto sui suoi aspetti negativi, vivere sarebbe impossibile. Molto meglio comprenderli, riconoscerne l’esistenza e andare avanti lo stesso, cercando di apprezzare le cose buone che la vita, come le persone che ci stanno intorno, ha da offrirci.
Questa storia, nella sua immediatezza, si fa carico di valori e significati di un certo spessore, che compensano la semplicità dei suoi disegni. Takahata, come avrebbe fatto anche per “La storia della Principessa Splendente”, opta per uno stile che sia tutto giocato sull’alternanza di matita e pastelli, talvolta mescolati a colori acquerellati. L’essenzialità dello stile raggiunge l’apice nelle scene che sembrano appena abbozzate, dove il centro è ben definito e lo sfondo sembra quasi essere stato dimenticato. Una semplicità necessaria, che si conforma a quella della storia e che, con quest’ultima, si mescola dando vita ad un connubio ottimo. Musicalmente parlando, siamo dinanzi ad un altro capolavoro, merito soprattutto di Akiko Yano, che ha adattato perfettamente la sua musica allo stile dell’opera. Da menzionare, la citazione a Kekko Kamen, del grandissimo Go Nagai, a cui Takahata sembra voler riservare il giusto riconoscimento, con scena e musica perfettamente in linea con l’opera originale.
In definitiva, siamo alle solite. Ghibli è ormai sinonimo di certezza, secondo soltanto alla morte e se cercate qualcosa di spontaneo, magari da guardare a spezzoni, “I miei vicini Yamada” potrebbe fare al caso vostro.
“I miei vicini Yamada” (titolo originale “Houhokekyo Tonari no Yamada-kun”) è un lungometraggio d’animazione giapponese del 1999, diretto da Isao Takahata e basato sul manga in formato yonkoma “Nono-chan” di Hisaichi Ishii.
Il film, senza seguire una trama di alcuna sorta, immerge lo spettatore nella vita quotidiana della famiglia allargata Yamada, costituita da padre, madre, nonna materna, figlio adolescente e figlia piccola.
I segmenti narrativi rappresentati sono di durata differente, da una manciata di secondi a pochi minuti, e sono spesso raggruppati secondo un tema comune, mentre i più importanti e significativi vengono accompagnati in chiusura da haiku esplicativi o ironici. Possiamo vedere gli Yamada alle prese con la vita di tutti i giorni, dal lavoro alla scuola, dalle faccende domestiche alla spesa, alternando toni comici e dolceamari e affrontando situazioni comuni ed altre più bizzarre, senza mai perdere il focus sui protagonisti: la moglie casalinga pigra e smemorata, il marito che desidererebbe essere più autoritario e rispettato, la nonnina che ha sempre un commento sardonico per ogni situazione, il figlio maggiore non propriamente ribelle, ma chiaramente in quella tipica fase della gioventù in cui essere insoddisfatti della propria esistenza e sentire il bisogno di andare contro la volontà dei propri genitori è quasi un’esigenza, ed infine la figlia minore, molto più matura di quanto i suoi anni non lascino pensare, ma non priva dell’innocenza dell’infanzia.
Bastano poche linee di dialogo per riuscire a catturare la personalità dei pochi personaggi, ognuno dei quali è analizzato, seppur in maniera non necessariamente esaustiva e iper-sfaccettata, con precisione e credibilità, illustrandone i difetti, i pregi, e le aspirazioni, nonché le relazioni con i famigliari.
“I miei vicini Yamada” si distingue per un comparto grafico che, ricercando la fedeltà totale al materiale da cui è tratto, propone uno stile di disegno semplice ed essenziale, in alcune sequenze quasi lasciato a livello di bozzetto, con un tratto interrotto e ripetuto, accompagnato da un character design stilizzato e tondeggiante e morbidi colori acquerellati, che rendono perfettamente l’idea di una storia introspettiva e emozionante, ma anche confortevole e pacata. Sono in alcune scene di stampo più prettamente metaforico è possibile assistere ad una grafica molto più dettagliata, multiforme e sognante. Anche le animazioni seguono questa direttiva, dimostrandosi semplici ma curate.
Ottima anche la colonna sonora, che affianca pezzi orchestrali a volte anche roboanti, ma mai fuori posto, a brani più delicati, altri quasi infantili e celebri canzoni, anche di origine non giapponese. Di buon livello è anche il doppiaggio, realizzato dalla Lucky Red, che risulta sempre appropriato ed espressivo.
La regia regala soprattutto inquadrature statiche o lente carrellate degli esterni e del sobborgo residenziale in cui dimorano gli Yamada, divenendo più mobile e virtuosa nelle succitate scene fantasiose.
“I miei vicini Yamada” (titolo quasi incomprensibile, dato che il POV è chiaramente interno e non esterno alla famiglia protagonista) è strutturato come un mosaico, in cui ogni micro-episodio costituisce un tassello indispensabile per comporre il convincente ritratto di una normale famiglia borghese nipponica, con dinamiche credibili e problemi quotidiani, nonostante alcuni sketch vagamente surreali. Prendendo le distanze da una concezione idealizzata della famiglia, intesa come nido protetto e sicuro, in cui vigono solo sentimenti puri e positivi, Takahata ci mostra anche la rassegnazione, la stanchezza, i piccoli conflitti, la spaventosa impotenza dovuta al non essere in grado di proteggere adeguatamente i propri cari, senza che tutto questo, però, vada ad inficiare la sincerità e la spontaneità dell’affetto che ogni membro nutre nei confronti degli altri. Paragonando la vita coniugale ad un veliero, ci viene raccontato come un nucleo famigliare mantenga la propria unità, attraverso l’amore e rinunciando ad alcuni egoismi, affrontando insieme le burrasche e temendo, più di ogni altra cosa, la stagnante bonaccia, la monotonia della routine quotidiana che trasforma le emozioni in abitudini e ci rende deboli e impreparati ad ogni evenienza.
