Colorful (2010)
"Colorful" è un film animato uscito nel 2010 diretto da Keiichi Hara della durata di poco più di due ore, prodotto dallo Studio Ascension e basato sull'omonimo romanzo di Eto Mori.
È un anime delicato, slice of life, lento e introspettivo con una buona dose di soprannaturale proprio per il tema alla base della trama: la rinascita/reincarnazione dell'anima nel corpo di un ragazzo di circa 15 anni.
Il protagonista è lo spirito (L'anima?) di una persona morta (si ignora la causa della morte) che, per volere di un entità soprannaturale, deve ritornare nel corpo di un ragazzo adolescente morto suicida: Makoto Kobayashi. Della sua destinazione viene informato da un strano spirito con le sembianze di un bambino (di nome Purapura) che lo accoglie in un ambiente simile ad una biglietteria di una stazione ferroviaria dove ci sono tanti altri spiriti in coda per prendere il biglietto per la destinazione ultraterrena...
Appresa la notizia, lo spirito inizialmente non vorrebbe tornare indietro ma messo alle strette dalla irrevocabilità dell'ordine accetta a malincuore di ritornare un'altra volta nel mondo "terreno", nel corpo di Makoto, con lo scopo (a tempo determinato) di fare un percorso di "rieducazione" (definito homestay) alla comprensione degli errori commessi nella precedente vita e apprezzare il dono dell'esistenza.
E così ci si ritrova nella "soggettiva" di Makoto nel letto di un ospedale al cui capezzale sono presenti i suoi genitori, il fratello e il personale ospedaliero che non si capacitano dalla gioia che lui fosse tornato in vita senza una spiegazione medica e logica...
Inizia pertanto la vita del "nuovo" Makoto, il quale, a poco a poco, frequenta le persone e viene a conoscenza delle situazioni che avevano spinto il "vecchio" Makoto al suicidio. Questa fase del film, piuttosto lunga potrebbe risultare un po' "pesante" e noiosa, per la dilatazione dei tempi dei dialoghi e soprattutto dei lunghi e molto realistici silenzi tra i personaggi inframmezzati dalle espressioni di disappunto, dolore, meraviglia, stupore, comprensione, ecc dei personaggi. Questi silenzi e pause risultano essere più significative dei dialoghi stessi, rendono l'imbarazzo e l'angoscia che il film vuole trasmettere e mi hanno particolarmente colpito per la loro "durezza".
Paradigmatici sono i dialoghi (e i molti silenzi e sguardi che si scambiano) tra Makoto e sua madre: nel film la descrizione del rapporto tra loro è uno dei temi più complessi e difficili, tanto da renderlo il più "doloroso" del film.
Makoto non perdona alla madre il tradimento che aveva scoperto prima di suicidarsi e il suo modo di cercare di superare l'imbarazzo di quanto successo (il tradimento stesso e il suicidio messo in atto dal figlio con i medicinali che lei stava assumendo per superare una forma di depressione), comportandosi come se non fosse successo nulla. La scena della cena tra loro due soli a tavola è "agghiacciante": il ragazzo immagina le mani di sua madre, le stesse che hanno preparato la cena e le prelibatezze che stava assaporando, sono le stesse che hanno toccato l'amante ... e afferma che "mangiare con lei gli fa venire il vomito".
Fa male vedere come non accettare gli errori commessi dalle persone cui vogliamo bene e non perdonarli nonostante gli sforzi messi in atto sia umiliante e doloroso per chi subisce il disprezzo e l'indifferenza...
Ma il film "accarezza" in modo diretto, ma anche poetico e metaforico altri temi "spinosi" della società giapponese che inducono i "meno forti" a cedere al suicidio: bullismo a scuola e fuori, violenza più o meno gratuita, mancanza a livello individuale di ideali e principi sani (emblematico il caso della ragazza che si prostituisce per avere cose che altrimenti non potrebbe permettersi), i "problemi" familiari che non possono essere affrontati e discussi per l'ipocrisia radicata sia a livello sociale sia familiare (padre che non fa carriera ed è sempre assente a causa del lavoro; madre perennemente sola che cerca di sentirsi viva cercando aliunde la propria felicità; fratello che "maltratta" il più piccolo per gelosia), società che impone un'unica Weltanschauung, ossia la visione della vita individuale come ingranaggio di un sistema collettivo complesso fin dalle scuole, competitività portata all'estremo già dalla stessa scuola (divertenti sono le scenette in cui Makoto e l'amico Saotome ironizzano sulla loro posizione in classifica di classe per la loro media voti)... Che cosa resta dell'ingenuità e della fanciullezza? Che cosa resta del voler seguire le proprie aspirazioni ed inclinazioni?
Ed ecco probabilmente la spiegazione della reazione di Makoto a tutto quanto appena delineato come adolescente già segnato nel profondo, aggravato dall'essere già introverso: chiudersi in sé stessi, rifiutando il contatto con gli altri, ferendo le persone per allontanarle a scopo preventivo per non rischiare di essere a sua volta ferito. Ma al contempo Makoto è consapevole che la sua rinascita è subordinata ad una nuova scadenza oltre la quale morirà se il programma di "recupero" non avrà un esito positivo; e così sembra che Makoto cerchi di reagire a tutte le questioni irrisolte della sua vita "precedente": un redde rationem nel quale senza alcun freno inibitorio nel quale sembra dare sfoggio del "peggio" di se stesso in sfregio a coloro che gli hanno concesso una seconda occasione di essere una persona migliore agli occhi degli altri.
Eppure, in questo percorso di rabbia e malinconia, con un senso di vuoto, dispiacere, e sensi di colpa, Makoto inizia a "svoltare" in un percorso di crescita che si conclude con uno spiazzante plot twist finale nel quale Makoto sembra iniziare a comprendere il valore dell'esistenza, delle sfaccettature ("colori") delle persone che lo circondano, della diversità e inclusione anche attraverso il perdono dei loro errori e difetti.
Lo stile tecnico di "Colorful" non mi ha fatto impazzire: i disegni dei personaggi sono poco accurati e, a sensazione ,piatti. Tale limite è accentuato dai frequenti primi piani dove anche le espressioni facciali che dovrebbero trasmettere le emozioni dei personaggi sono piuttosto piatte.
Di contro, il world building sembra essere più accurato anche se spesso caratterizzato da colori un po' spenti che sembrano voler trasmettere il senso di vuoto, malinconia e tristezza della storia e dei suoi personaggi.
Film di cui consiglio la visione per una riflessione ad ampio respiro sul dramma della incapacità di comunicare e di rapportarsi in modo completo con le persone cui teniamo maggiormente e sulla capacità di tollerare, perdonare e superare gli errori commessi.
È un anime delicato, slice of life, lento e introspettivo con una buona dose di soprannaturale proprio per il tema alla base della trama: la rinascita/reincarnazione dell'anima nel corpo di un ragazzo di circa 15 anni.
Il protagonista è lo spirito (L'anima?) di una persona morta (si ignora la causa della morte) che, per volere di un entità soprannaturale, deve ritornare nel corpo di un ragazzo adolescente morto suicida: Makoto Kobayashi. Della sua destinazione viene informato da un strano spirito con le sembianze di un bambino (di nome Purapura) che lo accoglie in un ambiente simile ad una biglietteria di una stazione ferroviaria dove ci sono tanti altri spiriti in coda per prendere il biglietto per la destinazione ultraterrena...
Appresa la notizia, lo spirito inizialmente non vorrebbe tornare indietro ma messo alle strette dalla irrevocabilità dell'ordine accetta a malincuore di ritornare un'altra volta nel mondo "terreno", nel corpo di Makoto, con lo scopo (a tempo determinato) di fare un percorso di "rieducazione" (definito homestay) alla comprensione degli errori commessi nella precedente vita e apprezzare il dono dell'esistenza.
E così ci si ritrova nella "soggettiva" di Makoto nel letto di un ospedale al cui capezzale sono presenti i suoi genitori, il fratello e il personale ospedaliero che non si capacitano dalla gioia che lui fosse tornato in vita senza una spiegazione medica e logica...
Inizia pertanto la vita del "nuovo" Makoto, il quale, a poco a poco, frequenta le persone e viene a conoscenza delle situazioni che avevano spinto il "vecchio" Makoto al suicidio. Questa fase del film, piuttosto lunga potrebbe risultare un po' "pesante" e noiosa, per la dilatazione dei tempi dei dialoghi e soprattutto dei lunghi e molto realistici silenzi tra i personaggi inframmezzati dalle espressioni di disappunto, dolore, meraviglia, stupore, comprensione, ecc dei personaggi. Questi silenzi e pause risultano essere più significative dei dialoghi stessi, rendono l'imbarazzo e l'angoscia che il film vuole trasmettere e mi hanno particolarmente colpito per la loro "durezza".
Paradigmatici sono i dialoghi (e i molti silenzi e sguardi che si scambiano) tra Makoto e sua madre: nel film la descrizione del rapporto tra loro è uno dei temi più complessi e difficili, tanto da renderlo il più "doloroso" del film.
Makoto non perdona alla madre il tradimento che aveva scoperto prima di suicidarsi e il suo modo di cercare di superare l'imbarazzo di quanto successo (il tradimento stesso e il suicidio messo in atto dal figlio con i medicinali che lei stava assumendo per superare una forma di depressione), comportandosi come se non fosse successo nulla. La scena della cena tra loro due soli a tavola è "agghiacciante": il ragazzo immagina le mani di sua madre, le stesse che hanno preparato la cena e le prelibatezze che stava assaporando, sono le stesse che hanno toccato l'amante ... e afferma che "mangiare con lei gli fa venire il vomito".
Fa male vedere come non accettare gli errori commessi dalle persone cui vogliamo bene e non perdonarli nonostante gli sforzi messi in atto sia umiliante e doloroso per chi subisce il disprezzo e l'indifferenza...
