La vetta degli Dei
"Il fallimento ci mostra con chiarezza i nostri limiti. Per questo motivo l'insuccesso è un'esperienza più forte del successo." (Reinhold Messner)
E non potevo che iniziare la recensione sul film "La vetta degli dei" ("Le Sommet de Dieux") se non appellandomi a uno dei più famosi alpinisti e scalatori di casa nostra, che ha dispensato diverse "verità" sulla vita dello scalatore nella sua lunga e avventurosa carriera, tra cui si annovera anche l'impresa di essere stato il primo uomo a scalare l'Everest senza l'ausilio di ossigeno nel 1978.
Ed è proprio l'Everest ad essere la montagna che dà il nome al film d'animazione in recensione, diretto nel 2021 da Patrick Imbert. Basato sul manga giapponese omonimo di Jirô Taniguchi, ispirato al romanzo di Baku Yumemakura ("Kamigami no Itadaki"), il film racconta in forma romanzata ed epica una storia di avventura e ossessione, intrecciata con la passione per l'alpinismo: in pratica, va a cercar di scavare nelle motivazioni che spingono un uomo a sfidare la montagna, gli ambienti ostili e i propri limiti.
La trama del film narra le vicende di un giornalista Fukamachi, che si imbatte in una vecchia e misteriosa macchina fotografica reperita in un mercatino di Katmandu, che potrebbe risolvere uno dei più grandi enigmi della storia dell'alpinismo, cosa è realmente accaduto a George Mallory e a Andrew Irvine, gli scalatori britannici scomparsi sull'Everest nel 1924, che potrebbero essere riusciti nell'impresa di scalarlo trent'anni prima di Edmund Hillary e Tenzing Norgay. Nelle ricerche, Fukamachi si imbatte in Habu Joji, alpinista giapponese ritiratosi in solitudine dopo una disgrazia proprio per preparare l'impresa della vita.
Da quanto appreso in rete, il romanzo di Yumemakura che ispira il manga e il film è piuttosto corposo (accreditato di quasi duemila pagine), e pertanto sarei portato a pensare che, obtorto collo, il film ha dovuto soprassedere su molti aspetti sicuramente più approfonditi nel libro e anche nel manga, per giungere al finale. Tuttavia, pur non avendo letto né il romanzo né il manga, "La vetta degli dei" mi ha entusiasmato per l'equilibrio: da una prima parte preparatoria con un mix di flashback si giunge alla parte più "gustosa" del film, quella dedicata alla scalata, che non scade in scemenze hollywoodiane tipo "Cliffhanger", ma mantiene una continenza e la capacità di trasmettere comunque la vera motivazione che ispira gli scalatori a sfidare l'impossibile: l'ossessione.
"Perché scali le montagne? Perché sono lì" (cit. del film di G. Mallory)
Sicuramente, il film per motivi di tempo non può rendere appieno la resilienza dei personaggi e in generale degli scalatori: quel mix di follia dettato dai fallimenti subiti, dalla tenacia e dall'incapacità ad arrendersi. Lo studio meticoloso delle vie da intraprendere, del momento più propizio per affrontarle, della capacità di adattarsi ai repentini mutamenti delle condizioni meteo e dei percorsi sono aspetti che richiederebbero molto più tempo e pazienza. Solo in questo modo sarebbe possibile allo spettatore apprezzare o intuire l'immensa capacità di sacrificio dei protagonisti e degli scalatori. Ma condensare il tutto in un film sarebbe stato molto improbo.
"La vetta degli dei" a suo modo ci prova: Habu è narrato come un personaggio complesso, guidato da un'incredibile determinazione e passione per l'alpinismo, ma anche da un profondo senso di colpa e rimorso per un evento mortale. La sua ossessione per le montagne lo ha portato a sacrificare tutto nella sua vita personale, compresi i legami umani più importanti. Makoto Fukamachi, inizialmente interessato solo a risolvere il mistero della macchina fotografica, si trova presto coinvolto in una ricerca che mette alla prova i suoi stessi limiti fisici e mentali.