Il film è un’opera deliziosa, divertente e toccante, uno slice of life quasi documentaristico che paga per l’eccessiva lunghezza, piuttosto incompatibile con il tipo di formato e i contenuti portati su schermo. E’ un crimine che sia così ignorato.
Il film, senza seguire una trama di alcuna sorta, immerge lo spettatore nella vita quotidiana della famiglia allargata Yamada, costituita da padre, madre, nonna materna, figlio adolescente e figlia piccola.
I segmenti narrativi rappresentati sono di durata differente, da una manciata di secondi a pochi minuti, e sono spesso raggruppati secondo un tema comune, mentre i più importanti e significativi vengono accompagnati in chiusura da haiku esplicativi o ironici. Possiamo vedere gli Yamada alle prese con la vita di tutti i giorni, dal lavoro alla scuola, dalle faccende domestiche alla spesa, alternando toni comici e dolceamari e affrontando situazioni comuni ed altre più bizzarre, senza mai perdere il focus sui protagonisti: la moglie casalinga pigra e smemorata, il marito che desidererebbe essere più autoritario e rispettato, la nonnina che ha sempre un commento sardonico per ogni situazione, il figlio maggiore non propriamente ribelle, ma chiaramente in quella tipica fase della gioventù in cui essere insoddisfatti della propria esistenza e sentire il bisogno di andare contro la volontà dei propri genitori è quasi un’esigenza, ed infine la figlia minore, molto più matura di quanto i suoi anni non lascino pensare, ma non priva dell’innocenza dell’infanzia.
Bastano poche linee di dialogo per riuscire a catturare la personalità dei pochi personaggi, ognuno dei quali è analizzato, seppur in maniera non necessariamente esaustiva e iper-sfaccettata, con precisione e credibilità, illustrandone i difetti, i pregi, e le aspirazioni, nonché le relazioni con i famigliari.
“I miei vicini Yamada” si distingue per un comparto grafico che, ricercando la fedeltà totale al materiale da cui è tratto, propone uno stile di disegno semplice ed essenziale, in alcune sequenze quasi lasciato a livello di bozzetto, con un tratto interrotto e ripetuto, accompagnato da un character design stilizzato e tondeggiante e morbidi colori acquerellati, che rendono perfettamente l’idea di una storia introspettiva e emozionante, ma anche confortevole e pacata. Sono in alcune scene di stampo più prettamente metaforico è possibile assistere ad una grafica molto più dettagliata, multiforme e sognante. Anche le animazioni seguono questa direttiva, dimostrandosi semplici ma curate.
Ottima anche la colonna sonora, che affianca pezzi orchestrali a volte anche roboanti, ma mai fuori posto, a brani più delicati, altri quasi infantili e celebri canzoni, anche di origine non giapponese. Di buon livello è anche il doppiaggio, realizzato dalla Lucky Red, che risulta sempre appropriato ed espressivo.
La regia regala soprattutto inquadrature statiche o lente carrellate degli esterni e del sobborgo residenziale in cui dimorano gli Yamada, divenendo più mobile e virtuosa nelle succitate scene fantasiose.
“I miei vicini Yamada” (titolo quasi incomprensibile, dato che il POV è chiaramente interno e non esterno alla famiglia protagonista) è strutturato come un mosaico, in cui ogni micro-episodio costituisce un tassello indispensabile per comporre il convincente ritratto di una normale famiglia borghese nipponica, con dinamiche credibili e problemi quotidiani, nonostante alcuni sketch vagamente surreali. Prendendo le distanze da una concezione idealizzata della famiglia, intesa come nido protetto e sicuro, in cui vigono solo sentimenti puri e positivi, Takahata ci mostra anche la rassegnazione, la stanchezza, i piccoli conflitti, la spaventosa impotenza dovuta al non essere in grado di proteggere adeguatamente i propri cari, senza che tutto questo, però, vada ad inficiare la sincerità e la spontaneità dell’affetto che ogni membro nutre nei confronti degli altri. Paragonando la vita coniugale ad un veliero, ci viene raccontato come un nucleo famigliare mantenga la propria unità, attraverso l’amore e rinunciando ad alcuni egoismi, affrontando insieme le burrasche e temendo, più di ogni altra cosa, la stagnante bonaccia, la monotonia della routine quotidiana che trasforma le emozioni in abitudini e ci rende deboli e impreparati ad ogni evenienza.
Il film è un’opera deliziosa, divertente e toccante, uno slice of life quasi documentaristico che paga per l’eccessiva lunghezza, piuttosto incompatibile con il tipo di formato e i contenuti portati su schermo. E’ un crimine che sia così ignorato.