Ma il film "accarezza" in modo diretto, ma anche poetico e metaforico altri temi "spinosi" della società giapponese che inducono i "meno forti" a cedere al suicidio: bullismo a scuola e fuori, violenza più o meno gratuita, mancanza a livello individuale di ideali e principi sani (emblematico il caso della ragazza che si prostituisce per avere cose che altrimenti non potrebbe permettersi), i "problemi" familiari che non possono essere affrontati e discussi per l'ipocrisia radicata sia a livello sociale sia familiare (padre che non fa carriera ed è sempre assente a causa del lavoro; madre perennemente sola che cerca di sentirsi viva cercando aliunde la propria felicità; fratello che "maltratta" il più piccolo per gelosia), società che impone un'unica Weltanschauung, ossia la visione della vita individuale come ingranaggio di un sistema collettivo complesso fin dalle scuole, competitività portata all'estremo già dalla stessa scuola (divertenti sono le scenette in cui Makoto e l'amico Saotome ironizzano sulla loro posizione in classifica di classe per la loro media voti)... Che cosa resta dell'ingenuità e della fanciullezza? Che cosa resta del voler seguire le proprie aspirazioni ed inclinazioni?
Ed ecco probabilmente la spiegazione della reazione di Makoto a tutto quanto appena delineato come adolescente già segnato nel profondo, aggravato dall'essere già introverso: chiudersi in sé stessi, rifiutando il contatto con gli altri, ferendo le persone per allontanarle a scopo preventivo per non rischiare di essere a sua volta ferito. Ma al contempo Makoto è consapevole che la sua rinascita è subordinata ad una nuova scadenza oltre la quale morirà se il programma di "recupero" non avrà un esito positivo; e così sembra che Makoto cerchi di reagire a tutte le questioni irrisolte della sua vita "precedente": un redde rationem nel quale senza alcun freno inibitorio nel quale sembra dare sfoggio del "peggio" di se stesso in sfregio a coloro che gli hanno concesso una seconda occasione di essere una persona migliore agli occhi degli altri.
Eppure, in questo percorso di rabbia e malinconia, con un senso di vuoto, dispiacere, e sensi di colpa, Makoto inizia a "svoltare" in un percorso di crescita che si conclude con uno spiazzante plot twist finale nel quale Makoto sembra iniziare a comprendere il valore dell'esistenza, delle sfaccettature ("colori") delle persone che lo circondano, della diversità e inclusione anche attraverso il perdono dei loro errori e difetti.
Lo stile tecnico di "Colorful" non mi ha fatto impazzire: i disegni dei personaggi sono poco accurati e, a sensazione ,piatti. Tale limite è accentuato dai frequenti primi piani dove anche le espressioni facciali che dovrebbero trasmettere le emozioni dei personaggi sono piuttosto piatte.
Di contro, il world building sembra essere più accurato anche se spesso caratterizzato da colori un po' spenti che sembrano voler trasmettere il senso di vuoto, malinconia e tristezza della storia e dei suoi personaggi.
Film di cui consiglio la visione per una riflessione ad ampio respiro sul dramma della incapacità di comunicare e di rapportarsi in modo completo con le persone cui teniamo maggiormente e sulla capacità di tollerare, perdonare e superare gli errori commessi.
Cosa c'è dopo la morte?
È una domanda che prima o poi ci facciamo tutti. È insita nell'uomo. Così come sono profondamente radicate in noi domande sul peccato, il perdono e la redenzione.
Se in vita ho agito male, che ne sarà di me "dopo"? Avrò qualche possibilità di redimermi o per me ci sarà solo la condanna eterna?
Questo lungometraggio animato della durata di circa due ore, e ispirato all'omonimo romanzo di Eto Mori, ci mostra una delle possibili risposte.
Trovo che il film si apra in modo molto curioso, catturando fin da subito l'attenzione di chi guarda: nessuna voce, nessun volto o corpo, ad indicarci che chi è arrivato nel cosiddetto "Aldilà", sia un'anima persa, in cerca della sua identità e risposte.
Solo alcune frasi scritte su fondo nero, come a rappresentare (a meraviglia) la perdizione e l'assenza totale dell 'Io di questa entità, ci comunicano una parvenza della sua presenza e consistenza.
Purapura a fare gli onori di casa. Quest'ultimo, in veste di guida spirituale (in realtà sulla sua vera natura aleggerà sempre un velo di mistero), spiegherà a quest'anima senza memoria, di aver vinto la "Grande Lotteria Celeste": potrà tornare a reincarnarsi nel corpo di un giovane, appena suicidatosi, il quattordicenne Makoto. E, una volta adattatosi a questa nuova vita, dovrà scoprire i motivi del suo suicidio. In cambio, come premio, potrà recuperare i propri ricordi e i peccati commessi.
E così, senza tanti altri preamboli, l'anima perduta precipita, letteralmente, in questo giovane corpo, suscitando grande sorpresa, gioia e commozione nei famigliari che lo credevano ormai spacciato.
Ecco che inizia la nuova vita di Makoto, con una nuova anima, o, se vogliamo vederla da un punto di vista opposto... Ecco che inizia la nuova vita di quest'anima, in un corpo nuovo.
Un film lungo, lento, ma scorrevole. Ricco di personaggi, tutti ben caratterizzati, e altrettanto ricco di scene di vita quotidiana che danno quel sapore di normalità e famigliarità.
Tuttavia, mentre scorre il film, ci si accorge che niente e nessuno è "normale". Ognuno dei personaggi, compreso il protagonista stesso , e pure Purapura (scusate il gioco di parole, ma non ho resistito!), hanno i loro scheletri nell'armadio, i loro demoni da sconfiggere, o compromessi scomodi a cui scendere. Difficile, dunque, non empatizzare e immedesimarsi in uno qualsiasi di loro.
Una madre piena di sensi di colpa, un padre apparentemente passivo, un figlio ribelle, un fratello serio e scontroso, una compagna di classe bella e frivola o quella brutta e secchiona, e un amico sincero. Questa la rosa di personaggi nella quale ognuno di noi può attingere qualcosa. Credo, infatti, non ci si sia un unico personaggio a colpire qualcosa che sta dentro il nostro intimo più profondo. Io, personalmente, mi son sentita la madre, il figlio, il padre... e pure Purapura.
La bellezza di questo film, è il mostrare uno spaccato di una realtà scomoda. E la realtà "è" scomoda. La vita reale, per nessuno di noi, scorre tutta rose e fiori... solo nei film succede! Ma in questo no. Questo ti sputa in faccia le cose così come stanno, come potrebbero essere per una famiglia "normale", per un adolescente "normale".
E quindi? Essere "strani" è normale, ce lo dicono i protagonisti stessi. La "stranezza", "l'anormalità" è.... normale.
È un film che suscita mille sfumature di emozioni, come i colori. Una tavolozza colorata di tristezza, malinconia, tenerezza, rabbia, rimpianti e rimorsi. Ma vi troviamo anche calde pennellate di amore e di speranza.
Le persone hanno molti colori ("colorful" appunto), ma nessuno sa bene quali siano i propri, quelli più spiccati, quelli dominanti. Spesso ci fa paura saperlo. Non impegnarci in questa ricerca ci renderebbe esseri "assenti", "non vivi". La vita stessa, invece, questo nostro percorso personale, ci dà la possibilità di scoprirlo, ma soprattutto, l'occasione per accettare questi colori, di qualunque sfumatura esse siano, anche quelle che non ci piacciono, quelle più scomode. Ma starà a noi trovare il modo per riuscirci.
Come diamanti dalle mille sfaccettature colorate, veniamo gettati al mondo e impolverati da questa terra, con lo scopo di lucidare pazientemente più facce possibili. Farle brillare, e accettarne il colore che vi troviamo, è una grande vittoria che ci farà sentire vivi.
E tu, ti senti vivo?
Guardate questo film, e chiedetevelo.
È una domanda che prima o poi ci facciamo tutti. È insita nell'uomo. Così come sono profondamente radicate in noi domande sul peccato, il perdono e la redenzione.
Se in vita ho agito male, che ne sarà di me "dopo"? Avrò qualche possibilità di redimermi o per me ci sarà solo la condanna eterna?
Questo lungometraggio animato della durata di circa due ore, e ispirato all'omonimo romanzo di Eto Mori, ci mostra una delle possibili risposte.
Trovo che il film si apra in modo molto curioso, catturando fin da subito l'attenzione di chi guarda: nessuna voce, nessun volto o corpo, ad indicarci che chi è arrivato nel cosiddetto "Aldilà", sia un'anima persa, in cerca della sua identità e risposte.
Solo alcune frasi scritte su fondo nero, come a rappresentare (a meraviglia) la perdizione e l'assenza totale dell 'Io di questa entità, ci comunicano una parvenza della sua presenza e consistenza.
Purapura a fare gli onori di casa. Quest'ultimo, in veste di guida spirituale (in realtà sulla sua vera natura aleggerà sempre un velo di mistero), spiegherà a quest'anima senza memoria, di aver vinto la "Grande Lotteria Celeste": potrà tornare a reincarnarsi nel corpo di un giovane, appena suicidatosi, il quattordicenne Makoto. E, una volta adattatosi a questa nuova vita, dovrà scoprire i motivi del suo suicidio. In cambio, come premio, potrà recuperare i propri ricordi e i peccati commessi.
E così, senza tanti altri preamboli, l'anima perduta precipita, letteralmente, in questo giovane corpo, suscitando grande sorpresa, gioia e commozione nei famigliari che lo credevano ormai spacciato.
Ecco che inizia la nuova vita di Makoto, con una nuova anima, o, se vogliamo vederla da un punto di vista opposto... Ecco che inizia la nuova vita di quest'anima, in un corpo nuovo.
Un film lungo, lento, ma scorrevole. Ricco di personaggi, tutti ben caratterizzati, e altrettanto ricco di scene di vita quotidiana che danno quel sapore di normalità e famigliarità.
Tuttavia, mentre scorre il film, ci si accorge che niente e nessuno è "normale". Ognuno dei personaggi, compreso il protagonista stesso , e pure Purapura (scusate il gioco di parole, ma non ho resistito!), hanno i loro scheletri nell'armadio, i loro demoni da sconfiggere, o compromessi scomodi a cui scendere. Difficile, dunque, non empatizzare e immedesimarsi in uno qualsiasi di loro.