E così il film prova a esplorare temi come l'ossessione, la solitudine, il senso di colpa e la redenzione attraverso la riuscita dell'impresa in nome di tutti quelli che hanno fallito anche a costo della propria vita. L'ossessione per l'alpinismo diventa una metafora della ricerca interiore e della necessità di confrontarsi con le proprie questioni irrisolte. Sarei portato a sostenere che Joji Habu rappresenta l'archetipo dell'uomo consumato dalla propria passione, mentre Makoto Fukamachi incarna il desiderio di comprensione e di trovare un senso nelle vicende umane.
La seconda parte del film a mio avviso riesce a rendere bene il senso di solitudine e inadeguatezza dei due protagonisti nella sfida all'Everest: le montagne, con la loro imponente e inospitale bellezza, diventano la metafora dell'esistenza in cui gli scalatori si immolano volontariamente al fine di trovare, tramite l'isolamento tanto fisico quanto emotivo, la forza per superare i propri limiti e le proprie vulnerabilità interiori.
Il film assegna alla scalata all'Everest una sorta di percorso escatologico per Joji Habu: il senso di colpa e la ricerca di redenzione sono profondamente intrecciati nella trama. Joji Habu è tormentato da eventi del passato che lo hanno segnato indelebilmente, e la sua missione di scalare l'Everest senza supporto esterno diventa il suo modo di espiare le colpe percepite. La sua lotta contro la montagna è anche una lotta contro sé stesso, una ricerca di pace interiore attraverso l'impresa oltre il limite del suicidio.
Dal punto di vista tecnico, "La vetta degli dei" è riuscito a rendere con un world building di grande impatto la maestosità delle montagne e la brutalità delle condizioni climatiche. I paesaggi montani, resi in modo realistico e al contempo poetico, sono uno dei punti di forza del film, trasportando lo spettatore in un mondo di bellezza selvaggia e inesorabile. Ma anche il chara design (così lontano dai soliti stilemi nipponici) e le animazioni non sembrano da meno. Il sound design è sembrato efficace nel ricreare le atmosfere anche estreme nelle scalate, rendendo oltremodo realistiche le immagini e la storia narrata, rendendo l'esperienza per lo spettatore "immersiva".
"Le montagne sono talmente elementari nella forma in cui ci appaiono, che salirci mi sembra ovvio e naturale. È con il chiedersi il perché che comincia il fallimento." (Reinhold Messner)
"La vetta degli dei" è un film la cui visione non si deve soffermare esclusivamente su quanto narrato, ma proseguire sulla riflessione su alcuni temi esistenziali che ci accomunano agli scalatori protagonisti dell'opera. Una meditazione sull'essenza della passione umana e sui sacrifici che essa comporta. Un film che porta lo spettatore a meditare sulla comprensione delle proprie passioni e dei limiti che è disposto a oltrepassare per realizzarle.
E non potevo che iniziare la recensione sul film "La vetta degli dei" ("Le Sommet de Dieux") se non appellandomi a uno dei più famosi alpinisti e scalatori di casa nostra, che ha dispensato diverse "verità" sulla vita dello scalatore nella sua lunga e avventurosa carriera, tra cui si annovera anche l'impresa di essere stato il primo uomo a scalare l'Everest senza l'ausilio di ossigeno nel 1978.
Ed è proprio l'Everest ad essere la montagna che dà il nome al film d'animazione in recensione, diretto nel 2021 da Patrick Imbert. Basato sul manga giapponese omonimo di Jirô Taniguchi, ispirato al romanzo di Baku Yumemakura ("Kamigami no Itadaki"), il film racconta in forma romanzata ed epica una storia di avventura e ossessione, intrecciata con la passione per l'alpinismo: in pratica, va a cercar di scavare nelle motivazioni che spingono un uomo a sfidare la montagna, gli ambienti ostili e i propri limiti.
La trama del film narra le vicende di un giornalista Fukamachi, che si imbatte in una vecchia e misteriosa macchina fotografica reperita in un mercatino di Katmandu, che potrebbe risolvere uno dei più grandi enigmi della storia dell'alpinismo, cosa è realmente accaduto a George Mallory e a Andrew Irvine, gli scalatori britannici scomparsi sull'Everest nel 1924, che potrebbero essere riusciti nell'impresa di scalarlo trent'anni prima di Edmund Hillary e Tenzing Norgay. Nelle ricerche, Fukamachi si imbatte in Habu Joji, alpinista giapponese ritiratosi in solitudine dopo una disgrazia proprio per preparare l'impresa della vita.