Spezzoni di vita quotidiana, o come va di moda oggi, "Slice of Life", di una famiglia giapponese di ceto medio in era pre-smarthfon, con un abbozzato tratto a matita dai bordi aperti, un disegno deformed geometrico, e tenui colori acquarellati che rendono alla vista un effetto povero ma gradevole. La frammentarietà degli avvenimenti è dovuta principalmente alla fedeltà con lo schema narrativo dell'autore originario Hisaichi Ishii. Come prodotto d'animazione, bisogna dire che le avventure di casa Yamada non iniziano nel modo migliore. Si da per scontata una certa familiarità e le battute iniziali sono tra le più fiacche. La prima cosa che trasmettono e un senso di noia, ma pian piano che si conoscono i familiari il tempo passa sempre più piacevolmente. Gli Yamada si potrebbero quasi definire i pigri Simpson d'oriente per goffaggine ed epoca anni 90, nell'ottica di una versione ovviamente molto più garbata, semplice e in qualche modo normale nel darsi aiuto. Dei quattro componenti il ruolo maggiore è affidato ai due capofamiglia, ma dei cinque membri solo la piccola e spensierata Nonoko funge da elemento veramente secondario (una Maggie parlante). Questa raccolta di eventi rimane sempre fondamentalmente leggera e, in ottica giapponese, ottimista. Del resto, il padre nonostante il lavoro tipicamente massacrante, ha una buona comunicazione e presenza coi figli nelle ore rimanenti, il suo rapporto genero-suocera alterna in modo buffo cortesia distaccata a battibecchi di confidenza e la sua sbadata consorte, benché si noti abbia il ruolo di gestire persone e finanze della casa, è piuttosto premurosa e bonaria. La compagna ideale, non fosse per i suoi continui pasticci e le misure generose. Tuttavia, si nota come verso la fine la produzione, nel tentare di rendere la società in modo onesto, non cerchi di evitare qualche triste citazione di salute cagionevole, di cronaca nera e qualche malinconica presa di coscienza e di scorrere del tempo con la citazione dell'iconico tokusatsu Gekko Kamen, alias Moon Mask Rider. Come già detto in precedenza, lo stile generale è essenziale ma curato, coerente, ma con qualche raro virtuosismo stilistico e di movimento della telecamera, che insieme ai colori tradiscono l'uso, non troppo invasivo, della computer grafica. Come ulteriore tratto distintivo, la produzione, aggiungendo alcuni lunghi discorsi all'inizio e alla fine, pare voglia creare a modo suo un manuale per giovani famiglie. Francamente Houhokekyo Tonari no Yamada-kun, o più semplicemente, "I miei vicini Yamada", è qualcosa che fa un pò strano vedere importato da noi, non fosse stato Ghibli non se lo sarebbe continuato a filare di striscio nessuno ma, alla fine, nonostante una partenza incerta, devo dire che non mi è dispiaciuto affatto.
Quando si parla di Studio Ghibli, il nome sulla bocca di tutti è sicuramente di Hayao Miyazaki. Questa fama enorme verso tale figura, finisce purtroppo con l'oscurare il co-fondatore dello studio Ghibli, nonchè il suo esimio collega Isao Takahata, che seppur abbia realizzato per lo studio solo 5 opere attualmente, esse risultano essere dei lavori ben più interessanti e di qualità artistica superiori rispetto a quelli del suo più rinomato compagno di lavoro.
Se Miyazaki incassa un mucchio di soldi con i suoi film, Takahata finisce con lo sperperarli in opere dall'alto valore artistico, ma che finiscono con il non incontrare i gusti del pubblico al botteghino e per questo motivo, i suoi film escono a distanza di molti anni l'uno dall'altro. Non c'è da stupirsi quindi se di anni ne sono trascorsi ben 5 dal film "PomPoko", per poter realizzare "My Neighbors the Yamadas" nel 1999, purtroppo non ancora disponibile in lingua Italia.
Per quanto concerne la storia del film, essa non esiste, poiché la pellicola risulta strutturata in una miriade di piccoli siparietti dall'esigua durata di 5 o 10 minuti, incentrati sui membri della famiglia Yamada composta : dalla nonna Shige, da Takashi il padre di famiglia, la moglie Matsuko, dai due figli Noburo che è il fratello maggiore e Nonoko la sorella minore. Cinque membri su cui il regista focalizzerà la sua attenzione, rendendoli singolarmente protagonisti a volte singolarmente e altre collettivamente delle varie vicende giornaliere.
Takahata confeziona sicuramente il suo film più personale e sentito, sicuramente il punto di arrivo a cui voleva giungere da tempo. Dopo racconti di impostazione neo-realista come i precedenti due capolavori Una Tomba per le Lucciole ed Only Yesterday, Takahata giunge a raccontare ciò a cui ambiva; il quotidiano.
In questo film il regista ci parla delle piccole vicende quotidiane che l'individuo si ritrova ad affrontare nella vita di tutti i giorni.
Sono vicende banali, anti-adrenaliniche e monotone contro le quali, lo spettatore in cerca di ritmi più elevati, si tedierà ben presto nel seguirle, ma sono raccontate e narrate in modo tremendamente reale ed efficace, perchè se ci si riflette nella maggioranza dei giorni in cui viviamo non succede chissà che cosa di eclatante nella nostra misera esistenza.
Il regista decide di soffermarsi sui piccoli avvenimenti quotidiani, come un litigio tra marito e moglie per il controllo della TV, la prima cotta adolescenziale, il marito che giungendo stanco morto a casa pretende una cena sostanziosa trovando ben poco da mettere sotto i denti o la nonna che insieme ad un'altra anziana cincischia in piccoli pettegolezzi. Certo dei piccoli scossoni nel nostro quotidiano possono esserci, come dimenticarsi la propria bambina al supermercato o una banda di motociclisti che la notte fa schiamazzi non permettendo di dormire, ma sono effimeri episodi destinati a restare isolati e quando li si affronta si è impreparati, poichè disabituati ad essi a causa di una vita scandita sempre dagli stessi ritmi, che ci rende inadeguati a risolvere situazioni fuori dagli schemi ordinari, salvo fantasticare amaramente dopo tali avvenimenti, su come essi si sarebbero potuti affrontare in modo migliore, lasciandosi prendere in questo modo dallo sconforto per la propria misera impotenza, innanzi a situazioni fuori gli schemi.