Una madre piena di sensi di colpa, un padre apparentemente passivo, un figlio ribelle, un fratello serio e scontroso, una compagna di classe bella e frivola o quella brutta e secchiona, e un amico sincero. Questa la rosa di personaggi nella quale ognuno di noi può attingere qualcosa. Credo, infatti, non ci si sia un unico personaggio a colpire qualcosa che sta dentro il nostro intimo più profondo. Io, personalmente, mi son sentita la madre, il figlio, il padre... e pure Purapura.
La bellezza di questo film, è il mostrare uno spaccato di una realtà scomoda. E la realtà "è" scomoda. La vita reale, per nessuno di noi, scorre tutta rose e fiori... solo nei film succede! Ma in questo no. Questo ti sputa in faccia le cose così come stanno, come potrebbero essere per una famiglia "normale", per un adolescente "normale".
E quindi? Essere "strani" è normale, ce lo dicono i protagonisti stessi. La "stranezza", "l'anormalità" è.... normale.
È un film che suscita mille sfumature di emozioni, come i colori. Una tavolozza colorata di tristezza, malinconia, tenerezza, rabbia, rimpianti e rimorsi. Ma vi troviamo anche calde pennellate di amore e di speranza.
Le persone hanno molti colori ("colorful" appunto), ma nessuno sa bene quali siano i propri, quelli più spiccati, quelli dominanti. Spesso ci fa paura saperlo. Non impegnarci in questa ricerca ci renderebbe esseri "assenti", "non vivi". La vita stessa, invece, questo nostro percorso personale, ci dà la possibilità di scoprirlo, ma soprattutto, l'occasione per accettare questi colori, di qualunque sfumatura esse siano, anche quelle che non ci piacciono, quelle più scomode. Ma starà a noi trovare il modo per riuscirci.
Come diamanti dalle mille sfaccettature colorate, veniamo gettati al mondo e impolverati da questa terra, con lo scopo di lucidare pazientemente più facce possibili. Farle brillare, e accettarne il colore che vi troviamo, è una grande vittoria che ci farà sentire vivi.
E tu, ti senti vivo?
Guardate questo film, e chiedetevelo.
«Colorful» è un film del 2010 che non ha nulla a che vedere con l’omonima serie andata in onda sulle reti giapponesi alla fine degli anni ‘90. Il film, ispirato ad un romanzo di Eto Mori, ha avuto un riscontro molto positivo da parte del pubblico e considerando quanto l’ho apprezzato, sono rimasta stupita del fatto che la regia e la sceneggiatura siano stati affidati alle stesse persone che si sono recentemente occupate della realizzazione di «The Wonderland», un anime che sembra aver deluso le aspettative di molti. «Colorful», al contrario, è un opera che ho adorato e per questo non riesco ad immaginare come gli stessi autori possano aver prodotto qualcosa di deludente.
La storia si apre in una stanza silenziosa occupata da diverse file di anime che hanno appena lasciato i loro corpi. Ad uno di questi individui, però, viene data una seconda possibilità, consentendogli di reincarnarsi nel corpo di un bambino che ha recentemente perso la vita a causa di un tentato suicidio. L’obiettivo è quello di permettere all'anima di ricominciare una nuova vita, ma per averne il diritto dovrà prima comprendere le ragioni dietro al suicidio del ragazzo.
Il film ha una durata complessiva superiore alle due ore, ma nonostante questo non risulta noioso. Anche nei momenti più tranquilli, risulta sempre molto interessante e talvolta anche doloroso a causa degli argomenti trattati, primo fra tutti il suicidio. Avendo come protagonista un adolescente, i temi trattati riguardano principalmente il bullismo, i difficili rapporti familiari e la prostituzione minorile. Si tratta di argomenti molto importanti e difficili da trattare in un'unica opera, tuttavia, il risultato è stato ottimo. Tra questi, ciò che mi è rimasto più impresso è sicuramente il rapporto che il protagonista ha avuto con i genitori della vittima, in quanto, sapendo di non essere il loro vero figlio ed essendo in un’età un po’ ribelle, ha manifestato il suo carattere arrogante senza alcun freno, ignorando completamente i sentimenti altrui. Comportamenti così estremi magari non sono così frequenti (questo però non significa che non esistano), tuttavia, è doloroso vedere come gli sforzi dei genitori vengano completamente ignorati o trattati in modo sgarbato da parte dei figli viziati. Lo stesso atteggiamento riservato ai genitori, può avvenire anche nei confronti di persone esterne, sfociando nel bullismo giustificato dalla classica frase “stavamo solo scherzando”. Fortunatamente, però, per ogni persona aggressiva ne esistono anche molte altre di pazienti, la cui presenza può aiutare a riflettere e ciò può aiutare ad accettare i propri errori e quelli degli altri, senza ricorrere all'atto estremo e irreparabile. Il tema della depressione e del suicidio è stato trattato anche in alcune opere più recenti, tuttavia, tra le opere che ho visionato solo «Colorful» è riuscito a raggiungere un risultato così soddisfacente.
Come ci sia aspetta da un anime destinato alla visione cinematografica, ovviamente ci troviamo di fronte ad un film ben animato e interessante per via di alcune scelte tecniche, come per esempio quella di sfruttare alcune fotografie reali per trasformarle in dei fondali opportunamente adattati. Al di là dell’aspetto visivo, però, ho molto gradito le voci dei due protagonisti, entrambi doppiati da due bambini, il che è piuttosto raro se consideriamo che di solito le voci infantili vengono affidate a donne adulte che si sforzano di assottigliare la propria voce. Inutile dire che questa scelta ha migliorato notevolmente la resa dei dialoghi rendendo i protagonisti molto più spontanei e realistici, specialmente Purapura. Lui è sicuramente il personaggio che ho apprezzato di più. Il suo carattere è sicuramente un po’ infantile, ma è anche altrettanto simpatico e saggio, un po’ come un angelo custode.
L’ultima menzione d’onore va alle musiche, di cui ho molto apprezzato quelle tristi e riflessive basate sul suono del pianoforte.
Si tratta sicuramente di un film molto lento, ma allo stesso tempo molto interessante e riflessivo, che non può non lasciare un’impronta indelebile nel cuore dello spettatore. Alla luce di ciò, non posso fare a meno di consigliarlo a chiunque voglia vedere un film veramente interessante.
La storia si apre in una stanza silenziosa occupata da diverse file di anime che hanno appena lasciato i loro corpi. Ad uno di questi individui, però, viene data una seconda possibilità, consentendogli di reincarnarsi nel corpo di un bambino che ha recentemente perso la vita a causa di un tentato suicidio. L’obiettivo è quello di permettere all'anima di ricominciare una nuova vita, ma per averne il diritto dovrà prima comprendere le ragioni dietro al suicidio del ragazzo.
Il film ha una durata complessiva superiore alle due ore, ma nonostante questo non risulta noioso. Anche nei momenti più tranquilli, risulta sempre molto interessante e talvolta anche doloroso a causa degli argomenti trattati, primo fra tutti il suicidio. Avendo come protagonista un adolescente, i temi trattati riguardano principalmente il bullismo, i difficili rapporti familiari e la prostituzione minorile. Si tratta di argomenti molto importanti e difficili da trattare in un'unica opera, tuttavia, il risultato è stato ottimo. Tra questi, ciò che mi è rimasto più impresso è sicuramente il rapporto che il protagonista ha avuto con i genitori della vittima, in quanto, sapendo di non essere il loro vero figlio ed essendo in un’età un po’ ribelle, ha manifestato il suo carattere arrogante senza alcun freno, ignorando completamente i sentimenti altrui. Comportamenti così estremi magari non sono così frequenti (questo però non significa che non esistano), tuttavia, è doloroso vedere come gli sforzi dei genitori vengano completamente ignorati o trattati in modo sgarbato da parte dei figli viziati. Lo stesso atteggiamento riservato ai genitori, può avvenire anche nei confronti di persone esterne, sfociando nel bullismo giustificato dalla classica frase “stavamo solo scherzando”. Fortunatamente, però, per ogni persona aggressiva ne esistono anche molte altre di pazienti, la cui presenza può aiutare a riflettere e ciò può aiutare ad accettare i propri errori e quelli degli altri, senza ricorrere all'atto estremo e irreparabile. Il tema della depressione e del suicidio è stato trattato anche in alcune opere più recenti, tuttavia, tra le opere che ho visionato solo «Colorful» è riuscito a raggiungere un risultato così soddisfacente.
Come ci sia aspetta da un anime destinato alla visione cinematografica, ovviamente ci troviamo di fronte ad un film ben animato e interessante per via di alcune scelte tecniche, come per esempio quella di sfruttare alcune fotografie reali per trasformarle in dei fondali opportunamente adattati. Al di là dell’aspetto visivo, però, ho molto gradito le voci dei due protagonisti, entrambi doppiati da due bambini, il che è piuttosto raro se consideriamo che di solito le voci infantili vengono affidate a donne adulte che si sforzano di assottigliare la propria voce. Inutile dire che questa scelta ha migliorato notevolmente la resa dei dialoghi rendendo i protagonisti molto più spontanei e realistici, specialmente Purapura. Lui è sicuramente il personaggio che ho apprezzato di più. Il suo carattere è sicuramente un po’ infantile, ma è anche altrettanto simpatico e saggio, un po’ come un angelo custode.
L’ultima menzione d’onore va alle musiche, di cui ho molto apprezzato quelle tristi e riflessive basate sul suono del pianoforte.
Si tratta sicuramente di un film molto lento, ma allo stesso tempo molto interessante e riflessivo, che non può non lasciare un’impronta indelebile nel cuore dello spettatore. Alla luce di ciò, non posso fare a meno di consigliarlo a chiunque voglia vedere un film veramente interessante.