Da quanto appreso in rete, il romanzo di Yumemakura che ispira il manga e il film è piuttosto corposo (accreditato di quasi duemila pagine), e pertanto sarei portato a pensare che, obtorto collo, il film ha dovuto soprassedere su molti aspetti sicuramente più approfonditi nel libro e anche nel manga, per giungere al finale. Tuttavia, pur non avendo letto né il romanzo né il manga, "La vetta degli dei" mi ha entusiasmato per l'equilibrio: da una prima parte preparatoria con un mix di flashback si giunge alla parte più "gustosa" del film, quella dedicata alla scalata, che non scade in scemenze hollywoodiane tipo "Cliffhanger", ma mantiene una continenza e la capacità di trasmettere comunque la vera motivazione che ispira gli scalatori a sfidare l'impossibile: l'ossessione.
"Perché scali le montagne? Perché sono lì" (cit. del film di G. Mallory)
Sicuramente, il film per motivi di tempo non può rendere appieno la resilienza dei personaggi e in generale degli scalatori: quel mix di follia dettato dai fallimenti subiti, dalla tenacia e dall'incapacità ad arrendersi. Lo studio meticoloso delle vie da intraprendere, del momento più propizio per affrontarle, della capacità di adattarsi ai repentini mutamenti delle condizioni meteo e dei percorsi sono aspetti che richiederebbero molto più tempo e pazienza. Solo in questo modo sarebbe possibile allo spettatore apprezzare o intuire l'immensa capacità di sacrificio dei protagonisti e degli scalatori. Ma condensare il tutto in un film sarebbe stato molto improbo.
"La vetta degli dei" a suo modo ci prova: Habu è narrato come un personaggio complesso, guidato da un'incredibile determinazione e passione per l'alpinismo, ma anche da un profondo senso di colpa e rimorso per un evento mortale. La sua ossessione per le montagne lo ha portato a sacrificare tutto nella sua vita personale, compresi i legami umani più importanti. Makoto Fukamachi, inizialmente interessato solo a risolvere il mistero della macchina fotografica, si trova presto coinvolto in una ricerca che mette alla prova i suoi stessi limiti fisici e mentali.
E così il film prova a esplorare temi come l'ossessione, la solitudine, il senso di colpa e la redenzione attraverso la riuscita dell'impresa in nome di tutti quelli che hanno fallito anche a costo della propria vita. L'ossessione per l'alpinismo diventa una metafora della ricerca interiore e della necessità di confrontarsi con le proprie questioni irrisolte. Sarei portato a sostenere che Joji Habu rappresenta l'archetipo dell'uomo consumato dalla propria passione, mentre Makoto Fukamachi incarna il desiderio di comprensione e di trovare un senso nelle vicende umane.
La seconda parte del film a mio avviso riesce a rendere bene il senso di solitudine e inadeguatezza dei due protagonisti nella sfida all'Everest: le montagne, con la loro imponente e inospitale bellezza, diventano la metafora dell'esistenza in cui gli scalatori si immolano volontariamente al fine di trovare, tramite l'isolamento tanto fisico quanto emotivo, la forza per superare i propri limiti e le proprie vulnerabilità interiori.
Il film assegna alla scalata all'Everest una sorta di percorso escatologico per Joji Habu: il senso di colpa e la ricerca di redenzione sono profondamente intrecciati nella trama. Joji Habu è tormentato da eventi del passato che lo hanno segnato indelebilmente, e la sua missione di scalare l'Everest senza supporto esterno diventa il suo modo di espiare le colpe percepite. La sua lotta contro la montagna è anche una lotta contro sé stesso, una ricerca di pace interiore attraverso l'impresa oltre il limite del suicidio.
Dal punto di vista tecnico, "La vetta degli dei" è riuscito a rendere con un world building di grande impatto la maestosità delle montagne e la brutalità delle condizioni climatiche. I paesaggi montani, resi in modo realistico e al contempo poetico, sono uno dei punti di forza del film, trasportando lo spettatore in un mondo di bellezza selvaggia e inesorabile. Ma anche il chara design (così lontano dai soliti stilemi nipponici) e le animazioni non sembrano da meno. Il sound design è sembrato efficace nel ricreare le atmosfere anche estreme nelle scalate, rendendo oltremodo realistiche le immagini e la storia narrata, rendendo l'esperienza per lo spettatore "immersiva".