Quando si pensa allo studio Ghibli, subito ci si ricorda delle sue favolose animazioni sgargianti ed ultra colorate, con una fotografia atta a far risplendere con giochi di luci ed ombre la messa in scena. Niente di tutto questo in tale film, Takahata non ama lo spettacolo visivo tipico delle pellicole di Miyazaki, preferendo una grafica essenziale quanto basta per rappresentare la vicenda. Non deve stupire quindi un approccio grafico sperimentale in questo film, con colori scarni e per lo più uniformati l'uno con l'altro. Le animazioni sono spartane, minimaliste e con fondali anonimi, poichè Takahata vuole concentrarsi solo ed esclusivamente sull'individuo e ben poco gli importa di ciò che lo circonda, visto che il paesaggio risulta sfumato e indefinito, ciò risulta essere una scelta interessante perché nel nostro quotidiano quando siamo presi dalle nostre cose, poco importa di ciò che ci circonda.
La regia segue di pari passo questa filosofia, facendo uso di inquadrature statiche atte a ritrarre l'esistenza umana, fatta di piccoli gesti e dialoghi ripetuti ciclicamente. La telecamera si focalizza proprio sulle piccole cose, con Takhatata che fa sapiente uso del mezzo registico, impiegando spesso inquadrature fisse che durano interi minuti. Naturalmente il regista non lesina nel concedersi qualche scena più visionaria scaturita dalle fantasie dei personaggi (come in Only Yestarday), accompagnata da metafore semplici quanto facili da decifrare, che paragonano la vita di una famiglia a quella di un mare in tempesta.
Come affrontare la vita e le varie vicende? Beh...nel finale Takahata ce lo dice, bisogna "Adattarsi" alle varie situazioni, non restando rigidi come un bastone di legno, ma flessibili come una spiga di grano allo spirare del vento, in modo da adeguarsi alle varie situazioni.
Come da consuetudine per i film di Takahata, la pellicola risultò un flop di dimensioni galattiche al botteghino Giapponese, riuscendo a pareggiare a malapena i costi di produzione, rendendo così nullo l'incasso stratosferico realizzato due anni prima con "Principessa Mononoke". Scendendo nel soggettivo, non me la sento di biasimare il pubblico per il responso negativo, poichè questa volta Takahata ha fatto un film per compiacere con fare alquanto snob esclusivamente la critica. In sostanza, "My Neighbors the Yamadas" risulta essere un ottimo film, ma non un capolavoro, pur essendo obbligatorio da vedere non solo per i fan del regista, ma anche per chi fosse in cerca di film d'animazione sperimentali e di pregevole fattura.
Se Miyazaki incassa un mucchio di soldi con i suoi film, Takahata finisce con lo sperperarli in opere dall'alto valore artistico, ma che finiscono con il non incontrare i gusti del pubblico al botteghino e per questo motivo, i suoi film escono a distanza di molti anni l'uno dall'altro. Non c'è da stupirsi quindi se di anni ne sono trascorsi ben 5 dal film "PomPoko", per poter realizzare "My Neighbors the Yamadas" nel 1999, purtroppo non ancora disponibile in lingua Italia.
Per quanto concerne la storia del film, essa non esiste, poiché la pellicola risulta strutturata in una miriade di piccoli siparietti dall'esigua durata di 5 o 10 minuti, incentrati sui membri della famiglia Yamada composta : dalla nonna Shige, da Takashi il padre di famiglia, la moglie Matsuko, dai due figli Noburo che è il fratello maggiore e Nonoko la sorella minore. Cinque membri su cui il regista focalizzerà la sua attenzione, rendendoli singolarmente protagonisti a volte singolarmente e altre collettivamente delle varie vicende giornaliere.
Takahata confeziona sicuramente il suo film più personale e sentito, sicuramente il punto di arrivo a cui voleva giungere da tempo. Dopo racconti di impostazione neo-realista come i precedenti due capolavori Una Tomba per le Lucciole ed Only Yesterday, Takahata giunge a raccontare ciò a cui ambiva; il quotidiano.
In questo film il regista ci parla delle piccole vicende quotidiane che l'individuo si ritrova ad affrontare nella vita di tutti i giorni.
Sono vicende banali, anti-adrenaliniche e monotone contro le quali, lo spettatore in cerca di ritmi più elevati, si tedierà ben presto nel seguirle, ma sono raccontate e narrate in modo tremendamente reale ed efficace, perchè se ci si riflette nella maggioranza dei giorni in cui viviamo non succede chissà che cosa di eclatante nella nostra misera esistenza.
Il regista decide di soffermarsi sui piccoli avvenimenti quotidiani, come un litigio tra marito e moglie per il controllo della TV, la prima cotta adolescenziale, il marito che giungendo stanco morto a casa pretende una cena sostanziosa trovando ben poco da mettere sotto i denti o la nonna che insieme ad un'altra anziana cincischia in piccoli pettegolezzi. Certo dei piccoli scossoni nel nostro quotidiano possono esserci, come dimenticarsi la propria bambina al supermercato o una banda di motociclisti che la notte fa schiamazzi non permettendo di dormire, ma sono effimeri episodi destinati a restare isolati e quando li si affronta si è impreparati, poichè disabituati ad essi a causa di una vita scandita sempre dagli stessi ritmi, che ci rende inadeguati a risolvere situazioni fuori dagli schemi ordinari, salvo fantasticare amaramente dopo tali avvenimenti, su come essi si sarebbero potuti affrontare in modo migliore, lasciandosi prendere in questo modo dallo sconforto per la propria misera impotenza, innanzi a situazioni fuori gli schemi.