Se ripenso ai retroscena personali che hanno portato alla creazione di questa recensione non posso che sorridere guardando ai contenuti di «Colorful» e alla loro profondità. Eppure, nel meraviglioso mondo dell’animazione giapponese, può capitare che dai colori nero e marrone feticisticamente esaltati si possa passare alle infinite variazioni di tonalità che la vita ci riserva e che «Colorful» così intensamente ci insegna.
Il primo impatto cromatico che ci presenta il film però è un ibrido quanto profetico grigio; in una smorta anticamera assimilabile a una specie di Purgatorio infatti abbiamo un’anima (che non vedremo mai in faccia né conosceremo di nome) che, mentre sta per avviarsi al ciclo di trasmigrazione che la porterà a reincarnarsi in un nuovo essere, viene fermata da un ragazzino. Quest’ultimo si presenta come Purapura e gli annuncia che a lui è stata garantita una seconda occasione: tornerà nel mondo dei vivi nei panni di un ragazzo delle scuole medie chiamato Makoto Kobayashi, morto da poco suicida, e lì dovrà ricordare quale grave colpa ha commesso in vita per ottenere in questo modo una nuova esistenza. L’anima peccatrice è riluttante all’idea ma, obbligato dal ‘Capo’ di Purapura, si ritroverà giocoforza nel corpo di un redivivo Makoto a vivere l’esperienza della vita di questo giovane sconosciuto, con tutti i piaceri ma, soprattutto, i tormenti che ciò comporta.
Già, perché la vita del giovane Makoto non ha certo gli aspetti di quello che potrebbe essere considerato un premio: timido e insicuro, Makoto è un ragazzo che non ha nessun amico, vive in una famiglia disfunzionale dove ogni membro sembra chiuso nel proprio egoismo e ha una vita scolastica contrassegnata da atti di bullismo e delusioni legate a una sua compagna verso la quale nutre un amore non corrisposto. Attraverso la vita di Makoto il film propone una forte denuncia della realtà odierna della società giapponese e dei problemi che possono sorgere in una famiglia apparentemente perfetta ma nella quale ogni componente vive un disagio richiudendosi in sé stesso. Ad acuire questa visione arrivano anche le reazioni di Makoto che si dimostra insofferente e incapace di comprendere le difficoltà dei suoi familiari così come gli sforzi che questi compiono nei suoi confronti quando si ritrova miracolosamente salvo dal suo tentativo di suicidio: non perdona al padre la sua mediocrità in ambito lavorativo, non perdona al fratello il disinteresse che sembra dimostrare nei suoi confronti e, soprattutto, non riesce a perdonare la madre per una scappatella con un altro uomo; emblematiche nel corso del film sono le tante e lunghe scene dei pasti consumati dalla famiglia, momenti in cui l’imbarazzo, il silenzio e la vergogna la fanno da padrone mostrando come l’incapacità di comunicare possa nascere e maturare anche tra persone teoricamente così vicine. L’intero film ha una visione estremamente realistica che non risparmia nessuna stortura della realtà quotidiana, dal teppismo alle ragazze minorenni che vendono il proprio corpo eppure, pur essendo apparentemente permeato da un forte disfattismo, riserva comunque spazio alla speranza e alla possibilità di cambiare con le giuste motivazioni in grado di scuotere il nostro animo. Può essere una forte litigata, una chiacchierata sincera o una nuova inattesa amicizia a smuoverci, ciò che importa è non abbandonarsi mai alla disperazione, messaggio trasmesso anche dal titolo del film che ci suggerisce come ogni essere umano non abbia un solo colore ma tanti diversi, che non bisogna rifuggire bensì conoscere e imparare ad accettare. La parte di film che esprime questi concetti è sicuramente quella che mi è piaciuta di più e che compensa certamente una parte iniziale molto lenta e piuttosto pesante da guardare, complice soprattutto l’insopportabile atteggiamento del protagonista devo dire, in un film che raggiunge complessivamente le due ore e che alla lunga sembrano farsi sentire fin quando un intuibile, ma riuscito, colpo di scena getta una nuova luce carica di positività sulla pellicola rendendo molto più appagante la sua visione. Alla buona riuscita del lungometraggio poi contribuisce anche una sapiente scrittura di tutti i suoi personaggi i quali, carichi di insospettabili debolezze e sorprendenti punti di forza, risultano non solo preziosi nella maturazione di Makoto ma anche nella trasmissione del pensiero del film data la loro natura multicolore e mai monocromatica.
Più difficile, ma non impossibile, è invece muovere delle critiche al lato tecnico del film che regge ed esalta il livello dei temi che vuole raccontare. Prodotto dagli studi Sunrise e Ascension, «Colorful» è un film del 2010 ispirato all’omonimo romanzo di Eto Mori e diretto da Keiichi Hara, qui alla sua prima, e riuscita, prova con un’opera dalle tematiche adulte che si distanziasse dalle sue esperienze precedenti legate soprattutto al brand di «Crayon Shin-chan». Il lavoro di Hara è indubbiamente efficace nel rappresentare i concetti del film col suo taglio realistico, i tanti silenzi e tempi morti che riempiono la scena e pure quei pochi frenetici momenti che spezzano questo precario equilibrio, ed è aiutato in questo dal character design di Atsushi Yamagata, un bel tratto pulito ed estremamente realista che si allontana dal tipico stile giapponese riuscendo a restituire fedelmente le espressioni dei personaggi, così come le loro emozioni. Le semplici ma funzionali animazioni e i tanti fondali composti soprattutto da scorci urbani, accompagnati anche da alcune foto che ritraggono riproduzioni reali di treni e mezzi di trasporto d’epoca, completano infine un’opera dove gli unici elementi che stonano sono alcuni inserti in CG, ed è un peccato che uno di questi sia praticamente la prima cosa che si vede nel film dando un’impressione iniziale tutt'altro che positiva. Discorso opposto da fare invece per la splendida colonna sonora di Kō Ōtani i cui brani struggenti e malinconici fanno da supporto ideale alle vicissitudini di Makoto e compagni impreziosendo ulteriormente i momenti più emozionanti del film. Nota dolente della produzione del film invece mi è sembrato il doppiaggio giapponese della pellicola, strano da dire perché raramente negli anime ho incontrato casi in cui lamentarmi eccessivamente del doppiaggio originale, di solito sempre curato e adatto allo scopo, ma in questa occasione non posso dire lo stesso; quasi tutti i personaggi principali sono doppiati da attori adolescenti (alcuni esordienti e mai più riascoltati in altre opere) più o meno della stessa età dei personaggi nell’ulteriore sforzo, probabilmente, di ricreare un’atmosfera quanto più realistica possibile all’interno del film, ma le loro interpretazioni mi hanno convinto poco nel complesso sembrandomi spesso troppo forzate o incapaci di trasmettere le sensazioni che il momento che si prefiggeva.
Questo elemento negativo, e potenzialmente non oggettivo tutto sommato, non ha comunque inficiato la buona riuscita della pellicola sorretta da una sceneggiatura e una regia in grado di sopperire a queste ed altre eventuali piccole lacune. «Colorful» è un prodotto molto profondo e introspettivo, un film probabilmente ostico per riuscire a far breccia nel grande pubblico (lo dimostra anche il fatto che, nonostante scriva questa recensione a dieci anni dalla sua uscita, sia ancora inedito in Italia) ma che, anche per questo, è giusto sostenere e diffondere quando possibile data la potenza del suo messaggio, una preziosa ode alla vita in ogni suo aspetto da vedere e custodire nell’animo come merita.
Il primo impatto cromatico che ci presenta il film però è un ibrido quanto profetico grigio; in una smorta anticamera assimilabile a una specie di Purgatorio infatti abbiamo un’anima (che non vedremo mai in faccia né conosceremo di nome) che, mentre sta per avviarsi al ciclo di trasmigrazione che la porterà a reincarnarsi in un nuovo essere, viene fermata da un ragazzino. Quest’ultimo si presenta come Purapura e gli annuncia che a lui è stata garantita una seconda occasione: tornerà nel mondo dei vivi nei panni di un ragazzo delle scuole medie chiamato Makoto Kobayashi, morto da poco suicida, e lì dovrà ricordare quale grave colpa ha commesso in vita per ottenere in questo modo una nuova esistenza. L’anima peccatrice è riluttante all’idea ma, obbligato dal ‘Capo’ di Purapura, si ritroverà giocoforza nel corpo di un redivivo Makoto a vivere l’esperienza della vita di questo giovane sconosciuto, con tutti i piaceri ma, soprattutto, i tormenti che ciò comporta.
Già, perché la vita del giovane Makoto non ha certo gli aspetti di quello che potrebbe essere considerato un premio: timido e insicuro, Makoto è un ragazzo che non ha nessun amico, vive in una famiglia disfunzionale dove ogni membro sembra chiuso nel proprio egoismo e ha una vita scolastica contrassegnata da atti di bullismo e delusioni legate a una sua compagna verso la quale nutre un amore non corrisposto. Attraverso la vita di Makoto il film propone una forte denuncia della realtà odierna della società giapponese e dei problemi che possono sorgere in una famiglia apparentemente perfetta ma nella quale ogni componente vive un disagio richiudendosi in sé stesso. Ad acuire questa visione arrivano anche le reazioni di Makoto che si dimostra insofferente e incapace di comprendere le difficoltà dei suoi familiari così come gli sforzi che questi compiono nei suoi confronti quando si ritrova miracolosamente salvo dal suo tentativo di suicidio: non perdona al padre la sua mediocrità in ambito lavorativo, non perdona al fratello il disinteresse che sembra dimostrare nei suoi confronti e, soprattutto, non riesce a perdonare la madre per una scappatella con un altro uomo; emblematiche nel corso del film sono le tante e lunghe scene dei pasti consumati dalla famiglia, momenti in cui l’imbarazzo, il silenzio e la vergogna la fanno da padrone mostrando come l’incapacità di comunicare possa nascere e maturare anche tra persone teoricamente così vicine. L’intero film ha una visione estremamente realistica che non risparmia nessuna stortura della realtà quotidiana, dal teppismo alle ragazze minorenni che vendono il proprio corpo eppure, pur essendo apparentemente permeato da un forte disfattismo, riserva comunque spazio alla speranza e alla possibilità di cambiare con le giuste motivazioni in grado di scuotere il nostro animo. Può essere una forte litigata, una chiacchierata sincera o una nuova inattesa amicizia a smuoverci, ciò che importa è non abbandonarsi mai alla disperazione, messaggio trasmesso anche dal titolo del film che ci suggerisce come ogni essere umano non abbia un solo colore ma tanti diversi, che non bisogna rifuggire bensì conoscere e imparare ad accettare. La parte di film che esprime questi concetti è sicuramente quella che mi è piaciuta di più e che compensa certamente una parte iniziale molto lenta e piuttosto pesante da guardare, complice soprattutto l’insopportabile atteggiamento del protagonista devo dire, in un film che raggiunge complessivamente le due ore e che alla lunga sembrano farsi sentire fin quando un intuibile, ma riuscito, colpo di scena getta una nuova luce carica di positività sulla pellicola rendendo molto più appagante la sua visione. Alla buona riuscita del lungometraggio poi contribuisce anche una sapiente scrittura di tutti i suoi personaggi i quali, carichi di insospettabili debolezze e sorprendenti punti di forza, risultano non solo preziosi nella maturazione di Makoto ma anche nella trasmissione del pensiero del film data la loro natura multicolore e mai monocromatica.