"Le montagne sono talmente elementari nella forma in cui ci appaiono, che salirci mi sembra ovvio e naturale. È con il chiedersi il perché che comincia il fallimento." (Reinhold Messner)
"La vetta degli dei" è un film la cui visione non si deve soffermare esclusivamente su quanto narrato, ma proseguire sulla riflessione su alcuni temi esistenziali che ci accomunano agli scalatori protagonisti dell'opera. Una meditazione sull'essenza della passione umana e sui sacrifici che essa comporta. Un film che porta lo spettatore a meditare sulla comprensione delle proprie passioni e dei limiti che è disposto a oltrepassare per realizzarle.
“La vetta degli Dei” è un film d’animazione tratto dall’omonimo manga disegnato da Jiro Taniguchi, opera che lessi qualche anno fa e che fu in grado di stregarmi per l’impressionante qualità artistica e per le forti emozioni che era stata in grado di rievocare. Pur avendo sentito buone opinioni in merito a questo lungometraggio, nutrivo qualche dubbio in merito al fatto che, forse, un film da novanta minuti non fosse sufficiente per sintetizzare un’opera di cinque volumi molto intensi. Contento di essermi sbagliato.
L’aspetto più convincente della pellicola è che riesce a valorizzare ogni aspetto dell’originale senza trascurare nulla o quasi. La trama è interessante, la storia di Abu e quella del giornalista che cerca di ricostruirne la vita sono perfettamente intrecciate, con una narrazione che riesce a passare dall’una all’altra con efficacia, dando il giusto ritmo ad ogni evento. Il fiore all’occhiello del film, però, è la varietà di sensazioni e di emozioni che si manifestano durante le scalate. Ogni passo falso, ogni errore si percepisce all’istante, creando un’immedesimazione perfetta tra i personaggi e lo spettatore. La tensione, la paura e la fatica di ogni mossa definiscono una forma di coinvolgimento totale che fa rimpiangere il fatto di non aver potuto apprezzare il film in sala.
Davvero buono il lato tecnico, con uno stile che non fa rimpiangere l’originale e che al tempo stesso non si limita a una semplice imitazione, cercando comunque un’estetica a suo modo particolare.
Ottima la colonna sonora, che accompagna egregiamente le vicende dei personaggi, soprattutto durante i momenti più rilassati.
Trasporre in un lungometraggio “La vetta degli dei” non era un compito facile, ma questo film riesce a centrare il punto, regalando una visione interessante, coinvolgente e ben fatta tecnicamente. Consigliato a tutti coloro che come me avevano amato il manga, ma anche e soprattutto a tutti coloro che ancora non l’hanno letto e che potrebbero avere il desiderio di scoprirlo proprio grazie a questa pellicola.
L’aspetto più convincente della pellicola è che riesce a valorizzare ogni aspetto dell’originale senza trascurare nulla o quasi. La trama è interessante, la storia di Abu e quella del giornalista che cerca di ricostruirne la vita sono perfettamente intrecciate, con una narrazione che riesce a passare dall’una all’altra con efficacia, dando il giusto ritmo ad ogni evento. Il fiore all’occhiello del film, però, è la varietà di sensazioni e di emozioni che si manifestano durante le scalate. Ogni passo falso, ogni errore si percepisce all’istante, creando un’immedesimazione perfetta tra i personaggi e lo spettatore. La tensione, la paura e la fatica di ogni mossa definiscono una forma di coinvolgimento totale che fa rimpiangere il fatto di non aver potuto apprezzare il film in sala.
Davvero buono il lato tecnico, con uno stile che non fa rimpiangere l’originale e che al tempo stesso non si limita a una semplice imitazione, cercando comunque un’estetica a suo modo particolare.
Ottima la colonna sonora, che accompagna egregiamente le vicende dei personaggi, soprattutto durante i momenti più rilassati.
Trasporre in un lungometraggio “La vetta degli dei” non era un compito facile, ma questo film riesce a centrare il punto, regalando una visione interessante, coinvolgente e ben fatta tecnicamente. Consigliato a tutti coloro che come me avevano amato il manga, ma anche e soprattutto a tutti coloro che ancora non l’hanno letto e che potrebbero avere il desiderio di scoprirlo proprio grazie a questa pellicola.