Quando si pensa allo studio Ghibli, subito ci si ricorda delle sue favolose animazioni sgargianti ed ultra colorate, con una fotografia atta a far risplendere con giochi di luci ed ombre la messa in scena. Niente di tutto questo in tale film, Takahata non ama lo spettacolo visivo tipico delle pellicole di Miyazaki, preferendo una grafica essenziale quanto basta per rappresentare la vicenda. Non deve stupire quindi un approccio grafico sperimentale in questo film, con colori scarni e per lo più uniformati l'uno con l'altro. Le animazioni sono spartane, minimaliste e con fondali anonimi, poichè Takahata vuole concentrarsi solo ed esclusivamente sull'individuo e ben poco gli importa di ciò che lo circonda, visto che il paesaggio risulta sfumato e indefinito, ciò risulta essere una scelta interessante perché nel nostro quotidiano quando siamo presi dalle nostre cose, poco importa di ciò che ci circonda.
La regia segue di pari passo questa filosofia, facendo uso di inquadrature statiche atte a ritrarre l'esistenza umana, fatta di piccoli gesti e dialoghi ripetuti ciclicamente. La telecamera si focalizza proprio sulle piccole cose, con Takhatata che fa sapiente uso del mezzo registico, impiegando spesso inquadrature fisse che durano interi minuti. Naturalmente il regista non lesina nel concedersi qualche scena più visionaria scaturita dalle fantasie dei personaggi (come in Only Yestarday), accompagnata da metafore semplici quanto facili da decifrare, che paragonano la vita di una famiglia a quella di un mare in tempesta.
Come affrontare la vita e le varie vicende? Beh...nel finale Takahata ce lo dice, bisogna "Adattarsi" alle varie situazioni, non restando rigidi come un bastone di legno, ma flessibili come una spiga di grano allo spirare del vento, in modo da adeguarsi alle varie situazioni.
Come da consuetudine per i film di Takahata, la pellicola risultò un flop di dimensioni galattiche al botteghino Giapponese, riuscendo a pareggiare a malapena i costi di produzione, rendendo così nullo l'incasso stratosferico realizzato due anni prima con "Principessa Mononoke". Scendendo nel soggettivo, non me la sento di biasimare il pubblico per il responso negativo, poichè questa volta Takahata ha fatto un film per compiacere con fare alquanto snob esclusivamente la critica. In sostanza, "My Neighbors the Yamadas" risulta essere un ottimo film, ma non un capolavoro, pur essendo obbligatorio da vedere non solo per i fan del regista, ma anche per chi fosse in cerca di film d'animazione sperimentali e di pregevole fattura.
Film d'animazione dalla grafica particolare, che magari in un primo momento potrebbe disincentivarne la visione, ma poi a poco a poco si capisce che è perfetta per raccontare la storia, le abitudini, le caratteristiche di questa peculiare famiglia giapponese.
Il film si articola in tanti spaccati di vita riguardante ogni volta un membro della famiglia o più membri insieme e non mancano mai di regalare un sorriso, per non parlare del fatto che molto spesso nelle abitudini o negli errori commessi, ogni tanto, ci si ritrovano anche i propri.
Oltre ad essere davvero divertente questo film non manca di poesia, regalata non solo con poesie nel vero senso del termine, che vengono lette al termine di una storia, ma anche nelle morali implicite presenti all'inizio e alla fine del film.
I miei personaggi preferiti sono la mamma e la nonna, che non sono la mamma e la nonna che si immaginerebbe esserci in Giappone, sono dei personaggi insoliti che con il loro modo di fare ti sorprendono sempre.
Il mio voto è 10 per le risate che mi ha regalato e per la poesia trasmessa dal film nel suo complesso.
Il film si articola in tanti spaccati di vita riguardante ogni volta un membro della famiglia o più membri insieme e non mancano mai di regalare un sorriso, per non parlare del fatto che molto spesso nelle abitudini o negli errori commessi, ogni tanto, ci si ritrovano anche i propri.
Oltre ad essere davvero divertente questo film non manca di poesia, regalata non solo con poesie nel vero senso del termine, che vengono lette al termine di una storia, ma anche nelle morali implicite presenti all'inizio e alla fine del film.
I miei personaggi preferiti sono la mamma e la nonna, che non sono la mamma e la nonna che si immaginerebbe esserci in Giappone, sono dei personaggi insoliti che con il loro modo di fare ti sorprendono sempre.
Il mio voto è 10 per le risate che mi ha regalato e per la poesia trasmessa dal film nel suo complesso.
Di sicuro non si può negare nulla del profondo intelletto di Isao Takahata, poeta nel raccontarci le relazioni umane con una sensibilità e leggerezza che non conoscono pari nel panorama dell'animazione nipponica - e non solo. Mi dispiace però prendere atto come, pur non venendo mai a mancare un'autorialità unica nelle sue opere, dopo due capolavori immortali come "Una tomba per le lucciole" e "Only Yesterday", sembra che il regista non riuscirà più neppure ad avvicinarsi a quei livelli, terminando la sua carriera con produzioni esageratamente intellettuali che sembrano quasi compiaciute nel loro carattere elitario. Dopo la guerra dei tanuki di Pom Poko arrivano le avventure quotidiane della famiglia Yamada in "Hōhokekyo Tonari no Yamada-kun", con eguale spalancamento ripetuto di fauci.