Più difficile, ma non impossibile, è invece muovere delle critiche al lato tecnico del film che regge ed esalta il livello dei temi che vuole raccontare. Prodotto dagli studi Sunrise e Ascension, «Colorful» è un film del 2010 ispirato all’omonimo romanzo di Eto Mori e diretto da Keiichi Hara, qui alla sua prima, e riuscita, prova con un’opera dalle tematiche adulte che si distanziasse dalle sue esperienze precedenti legate soprattutto al brand di «Crayon Shin-chan». Il lavoro di Hara è indubbiamente efficace nel rappresentare i concetti del film col suo taglio realistico, i tanti silenzi e tempi morti che riempiono la scena e pure quei pochi frenetici momenti che spezzano questo precario equilibrio, ed è aiutato in questo dal character design di Atsushi Yamagata, un bel tratto pulito ed estremamente realista che si allontana dal tipico stile giapponese riuscendo a restituire fedelmente le espressioni dei personaggi, così come le loro emozioni. Le semplici ma funzionali animazioni e i tanti fondali composti soprattutto da scorci urbani, accompagnati anche da alcune foto che ritraggono riproduzioni reali di treni e mezzi di trasporto d’epoca, completano infine un’opera dove gli unici elementi che stonano sono alcuni inserti in CG, ed è un peccato che uno di questi sia praticamente la prima cosa che si vede nel film dando un’impressione iniziale tutt'altro che positiva. Discorso opposto da fare invece per la splendida colonna sonora di Kō Ōtani i cui brani struggenti e malinconici fanno da supporto ideale alle vicissitudini di Makoto e compagni impreziosendo ulteriormente i momenti più emozionanti del film. Nota dolente della produzione del film invece mi è sembrato il doppiaggio giapponese della pellicola, strano da dire perché raramente negli anime ho incontrato casi in cui lamentarmi eccessivamente del doppiaggio originale, di solito sempre curato e adatto allo scopo, ma in questa occasione non posso dire lo stesso; quasi tutti i personaggi principali sono doppiati da attori adolescenti (alcuni esordienti e mai più riascoltati in altre opere) più o meno della stessa età dei personaggi nell’ulteriore sforzo, probabilmente, di ricreare un’atmosfera quanto più realistica possibile all’interno del film, ma le loro interpretazioni mi hanno convinto poco nel complesso sembrandomi spesso troppo forzate o incapaci di trasmettere le sensazioni che il momento che si prefiggeva.
Questo elemento negativo, e potenzialmente non oggettivo tutto sommato, non ha comunque inficiato la buona riuscita della pellicola sorretta da una sceneggiatura e una regia in grado di sopperire a queste ed altre eventuali piccole lacune. «Colorful» è un prodotto molto profondo e introspettivo, un film probabilmente ostico per riuscire a far breccia nel grande pubblico (lo dimostra anche il fatto che, nonostante scriva questa recensione a dieci anni dalla sua uscita, sia ancora inedito in Italia) ma che, anche per questo, è giusto sostenere e diffondere quando possibile data la potenza del suo messaggio, una preziosa ode alla vita in ogni suo aspetto da vedere e custodire nell’animo come merita.
“Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano.
Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l'unico che sorride
e ognuno intorno a te piange.”
- Paulo Coelho
Antefatto: non so quando io l’abbia realizzato - non potrei ricordarmi l’esatto momento, o periodo - ma oggi so con certezza che la vita è piena di colore. Anche quando piove.
Anche quando ti sembra tutto grigio.
Ma non un singolo colore, bensì un intero spettro cromatico, metafora incerta e caotica dell’animo umano. Luci e ombre, bianco e nero, e in mezzo tutti i colori che ci è permesso percepire, uno per ogni emozione, sentimento, pensiero, attitudine, sussulto ed esperienza acquisita.
Con un inizio fra l’astratto ed il surreale, questo lungometraggio ci inserisce lentamente, gentilmente, in una vicenda sovrannaturale che ha il gusto del quotidiano, piena di piccoli momenti dolci e amari, aspri e ruvidi, com'è la vita di tutti noi.
Tecnicamente eccellente, nei primissimi minuti ci propone un pizzico di computer grafica che in tutta onestà fa storcere il naso, per poi venire amalgamata nel vasto bacino d’un ritratto artistico veramente pregevole; le animazioni sono più che sufficienti, i personaggi principali studiati nei minimi dettagli, ma sono i fondali (numerosissimi, uno più bello dell’altro!) a strabiliare per una cura maniacale, particolareggiati all'inverosimile, luoghi reali scelti da una pletora di fotografie e adattati come variegate cornici a questa accorata vicenda.
Ed eccoci: tutto comincia con toni cupi e oscuri, delle eco prolungate in gargantuesche, indefinite sale d’attesa che ci suggeriscono l’idea della reincarnazione come legge universale, tanto incomprensibile a noi piccoli umani, quanto ineluttabile nella sua ipotetica, spaventosa solennità.
“L’inferno è vuoto, e tutti i diavoli sono qui”: lo sconfortante, rassegnato concetto Shakesperiano che tenta di far passare la vita di tutti i giorni come quella punizione che per qualche ingiusto motivo abbiamo già ricevuto, è probabilmente uno dei ragionamenti da comprendere appieno per riuscire ad osservare la vicenda dal punto di vista del protagonista, e successivamente assimilarne l’evoluzione.
Effimera viaggiatrice in un aldilà fin troppo fisico, l’anima di un ragazzo sconosciuto, guidata dall’indefinita e simpatica entità di nome “PuraPura”, si troverà così reincarnata in un ragazzino delle scuole medie di nome Makoto, che – per completare l’inquietante quadro introduttivo - era stato capace di suicidarsi proprio qualche ora prima. Invece di vederlo spirare, la famiglia di Makoto assiste al suo incredibile risveglio, inconsapevole che all’interno dell’involucro fisico giace ora l’anima del nostro misterioso protagonista di cui non si sa né passato né nome, poiché egli stesso non ricorda niente della sua vita precedente. PuraPura è stato molto chiaro: si tratta dell’unica chance per poter recuperare le memorie, a patto che la sua condotta segua un giusto sentiero di redenzione, in un processo di “rivisitazione” dell’esistenza stessa.
Ma chi giace esattamente dentro il corpo di Makoto, ora? Che terribili atti deve avere mai compiuto nella vita precedente?
E perché gli è stata concessa una seconda possibilità?
Domande che rimangono irrisolte per gran parte della visione, prima di trovare una risposta. I colori di questo racconto dipingono quindi un purgatorio differente da quello che ci potremmo immaginare: non esiste allegoria, ma realtà e solo e soltanto la vita terrena per comprendere appieno i propri errori, e, provare financo a migliorarsi. L’intento finale sarà quello di saggiare la moralità del soggetto, ponendolo di fronte a quegli errori che, si suppone, abbiano corrotto la sua integrità, in un processo di riscoperta sia nei confronti delle proprie memorie che man mano verranno a galla, sia nei panni di un involucro che non conosce minimamente.
Così, l’anima espiante comincia a fingere di essere Makoto, giovanissimo suicida senza successo, incontrando numerose difficoltà nel cercare di trascorrere la sua quotidianità come fosse propria, ritrovandosi in situazioni quasi grottesche, talvolta comiche, tanto da strappare qualche sorriso (astuta mossa da parte degli sceneggiatori, capaci di amalgamare questi piccoli camei ad una diffusa malinconia, una crescente drammaticità ed un amaro retrogusto di dolore pungente che pervadono inesorabilmente l’intera vicenda, senza mai scivolare troppo né dall’una, né dall’altra parte).
È un lungometraggio molto serio. Molto maturo.
Ma anche molto lungo, forse pesante per chi non apprezza un genere così introspettivo ed è in cerca di qualcosa di leggero o frivolo.
Il focus è chiaro a livelli di lettura più superficiali, ma, fra le righe, si possono decifrare altri intenti: la coscienza di ogni essere umano è inevitabilmente collegata alla propria sfera emotiva, forgiata dalle esperienze da cui deriva quasi tutta la nostra psicologia – sia quella che affiora dalle nostre azioni o parole, sia quella sommersa ed apparentemente invisibile, ma che opera indisturbata nei recessi del nostro inconscio. Possiamo illuderci di ignorarla, sotterrarla, voltarle le spalle tramite azioni che crediamo non possano successivamente raggiungerci come un boomerang, ma essa è sia il nostro scrigno dei segreti che il nostro vaso di Pandora; permane, non appare, cova e giace, il concentrato delle nostre azioni e reazioni, la somma di ciò che abbiamo appreso, di ciò che abbiamo fatto e, soprattutto, di ciò che ci hanno fatto. E se nonostante tutto questo complicato concetto che si trova alla base del film in questione non appare palese, ha una valenza fondamentale ed è la chiave di risoluzione finale.