Brividi.
Tutto parte dalla ricerca ossessiva di un oggetto quasi mitologico che avrebbe il potenziale di trasformare radicalmente la storia dell'alpinismo, ma questo viaggio si trasforma col passare dei minuti in qualcosa di diverso.
Si può percepire nel protagonista/narratore un cambiamento: dal desiderio dell'oggetto, la sua attenzione sembra spostarsi gradualmente sulla ricerca dell' "uomo". Uomo che, sì, corrisponde inizialmente allo sfuggente alpinista, ma che col passare dei minuti verte a inquadrarsi sulla figura di sé stesso. Nel bene o nel male il nostro fotografo si ritrova catapultato in prima persona dentro quel mondo misterioso e avrà quindi l'opportunità di cercare di capire un po' meglio i processi mentali dell'uomo a cui ha dato la caccia per diverso tempo.
La riflessione sul perché alcune persone sentano il bisogno di compiere tali imprese apparentemente insensate è un tema ricorrente in questo genere di opere e non può non toccare i cuori di tutti quelli che provano un minimo di rispetto o semplice interesse per la montagna. Anche chi non ha mai fatto vere arrampicate, come il sottoscritto (che inizia a sentir tremare le gambe per le vertigini già solo a guardare giù dal balcone del terzo piano, figuriamoci a più di migliaia di metri d'altezza).
I paesaggi mozzafiato e l'atmosfera solenne che trasuda da buona parte del lungometraggio agiscono in sinergia, spingendo lo spettatore a immergersi nelle ambientazioni e facendogli provare vera ansia nei momenti di tensione... per poi fargli realizzare con un brivido di piacere misto a sollievo di essere aggrappati al bracciolo della poltrona e non a una piccozza piantata nel fianco di una montagna.
Il doppiaggio italiano poteva essere un filo più espressivo, ma non mi è dispiaciuto, e le musiche (oltre ai suoni suggestivi della montagna) sono perfette praticamente in ogni scena; molto curato anche lo stile grafico, un genere di disegni che trovo sublime quando unito a trame di questo tipo.
In sintesi: consigliatissimo a tutti.
Tutto parte dalla ricerca ossessiva di un oggetto quasi mitologico che avrebbe il potenziale di trasformare radicalmente la storia dell'alpinismo, ma questo viaggio si trasforma col passare dei minuti in qualcosa di diverso.
Si può percepire nel protagonista/narratore un cambiamento: dal desiderio dell'oggetto, la sua attenzione sembra spostarsi gradualmente sulla ricerca dell' "uomo". Uomo che, sì, corrisponde inizialmente allo sfuggente alpinista, ma che col passare dei minuti verte a inquadrarsi sulla figura di sé stesso. Nel bene o nel male il nostro fotografo si ritrova catapultato in prima persona dentro quel mondo misterioso e avrà quindi l'opportunità di cercare di capire un po' meglio i processi mentali dell'uomo a cui ha dato la caccia per diverso tempo.
La riflessione sul perché alcune persone sentano il bisogno di compiere tali imprese apparentemente insensate è un tema ricorrente in questo genere di opere e non può non toccare i cuori di tutti quelli che provano un minimo di rispetto o semplice interesse per la montagna. Anche chi non ha mai fatto vere arrampicate, come il sottoscritto (che inizia a sentir tremare le gambe per le vertigini già solo a guardare giù dal balcone del terzo piano, figuriamoci a più di migliaia di metri d'altezza).
I paesaggi mozzafiato e l'atmosfera solenne che trasuda da buona parte del lungometraggio agiscono in sinergia, spingendo lo spettatore a immergersi nelle ambientazioni e facendogli provare vera ansia nei momenti di tensione... per poi fargli realizzare con un brivido di piacere misto a sollievo di essere aggrappati al bracciolo della poltrona e non a una piccozza piantata nel fianco di una montagna.
Il doppiaggio italiano poteva essere un filo più espressivo, ma non mi è dispiaciuto, e le musiche (oltre ai suoni suggestivi della montagna) sono perfette praticamente in ogni scena; molto curato anche lo stile grafico, un genere di disegni che trovo sublime quando unito a trame di questo tipo.
In sintesi: consigliatissimo a tutti.