Basato sul yonkoma "Nono-chan" di Hisaichi Ishii, il film di Takahata ne mantiene inalterata la formula di brevi sketch a tema quotidiano evitando di ricamarci sopra una storia vera e propria, affidando l'aspetto grafico a un originale minimalismo che rappresenta la patina intellettuale dell'opera. "My neighbors the Yamadas" è il primo film realizzato interamente in digitale da Ghibli, dove buffe figure realizzate ad acquerello si muovono in fondali dove arredamenti e oggetti sono caratterizzati da linee essenziali e da colori sfumati. Un aspetto grafico stralunato e quasi onirico, come avrete già intuito, rappresenta fin da subito valido motivo di odio e amore: l'opera di Takahata è così snob che si isola da sola, un hit or miss senza vie di mezzo. Devo a malincuore inserirmi nella seconda categoria.
Nessun odio o antipatia per opere impegnate o molto autoriali, ritengo che come in quelle di puro intrattenimento anche lì si possano trovare grandi risultati o imbarazzanti delusioni. My neighbors però, parlando chiaro, m'ha terribilmente tediato. Parla di questa famiglia, gli Yamada appunto, a contatto, siparietto dopo siparietto (dalla durata di 10 minuti circa l'uno), con la routine quotidiana. Un giorno si dimenticano per sbaglio la figlioletta in supermercato, un altro il capofamiglia litiga con la moglie per il programma da guardare in tv, un altro ancora la nonna vuole rimproverare dei teppisti in moto del rumore che fanno nel quartiere, il figlio ha la prima cotta, ecc. ecc.
La poesia di Takahata si nota sempre: nella trovata dei disegni stilizzati, che simboleggiano elegantemente la semplicità della vita e delle piccole cose; nei dialoghi, sempre perfetti, realistici e sinceri nel caratterizzare i protagonisti; nella minuziosità e semplicità con cui sono raccontati gesti e dinamiche della vita familiare. Però, mi perdonino il regista e i fan, questo non mi basta. Mi sembra manierismo fine a se stesso, poetico ma senza finalità. Essere partecipe della routine di una tipica famiglia borghese del Sol Levante è troppo poco per giustificare quasi due ore della mia vita in cui non accade niente, in cui infiniti dialoghi e una regia lentissima tratteggiano spaccati di vita che non mi rappresentano nulla che non conosco già, accompagnando "disegni" stancanti già dopo pochi istanti per la loro semplicità assoluta.
Non fatico a immaginare come il film piacerà moltissimo a buona parte della critica, ai fan del regista, a quelli di Studio Ghibli e a coloro che hanno (o pensano di possedere) un animo abbastanza poetico/artistico, un po' come succede con opere altrettanto elitarie e mortalmente noiose come "Aria the Animation", "Portrait de Petit Cossette", ecc., ma dal mio punto di vista, se voleva rivolgere la sua opera al grande pubblico pensando di compiacerlo, Takahata ha clamorosamente toppato con una "storia" indigesta per un buon 80% degli spettatori. Film che fortunatamente, a seconda di come la si pensi, rappresenta o l'ennesimo capolavoro del regista o una delle sue poche delusioni, risultato che nulla toglie all'importanza di due capolavori che ben valgono la sua esistenza.
Basato sul yonkoma "Nono-chan" di Hisaichi Ishii, il film di Takahata ne mantiene inalterata la formula di brevi sketch a tema quotidiano evitando di ricamarci sopra una storia vera e propria, affidando l'aspetto grafico a un originale minimalismo che rappresenta la patina intellettuale dell'opera. "My neighbors the Yamadas" è il primo film realizzato interamente in digitale da Ghibli, dove buffe figure realizzate ad acquerello si muovono in fondali dove arredamenti e oggetti sono caratterizzati da linee essenziali e da colori sfumati. Un aspetto grafico stralunato e quasi onirico, come avrete già intuito, rappresenta fin da subito valido motivo di odio e amore: l'opera di Takahata è così snob che si isola da sola, un hit or miss senza vie di mezzo. Devo a malincuore inserirmi nella seconda categoria.
Nessun odio o antipatia per opere impegnate o molto autoriali, ritengo che come in quelle di puro intrattenimento anche lì si possano trovare grandi risultati o imbarazzanti delusioni. My neighbors però, parlando chiaro, m'ha terribilmente tediato. Parla di questa famiglia, gli Yamada appunto, a contatto, siparietto dopo siparietto (dalla durata di 10 minuti circa l'uno), con la routine quotidiana. Un giorno si dimenticano per sbaglio la figlioletta in supermercato, un altro il capofamiglia litiga con la moglie per il programma da guardare in tv, un altro ancora la nonna vuole rimproverare dei teppisti in moto del rumore che fanno nel quartiere, il figlio ha la prima cotta, ecc. ecc.
La poesia di Takahata si nota sempre: nella trovata dei disegni stilizzati, che simboleggiano elegantemente la semplicità della vita e delle piccole cose; nei dialoghi, sempre perfetti, realistici e sinceri nel caratterizzare i protagonisti; nella minuziosità e semplicità con cui sono raccontati gesti e dinamiche della vita familiare. Però, mi perdonino il regista e i fan, questo non mi basta. Mi sembra manierismo fine a se stesso, poetico ma senza finalità. Essere partecipe della routine di una tipica famiglia borghese del Sol Levante è troppo poco per giustificare quasi due ore della mia vita in cui non accade niente, in cui infiniti dialoghi e una regia lentissima tratteggiano spaccati di vita che non mi rappresentano nulla che non conosco già, accompagnando "disegni" stancanti già dopo pochi istanti per la loro semplicità assoluta.