La cura dei dettagli contribuisce ad aumentare un’atmosfera che muta e progredisce attraverso eventi quotidiani di una semplicità banale ma incisiva, elementi che probabilmente nelle nostre vite abbiamo vissuto in prima persona o di cui siamo stati testimoni: momenti domestici, scolastici, familiari o relazioni interpersonali di sorta. Grazie ad inquadrature non necessariamente dinamiche, solidamente statiche, molto concentrate sui protagonisti e che focalizzano prima i sentimenti che la fisicità, ci viene offerto uno spaccato di vita realistico quanto emozionante, uno sguardo sulle esistenze di persone comuni e per questo più che mai facili da comprendere e per cui provare sincera empatia. Tramite tali espedienti, ecco che, senza vergogna o remore, la regia punta il dito contro scelte etiche discutibili o episodi di bullismo: questi ultimi in maniera più decisa, dapprima in maniera trasversale, poi, verso la seconda metà del film in modo spietatamente diretto. Un problema sociale spesso trattato nell’animazione nipponica, un disagio sociale radicato in tutto il mondo che suscita in tantissime vittime grande dolore, profonda frustrazione, paure, ansie e rigetto per la società, e, di conseguenza, per l’umanità intera.
Il dovere di parlarne attraverso l’animazione non è un obbligo, ma saperne parlare in questo modo non è da tutti: la delicatezza e al tempo stesso la denunciante serietà con cui «Colorful» riesce a farlo, risulta uno dei punti di forza dell’intero film.
Il comparto sonoro brilla di luce propria, ma non si rivela molto vario, tuttavia fa il suo onesto dovere: per lo più minimale nella prima metà, lascia spazio a lunghi periodi di silenzio che permettono di concentrare l’attenzione sulle azioni dei protagonisti in modo ancor più marcato; si lascia spazio alle parole dette, ma ancor più alle parole non dette, appese ai pensieri trasparenti di sguardi che comunicano più di ogni altra cosa. La meravigliosa meticolosità con cui gli ambienti urbani e gli arredi interni sono riprodotti imbastiscono una cornice artistica davvero invidiabile, mentre poche note di pianoforte, ridondanti, sofferte e scandite con un’accuratezza introspettiva davvero rimarcabile, fanno da apripista ad uno sciame emotivo che decolla molto lentamente. Dopo un’apnea dai ritmi compassati, mentre ci si avvicina alla fine, le vibrazioni su questa tavolozza ricca di emozioni cromatiche si fanno sempre più pigmentate ed abbaglianti, e la musica cresce con esse, aumentando d’intensità ed intrecciandosi elegantemente alla trama.
Quando poi l’orchestra prende il sopravvento è un tuffo al cuore, e ogni valutazione filosofica di vita o morte, “misericordia et vindicta flagrant” si mescola in un riverberare di colori inarrestabile, ma inevitabilmente sofferto. Pian piano lo comprendiamo: la storia nel suo insieme non risulta poi così drammatica, ma ci comunica al di là di tutto, un messaggio positivo, di speranza, di coraggio esistenziale.
«Colorful» ci rammenta, se mai ce ne fosse bisogno, che la vita è piena di colore…
…e piena di dolore.
Ma il dolore è davvero qualcosa da rifuggire sempre e comunque?
Nell’arco della nostra esistenza commettiamo un’infinità di errori, per un motivo o per l’altro; errori che talvolta possono sembrare imperdonabili, troppo grandi, irrimediabili, o errori che non riteniamo nostri, bensì indotti da qualcun altro: l’unica certezza che abbiamo è che anche quando ci sembra di aver toccato il fondo, esiste sempre una possibilità di ritornare a galla, e che tali errori possono insegnarci più di qualsiasi altra esperienza positiva.
La nuda, spietata realtà è che non avremo altre possibilità. La vita è una sola, senza repliche, senza bis, senza remake, e se tentare significa rischiare di soffrire, allora così sia.
L’essere umano non è mai stato né sarà mai solo bianco e nero, bensì tutta la variabile cromatica che v’è nel mezzo, dal più luminoso e sfavillante dei colori, al più cupo e oscuro angolo di buio che ci fa tanto paura, annidato proprio nel nostro inconscio.
Perché può capitare che le nostre azioni e le nostre parole influiscano in modo determinante sulle persone che abbiamo vicino, e spesso il confine fra donare un sorriso far versare una lacrima è terribilmente incerto.
Ecco quindi la massima di questo stupefacente lungometraggio che ci rimane impressa nell’occhio della mente: non temete né indugiate nel dimostrare affetto a chi volete bene; cercate di risolvere i diverbi e non date troppa importanza a cose che non lo meritano, perché sì, questo accade tutti i giorni, e sì, può far parte del nostro carattere, ma… ogni cosa che i vostri sensi percepiscono un giorno sbiadirà inevitabilmente, e non avrete più possibilità di fare nient’altro, di vivere nient’altro, sperimentare nient’altro.
La vita, con tutti i suoi dubbi e dolori, è un viaggio troppo meraviglioso per intraprenderlo da soli.
Cercate la felicità anche a costo di ferirvi, perché ne varrà sempre la pena. E se vi feriranno di nuovo, o deluderete qualcuno a vostra volta, se dovrete ridimensionare un amico o piangere una notte intera, varrà sempre e comunque la pena di farlo.
“La vita è l’insegnante più crudele: prima ti fa l’esame, poi ti spiega la lezione”, suggerì il grande Oscar Wilde.
E ne abbiamo fra le mani solo una, ergo, diamole l'importanza che merita.
A «Colorful» va data un’opportunità a prescindere: si tratta di un potente lenitivo, un momento di positiva e profonda e positiva riflessione.
Buona vita – pardon – visione a tutti.
Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l'unico che sorride
e ognuno intorno a te piange.”
- Paulo Coelho
Antefatto: non so quando io l’abbia realizzato - non potrei ricordarmi l’esatto momento, o periodo - ma oggi so con certezza che la vita è piena di colore. Anche quando piove.
Anche quando ti sembra tutto grigio.
Ma non un singolo colore, bensì un intero spettro cromatico, metafora incerta e caotica dell’animo umano. Luci e ombre, bianco e nero, e in mezzo tutti i colori che ci è permesso percepire, uno per ogni emozione, sentimento, pensiero, attitudine, sussulto ed esperienza acquisita.
Con un inizio fra l’astratto ed il surreale, questo lungometraggio ci inserisce lentamente, gentilmente, in una vicenda sovrannaturale che ha il gusto del quotidiano, piena di piccoli momenti dolci e amari, aspri e ruvidi, com'è la vita di tutti noi.
Tecnicamente eccellente, nei primissimi minuti ci propone un pizzico di computer grafica che in tutta onestà fa storcere il naso, per poi venire amalgamata nel vasto bacino d’un ritratto artistico veramente pregevole; le animazioni sono più che sufficienti, i personaggi principali studiati nei minimi dettagli, ma sono i fondali (numerosissimi, uno più bello dell’altro!) a strabiliare per una cura maniacale, particolareggiati all'inverosimile, luoghi reali scelti da una pletora di fotografie e adattati come variegate cornici a questa accorata vicenda.
Ed eccoci: tutto comincia con toni cupi e oscuri, delle eco prolungate in gargantuesche, indefinite sale d’attesa che ci suggeriscono l’idea della reincarnazione come legge universale, tanto incomprensibile a noi piccoli umani, quanto ineluttabile nella sua ipotetica, spaventosa solennità.
“L’inferno è vuoto, e tutti i diavoli sono qui”: lo sconfortante, rassegnato concetto Shakesperiano che tenta di far passare la vita di tutti i giorni come quella punizione che per qualche ingiusto motivo abbiamo già ricevuto, è probabilmente uno dei ragionamenti da comprendere appieno per riuscire ad osservare la vicenda dal punto di vista del protagonista, e successivamente assimilarne l’evoluzione.
Effimera viaggiatrice in un aldilà fin troppo fisico, l’anima di un ragazzo sconosciuto, guidata dall’indefinita e simpatica entità di nome “PuraPura”, si troverà così reincarnata in un ragazzino delle scuole medie di nome Makoto, che – per completare l’inquietante quadro introduttivo - era stato capace di suicidarsi proprio qualche ora prima. Invece di vederlo spirare, la famiglia di Makoto assiste al suo incredibile risveglio, inconsapevole che all’interno dell’involucro fisico giace ora l’anima del nostro misterioso protagonista di cui non si sa né passato né nome, poiché egli stesso non ricorda niente della sua vita precedente. PuraPura è stato molto chiaro: si tratta dell’unica chance per poter recuperare le memorie, a patto che la sua condotta segua un giusto sentiero di redenzione, in un processo di “rivisitazione” dell’esistenza stessa.
Ma chi giace esattamente dentro il corpo di Makoto, ora? Che terribili atti deve avere mai compiuto nella vita precedente?
E perché gli è stata concessa una seconda possibilità?
Domande che rimangono irrisolte per gran parte della visione, prima di trovare una risposta. I colori di questo racconto dipingono quindi un purgatorio differente da quello che ci potremmo immaginare: non esiste allegoria, ma realtà e solo e soltanto la vita terrena per comprendere appieno i propri errori, e, provare financo a migliorarsi. L’intento finale sarà quello di saggiare la moralità del soggetto, ponendolo di fronte a quegli errori che, si suppone, abbiano corrotto la sua integrità, in un processo di riscoperta sia nei confronti delle proprie memorie che man mano verranno a galla, sia nei panni di un involucro che non conosce minimamente.
Così, l’anima espiante comincia a fingere di essere Makoto, giovanissimo suicida senza successo, incontrando numerose difficoltà nel cercare di trascorrere la sua quotidianità come fosse propria, ritrovandosi in situazioni quasi grottesche, talvolta comiche, tanto da strappare qualche sorriso (astuta mossa da parte degli sceneggiatori, capaci di amalgamare questi piccoli camei ad una diffusa malinconia, una crescente drammaticità ed un amaro retrogusto di dolore pungente che pervadono inesorabilmente l’intera vicenda, senza mai scivolare troppo né dall’una, né dall’altra parte).