Non fatico a immaginare come il film piacerà moltissimo a buona parte della critica, ai fan del regista, a quelli di Studio Ghibli e a coloro che hanno (o pensano di possedere) un animo abbastanza poetico/artistico, un po' come succede con opere altrettanto elitarie e mortalmente noiose come "Aria the Animation", "Portrait de Petit Cossette", ecc., ma dal mio punto di vista, se voleva rivolgere la sua opera al grande pubblico pensando di compiacerlo, Takahata ha clamorosamente toppato con una "storia" indigesta per un buon 80% degli spettatori. Film che fortunatamente, a seconda di come la si pensi, rappresenta o l'ennesimo capolavoro del regista o una delle sue poche delusioni, risultato che nulla toglie all'importanza di due capolavori che ben valgono la sua esistenza.
Questo film mostra la vita quotidiana della famiglia Yamada, formata da Takashi e Matsuko (papà e mamma), Noboru (il figlio di circa 14 anni), Nonoko (la figlia di 5-6 anni), Shige (la nonna, mamma di Matsuko), e Pochi (il cane).
Matsuko è la tipica casalinga abbastanza pigra e poco creativa; si prende cura amorevolmente dei figli, del marito e della madre.
Takashi è l’unico che lavora, infatti da lui dipende tutta la famiglia, quindi è importante che si impegni sempre e bene, infatti un giorno si reca lo stesso al lavoro nonostante abbia la febbre alta.
Noboru è un normale ragazzo alle prese con l’adolescenza, quindi si ribella ai genitori, si fa domande esistenziali, inizia a uscire con le ragazze; inoltre ha qualche difficoltà nello studio.
Nonoko è una vispa bimbetta, e anche quando viene dimenticata al supermercato non va nel panico, ma addirittura aiuta un bambino che come lei ha perso la sua mamma.
Shige è la classica nonna saggia che dà consigli a tutti i membri della famiglia.
Non c’è una vera e propria trama, ma semplicemente un insieme di episodi, slegati l’uno dall’altro, ognuno preceduto da un titolo. Ciascuno di essi è presentato con humour, mostrando un ritratto credibile e realistico della vita di una famiglia della classe media applicabile in ogni cultura e paese.
Gli argomenti trattati sono i più vari: il cibo sempre uguale, l’importanza di avere e crescere bene i figli, la vecchiaia, il rispetto dei genitori, la fretta alla mattina con tutti che si dimenticano qualcosa, i giochi tra padre e figlio, il lavoro duro, la televisione che tiene incollati sul divano e i litigi per guardarla, il lavaggio dei panni, il casino fatto da alcuni teppisti in moto, i compiti a scuola…
La vita viene paragonata all’oceano, perché come quello può essere calmo o in tempesta, essa ha alti e bassi; ci sono momenti belli e brutti, felici e tristi; la vita è una perenne battaglia, perché ogni giorno presenta nuove sfide.
Ogni fase della vita è ardua: dal primo approccio col mondo quando si è piccoli, passando per l’adolescenza dove si vuole mettere in dubbio tutto, all’età adulta dove si decide di farsi una famiglia, quindi condividere tutto con un’altra persona, e poi l’avere figli, il crescerli con cognizione di causa; e infine la vecchiaia ,in cui ci si comincia a chiedere quanto rimane, si riflette su tutto ciò che si è fatto e se non si è un peso per gli altri. E quando si è vissuto per tanto tempo si viene a comprendere qual è la chiave per sopravvivere ed essere felici: bisogna prendere la vita come viene, affrontare le sue sfide col buon umore, non strafare, stare coi piedi per terra.
Come dicevano i samurai: affrontare le questioni di grande importanza con leggerezza, e affrontare le questioni di piccola importanza con estrema serietà. Perché questa è la vita: un insieme di piccoli eventi quotidiani.
Estremamente pregevole è la presenza di alcune Haiku, le tipiche poesie giapponesi che con pochissime parole descrivono un paesaggio in una determinata stagione; esse nel film fungono da intramezzo tra un episodio e l’altro, nonché da bellissime metafore dei periodi della vita.
Lo stile dell’animazione è molto particolare: la geometria ed i colori appaiono molto più semplici del normale, sembrano dei disegni fatti con gli acquarelli; questa particolare scelta stilistica non riduce affatto la qualità del film, anzi lo rende ancora più particolare.
Matsuko è la tipica casalinga abbastanza pigra e poco creativa; si prende cura amorevolmente dei figli, del marito e della madre.
Takashi è l’unico che lavora, infatti da lui dipende tutta la famiglia, quindi è importante che si impegni sempre e bene, infatti un giorno si reca lo stesso al lavoro nonostante abbia la febbre alta.
Noboru è un normale ragazzo alle prese con l’adolescenza, quindi si ribella ai genitori, si fa domande esistenziali, inizia a uscire con le ragazze; inoltre ha qualche difficoltà nello studio.
Nonoko è una vispa bimbetta, e anche quando viene dimenticata al supermercato non va nel panico, ma addirittura aiuta un bambino che come lei ha perso la sua mamma.
Shige è la classica nonna saggia che dà consigli a tutti i membri della famiglia.