È un lungometraggio molto serio. Molto maturo.
Ma anche molto lungo, forse pesante per chi non apprezza un genere così introspettivo ed è in cerca di qualcosa di leggero o frivolo.
Il focus è chiaro a livelli di lettura più superficiali, ma, fra le righe, si possono decifrare altri intenti: la coscienza di ogni essere umano è inevitabilmente collegata alla propria sfera emotiva, forgiata dalle esperienze da cui deriva quasi tutta la nostra psicologia – sia quella che affiora dalle nostre azioni o parole, sia quella sommersa ed apparentemente invisibile, ma che opera indisturbata nei recessi del nostro inconscio. Possiamo illuderci di ignorarla, sotterrarla, voltarle le spalle tramite azioni che crediamo non possano successivamente raggiungerci come un boomerang, ma essa è sia il nostro scrigno dei segreti che il nostro vaso di Pandora; permane, non appare, cova e giace, il concentrato delle nostre azioni e reazioni, la somma di ciò che abbiamo appreso, di ciò che abbiamo fatto e, soprattutto, di ciò che ci hanno fatto. E se nonostante tutto questo complicato concetto che si trova alla base del film in questione non appare palese, ha una valenza fondamentale ed è la chiave di risoluzione finale.
La cura dei dettagli contribuisce ad aumentare un’atmosfera che muta e progredisce attraverso eventi quotidiani di una semplicità banale ma incisiva, elementi che probabilmente nelle nostre vite abbiamo vissuto in prima persona o di cui siamo stati testimoni: momenti domestici, scolastici, familiari o relazioni interpersonali di sorta. Grazie ad inquadrature non necessariamente dinamiche, solidamente statiche, molto concentrate sui protagonisti e che focalizzano prima i sentimenti che la fisicità, ci viene offerto uno spaccato di vita realistico quanto emozionante, uno sguardo sulle esistenze di persone comuni e per questo più che mai facili da comprendere e per cui provare sincera empatia. Tramite tali espedienti, ecco che, senza vergogna o remore, la regia punta il dito contro scelte etiche discutibili o episodi di bullismo: questi ultimi in maniera più decisa, dapprima in maniera trasversale, poi, verso la seconda metà del film in modo spietatamente diretto. Un problema sociale spesso trattato nell’animazione nipponica, un disagio sociale radicato in tutto il mondo che suscita in tantissime vittime grande dolore, profonda frustrazione, paure, ansie e rigetto per la società, e, di conseguenza, per l’umanità intera.
Il dovere di parlarne attraverso l’animazione non è un obbligo, ma saperne parlare in questo modo non è da tutti: la delicatezza e al tempo stesso la denunciante serietà con cui «Colorful» riesce a farlo, risulta uno dei punti di forza dell’intero film.
Il comparto sonoro brilla di luce propria, ma non si rivela molto vario, tuttavia fa il suo onesto dovere: per lo più minimale nella prima metà, lascia spazio a lunghi periodi di silenzio che permettono di concentrare l’attenzione sulle azioni dei protagonisti in modo ancor più marcato; si lascia spazio alle parole dette, ma ancor più alle parole non dette, appese ai pensieri trasparenti di sguardi che comunicano più di ogni altra cosa. La meravigliosa meticolosità con cui gli ambienti urbani e gli arredi interni sono riprodotti imbastiscono una cornice artistica davvero invidiabile, mentre poche note di pianoforte, ridondanti, sofferte e scandite con un’accuratezza introspettiva davvero rimarcabile, fanno da apripista ad uno sciame emotivo che decolla molto lentamente. Dopo un’apnea dai ritmi compassati, mentre ci si avvicina alla fine, le vibrazioni su questa tavolozza ricca di emozioni cromatiche si fanno sempre più pigmentate ed abbaglianti, e la musica cresce con esse, aumentando d’intensità ed intrecciandosi elegantemente alla trama.
Quando poi l’orchestra prende il sopravvento è un tuffo al cuore, e ogni valutazione filosofica di vita o morte, “misericordia et vindicta flagrant” si mescola in un riverberare di colori inarrestabile, ma inevitabilmente sofferto. Pian piano lo comprendiamo: la storia nel suo insieme non risulta poi così drammatica, ma ci comunica al di là di tutto, un messaggio positivo, di speranza, di coraggio esistenziale.
«Colorful» ci rammenta, se mai ce ne fosse bisogno, che la vita è piena di colore…
…e piena di dolore.
Ma il dolore è davvero qualcosa da rifuggire sempre e comunque?
Nell’arco della nostra esistenza commettiamo un’infinità di errori, per un motivo o per l’altro; errori che talvolta possono sembrare imperdonabili, troppo grandi, irrimediabili, o errori che non riteniamo nostri, bensì indotti da qualcun altro: l’unica certezza che abbiamo è che anche quando ci sembra di aver toccato il fondo, esiste sempre una possibilità di ritornare a galla, e che tali errori possono insegnarci più di qualsiasi altra esperienza positiva.
La nuda, spietata realtà è che non avremo altre possibilità. La vita è una sola, senza repliche, senza bis, senza remake, e se tentare significa rischiare di soffrire, allora così sia.
L’essere umano non è mai stato né sarà mai solo bianco e nero, bensì tutta la variabile cromatica che v’è nel mezzo, dal più luminoso e sfavillante dei colori, al più cupo e oscuro angolo di buio che ci fa tanto paura, annidato proprio nel nostro inconscio.
Perché può capitare che le nostre azioni e le nostre parole influiscano in modo determinante sulle persone che abbiamo vicino, e spesso il confine fra donare un sorriso far versare una lacrima è terribilmente incerto.
Ecco quindi la massima di questo stupefacente lungometraggio che ci rimane impressa nell’occhio della mente: non temete né indugiate nel dimostrare affetto a chi volete bene; cercate di risolvere i diverbi e non date troppa importanza a cose che non lo meritano, perché sì, questo accade tutti i giorni, e sì, può far parte del nostro carattere, ma… ogni cosa che i vostri sensi percepiscono un giorno sbiadirà inevitabilmente, e non avrete più possibilità di fare nient’altro, di vivere nient’altro, sperimentare nient’altro.
La vita, con tutti i suoi dubbi e dolori, è un viaggio troppo meraviglioso per intraprenderlo da soli.
Cercate la felicità anche a costo di ferirvi, perché ne varrà sempre la pena. E se vi feriranno di nuovo, o deluderete qualcuno a vostra volta, se dovrete ridimensionare un amico o piangere una notte intera, varrà sempre e comunque la pena di farlo.
“La vita è l’insegnante più crudele: prima ti fa l’esame, poi ti spiega la lezione”, suggerì il grande Oscar Wilde.
E ne abbiamo fra le mani solo una, ergo, diamole l'importanza che merita.
A «Colorful» va data un’opportunità a prescindere: si tratta di un potente lenitivo, un momento di positiva e profonda e positiva riflessione.
Buona vita – pardon – visione a tutti.
- Recensione (almeno 500 caratteri): -
E' cosi che AnimeClick mi invita a spendere 5 minuti per recensire un film (non molto invitante come incitamento a dire il vero).
Ma hey... un momento....
Wikpedia mi insegna che recensione deriva dal latino, e significa esaminare, riflettere...
Ok l'etimologia è sistemata.
Ma c'è un altro punto da chiarire.
Insomma, queste recensioni, chi le legge? O meglio, chi è il pubblico (o se volete, il 'target')?
Bisogna sempre chiederselo. È una delle basi della scrittura.
Devo pensare che esso può essere composto da persone che magari il film non l'hanno visto, e che cercano di sapere se vale la pena vederlo. Se può piacergli. Se può dargli qualcosa, oppure no.
Ma il pubblico può anche essere qualcuno che il film lo ha già visto; esattamente come me. E magari vuole confrontare il suo pensiero a riguardo. Cercando un'angolatura diversa con cui ripassare quello che ha visto. Attraverso la recensione, rivedere il film, ma con i miei occhi.
Di questo «Colorful», per esempio, cosa posso dire per rendere il mio scritto meritevole di una lettura?
No perché me lo sono domandato, e mi sono anche risposto che bene o male il film è essenzialmente quello che vedi. Non è complesso da capire o metaforico. Certo ha una morale; abbastanza spiccia se vogliamo. Ma su questo forse possiamo discutere. Perché in qualche modo il film ha la sua chiave di volta in una scena, quella della nascita dell'amicizia tra il protagonista e Saotome. Un fotogramma in particolare. Quello in cui lui cambia modo di osservarlo. Prima il protagonista, non scende a compromessi, non vuole perdonare, non vede i colori. Dopo sì. Perché ha, finalmente, qualcosa da perdere.
Penso sia questo quello che mi ha colpito di più del film in questione.
Un film che descriverei per esempio con i termini grigio, teso, relativamente silenzioso; non stucchevole, ma comunque coinvolgente.
Penso però che il consiglio migliore che io possa darvi, sia proprio quello di guardarlo. Non perché sono certo che vi piacerà. Ma per scoprire da voi se può piacervi. E scoprire quanto sia possibile scavare dentro questo film. Perché secondo me, non è tanta la strada che si può percorrere in quella direzione. Non ci sono molte riflessioni da fare (ricordate i latino?) che il film non esponga già durante la visione.
Per me è e rimane un film su cui non c'è molto da dire. Mi è piaciuto - sì - quello sì. Non è il solito film esagerato, anzi, per una volta i giapponesi riescono a fare un film più modesto del solito. Che sembra non badare troppo alle apparenze.
Questa, e me ne rendo conto, non è una recensione del film. Non c'è quello che dovrebbe esserci in una recensione, informazioni, un'accenno di trama, una valutazione dei vari aspetti di un opera cinematografica. Ma c'è il motivo per cui potreste vederlo. Per scoprire cosa vi trasmette e cosa vi può lasciare in più, rispetto a quello che ha lasciato a me.