Non c’è una vera e propria trama, ma semplicemente un insieme di episodi, slegati l’uno dall’altro, ognuno preceduto da un titolo. Ciascuno di essi è presentato con humour, mostrando un ritratto credibile e realistico della vita di una famiglia della classe media applicabile in ogni cultura e paese.
Gli argomenti trattati sono i più vari: il cibo sempre uguale, l’importanza di avere e crescere bene i figli, la vecchiaia, il rispetto dei genitori, la fretta alla mattina con tutti che si dimenticano qualcosa, i giochi tra padre e figlio, il lavoro duro, la televisione che tiene incollati sul divano e i litigi per guardarla, il lavaggio dei panni, il casino fatto da alcuni teppisti in moto, i compiti a scuola…
La vita viene paragonata all’oceano, perché come quello può essere calmo o in tempesta, essa ha alti e bassi; ci sono momenti belli e brutti, felici e tristi; la vita è una perenne battaglia, perché ogni giorno presenta nuove sfide.
Ogni fase della vita è ardua: dal primo approccio col mondo quando si è piccoli, passando per l’adolescenza dove si vuole mettere in dubbio tutto, all’età adulta dove si decide di farsi una famiglia, quindi condividere tutto con un’altra persona, e poi l’avere figli, il crescerli con cognizione di causa; e infine la vecchiaia ,in cui ci si comincia a chiedere quanto rimane, si riflette su tutto ciò che si è fatto e se non si è un peso per gli altri. E quando si è vissuto per tanto tempo si viene a comprendere qual è la chiave per sopravvivere ed essere felici: bisogna prendere la vita come viene, affrontare le sue sfide col buon umore, non strafare, stare coi piedi per terra.
Come dicevano i samurai: affrontare le questioni di grande importanza con leggerezza, e affrontare le questioni di piccola importanza con estrema serietà. Perché questa è la vita: un insieme di piccoli eventi quotidiani.
Estremamente pregevole è la presenza di alcune Haiku, le tipiche poesie giapponesi che con pochissime parole descrivono un paesaggio in una determinata stagione; esse nel film fungono da intramezzo tra un episodio e l’altro, nonché da bellissime metafore dei periodi della vita.
Lo stile dell’animazione è molto particolare: la geometria ed i colori appaiono molto più semplici del normale, sembrano dei disegni fatti con gli acquarelli; questa particolare scelta stilistica non riduce affatto la qualità del film, anzi lo rende ancora più particolare.
Per il "povero" Takahata sempre poche recensioni. Che dire, "I Miei Vicini Yamada" è, per lo stile, come si vede dalle immagini, il film più particolare dello Studio Ghibli, molto diverso dagli altri. Racconta le avventure di una tipica famiglia borghese: un capofamiglia impiegato, una moglie casalinga, un figlio maggiore studente che non ha voglia di studiare, una figlia più piccola e una nonna che vive con loro. Avventure però si fa per dire. Si tratta di frammenti di vita quotidiana (Takahata aveva già fatto bellissime descrizioni della vita famigliare in "Only Yesterday"): piccoli litigi tra moglie e marito, il rapporto tra padre e figlio e cosi via, con alcuni momenti molto divertenti e la solita grande poesia che riesce a trasmettere Takahata. Il lungometraggio è diviso in tanti piccoli episodi e ogni passaggio da uno all'altro è sottolineato da "Haiku", molti dei quali del maestro della poesia giapponese: Basho.
Basato su un manga di strisce comiche, Houhokekyo Tonari no Yamada-kun è la risposta di Isao Takahata al ben più popolare Mononke Hime, del collega e amico Hayao Miyazaki, con cui condivide anno di uscita e studio di realizzazione. Non potrebbero essere film più differenti però.
Con uno stile originale e stilizzato, ma non per questo non splendidamente curato, Takahata cerca di illustrarci le scene di vita quotidiane di una tipica famiglia giapponese, alternando segmenti di divertenti sketch umoristici a scene fantastiche che reinterpretano metaforicamente la meravigliosa convenzionalità della vita familiare.
Ne esce fuori un ritratto caldo e sentimentale (nonostante lo stile particolare e i colori lucidi e freddi) di un gruppo di persone la cui semplicità e coesione non può non commuovere o fare immedesimare. Pur con poche linee di disegno i personaggi di Takahata riescono a delinearsi in maniera profonda e significativa, attraverso piccoli gesti quotidiani di gran valore e mirabolanti fantasie solamente sognate. Il tutto è sublimato dai rappresentativi "haiku" che chiudono ogni sequenza.
Un film (molto) divertente e poetico, lieto rappresentante della poetica di un maestro che riesce sempre a farci commuovere dalla felicità.
Con uno stile originale e stilizzato, ma non per questo non splendidamente curato, Takahata cerca di illustrarci le scene di vita quotidiane di una tipica famiglia giapponese, alternando segmenti di divertenti sketch umoristici a scene fantastiche che reinterpretano metaforicamente la meravigliosa convenzionalità della vita familiare.
Ne esce fuori un ritratto caldo e sentimentale (nonostante lo stile particolare e i colori lucidi e freddi) di un gruppo di persone la cui semplicità e coesione non può non commuovere o fare immedesimare. Pur con poche linee di disegno i personaggi di Takahata riescono a delinearsi in maniera profonda e significativa, attraverso piccoli gesti quotidiani di gran valore e mirabolanti fantasie solamente sognate. Il tutto è sublimato dai rappresentativi "haiku" che chiudono ogni sequenza.
Un film (molto) divertente e poetico, lieto rappresentante della poetica di un maestro che riesce sempre a farci commuovere dalla felicità.