Se invece questo fa parte della vostra lista film 'completati', allora quello che avete letto è il mio pensiero. Di certo esposto in modo un po' contorto, spiegato male, e forse anche poco chiaro. Ma è il mio. E se siete arrivati fino a qui, wow, grazie mille.
Questa non è un recensione. E se siete di quelli che leggono solo l'ultima frase per capire che conclusioni ho tirato; lasciate perdere. Leggete quella scritta da qualcun altro.
E' cosi che AnimeClick mi invita a spendere 5 minuti per recensire un film (non molto invitante come incitamento a dire il vero).
Ma hey... un momento....
Wikpedia mi insegna che recensione deriva dal latino, e significa esaminare, riflettere...
Ok l'etimologia è sistemata.
Ma c'è un altro punto da chiarire.
Insomma, queste recensioni, chi le legge? O meglio, chi è il pubblico (o se volete, il 'target')?
Bisogna sempre chiederselo. È una delle basi della scrittura.
Devo pensare che esso può essere composto da persone che magari il film non l'hanno visto, e che cercano di sapere se vale la pena vederlo. Se può piacergli. Se può dargli qualcosa, oppure no.
Ma il pubblico può anche essere qualcuno che il film lo ha già visto; esattamente come me. E magari vuole confrontare il suo pensiero a riguardo. Cercando un'angolatura diversa con cui ripassare quello che ha visto. Attraverso la recensione, rivedere il film, ma con i miei occhi.
Di questo «Colorful», per esempio, cosa posso dire per rendere il mio scritto meritevole di una lettura?
No perché me lo sono domandato, e mi sono anche risposto che bene o male il film è essenzialmente quello che vedi. Non è complesso da capire o metaforico. Certo ha una morale; abbastanza spiccia se vogliamo. Ma su questo forse possiamo discutere. Perché in qualche modo il film ha la sua chiave di volta in una scena, quella della nascita dell'amicizia tra il protagonista e Saotome. Un fotogramma in particolare. Quello in cui lui cambia modo di osservarlo. Prima il protagonista, non scende a compromessi, non vuole perdonare, non vede i colori. Dopo sì. Perché ha, finalmente, qualcosa da perdere.
Penso sia questo quello che mi ha colpito di più del film in questione.
Un film che descriverei per esempio con i termini grigio, teso, relativamente silenzioso; non stucchevole, ma comunque coinvolgente.
Penso però che il consiglio migliore che io possa darvi, sia proprio quello di guardarlo. Non perché sono certo che vi piacerà. Ma per scoprire da voi se può piacervi. E scoprire quanto sia possibile scavare dentro questo film. Perché secondo me, non è tanta la strada che si può percorrere in quella direzione. Non ci sono molte riflessioni da fare (ricordate i latino?) che il film non esponga già durante la visione.
Per me è e rimane un film su cui non c'è molto da dire. Mi è piaciuto - sì - quello sì. Non è il solito film esagerato, anzi, per una volta i giapponesi riescono a fare un film più modesto del solito. Che sembra non badare troppo alle apparenze.
Questa, e me ne rendo conto, non è una recensione del film. Non c'è quello che dovrebbe esserci in una recensione, informazioni, un'accenno di trama, una valutazione dei vari aspetti di un opera cinematografica. Ma c'è il motivo per cui potreste vederlo. Per scoprire cosa vi trasmette e cosa vi può lasciare in più, rispetto a quello che ha lasciato a me.
Se invece questo fa parte della vostra lista film 'completati', allora quello che avete letto è il mio pensiero. Di certo esposto in modo un po' contorto, spiegato male, e forse anche poco chiaro. Ma è il mio. E se siete arrivati fino a qui, wow, grazie mille.
Questa non è un recensione. E se siete di quelli che leggono solo l'ultima frase per capire che conclusioni ho tirato; lasciate perdere. Leggete quella scritta da qualcun altro.
«Colorful» è un film da guardare se sarete disposti a scendere ai suoi compromessi, vi potrà sorprendere nel finale con un colpo di scena che non ho volutamente approfondito in questa recensione. Il mio consiglio è quello di rallentare, dedicare 2 ore del vostro tempo a questa visione e imparare da questa storia di vita apprezzandone i dettagli.
Voglio subito spezzare una lancia in favore del film, non è drammatico quanto potrebbe sembrare dalla cover e dai primi minuti, i quali potrebbero trasmettere un senso di sconforto ricordandoci, se l'abbiamo visto, "La tomba delle lucciole" dello studio Ghibli. Entrambi i film iniziano in una stazione ferroviaria con diverse persone/anime in attesa del proprio turno, per accaparrarsi un viaggio che potrebbe cambiare la loro esistenza.
«Colorful» racconta la storia di un'anima macchiata da un gravissimo peccato, alla quale viene offerta una seconda possibilità per tornare in vita, solo a seguito del superamento di un test in cui prenderà possesso del corpo di un ragazzo di nome Makoto. L'anima reincarnata non avrà né i propri ricordi né quelli di Makoto, riceverà solo alcune informazioni dalla sua guida astrale, un'entità con l'aspetto di un ragazzino di nome Purapura. Avrà un duplice obiettivo, quello di scoprire le motivazioni che hanno portato Makoto a tentare il suicidio e provare a ricordare i propri peccati per redimersi. L’anima tenta di emulare la personalità di Makoto, restando all’interno del personaggio nel tentativo di “vestire i suoi panni”.
La storia ruota intorno alla famiglia e alle conoscenze di Makoto, seppur senza approfondimenti, in quanto la narrazione si concentra sulla quotidianità della vita del ragazzo eludendo persino le personalità dello sceneggiatore e del regista, che sembrano non esserci. Hanno deciso di filmare la storia di questa famiglia mostrando cosa succede nella loro vita dopo il tentativo di suicidio di Makoto. Sarà lo spettatore a dover cogliere le sfumature dei personaggi, le reazioni e stati d'animo non saranno filtrate o passate sotto lente di gradimento per essere immediatamente chiare a tutti. Makoto è il protagonista e la regia segue il suo punto di vista per raccontarci la storia.
Questo metodo narrativo mi ha colpito, funziona se riesce a coinvolgerti, entri a far parte di questa famiglia e inizi a vederne luci e ombre. In una famiglia non esiste “Io o Tu” c’è solo il “Noi” e in quella famiglia tutti hanno le proprie colpe. Partiamo proprio da Makoto, il più piccolo della famiglia, non si apre, interiorizza tutto e per giunta un giorno le sue due uniche fondamenta crollano nello stesso momento. Qualcuno dopo la visione potrebbe pensare che le motivazioni del suicidio siano state futili, ma non è forse vero che basta una goccia per far traboccare il vaso?
Il fratello di Makoto è un ragazzo superbo che non dimostra affetto, da l’idea di pensare solo a se stesso e fregarsene di chi gli sta intorno, “esteriormente” di fraterno non dimostra niente.
I figli hanno sicuramente ereditato dalla madre la sua incapacità di aprirsi ed esporre malcontenti e problemi, dopotutto lei è vittima e carnefice della situazione famigliare. Esterna le proprie frustrazioni attraverso il più primitivo istinto di ogni essere umano, il sesso, ma in assenza di dialogo con la famiglia, con il marito, la si può biasimare se cerca compagnia altrove?
Se la madre in una famiglia di solito è il collante, il padre è la figura di riferimento o dovrebbe esserlo. Apparentemente il padre di questa famiglia potrebbe non avere colpe, ma il silenzio è un’arma micidiale, la più pericolosa, colui che sa - e fa finta di non sapere - evitando di parlarne, non fa altro che aggravare la situazione, il dialogo è fondamentale in una coppia e in una famiglia.
In questo assordante silenzio si sviluppano i drammi e le incomprensioni, Makoto non perdona la madre e la tratta in modo barbaro, la donna cerca di tenere duro nonostante non abbia nessuno con cui poter parlare, il fratello continua ad essere distaccato e il padre continua a rimandare un confronto. Se il capitano non sa governare la sua nave, quella nave è destinata ad andare alla deriva.
Ritornando al concetto di narrazione, ho scritto “funziona se riesce a coinvolgerti”, poiché proprio la scelta narrativa ha in sé pregi e difetti. E’ lenta e poco incisiva se non riesci a seguire i suoi tempi, rischiando quindi di non apprezzare le sfumature di cui invece è ricca.
La storia racconta un sorta di espiazione di colpe per la famiglia e per questo motivo mi ha ricordato da alcuni punti di vista “A Silent Voice”, in cui la narrazione è simile, vera e senza filtri. Quantomeno in quest’ultimo la colonna sonora di tanto in tanto alza il livello di intrattenimento su schermo, si ricorda che è un film e non un documentario. La colonna sonora di «Colorful» fa bene il suo lavoro, accompagna sempre le scene mostrate su schermo con brani che si adattano alla perfezione ma non va mai oltre, non è la musica ad elevare le immagini ma si limita ad accompagnarle, segue fedelmente l’imparziale linea narrativa scelta. Qualche piccola rivisitazione e l’aggiunta di brani leggermente più ritmati ed indirizzati, avrebbero reso la storia più coinvolgente e fluida ad un più ampio bacino di spettatori.
Sono i suoni ambientali ed i rumori a fare da cornice alla colonna sonora, come le scarpe di Shoko che rumoreggiano esprimendo timidezza e impaccio mentre parla con Makoto, o il cinguettio degli uccelli che riempie il silenzio di un dialogo, ed ancora il suono delle bacchette di Makoto dedito a mangiare, che echeggia nella scena in cui la madre tenta di comunicare con un figlio disinteressato ed assente.
A mio parere si adattano bene alla narrazione scelta ed esaltano i momenti e i drammi vissuti dai personaggi, esprimo solo il timore che non vengano apprezzati in quanto lo spettatore medio potrebbe non coglierli. Menzione speciale per il brano “Tegami Haikei Juugo No Kimi He”, che nella parte finale del film apre un dialogo in sottofondo e lo chiude in crescendo. Bello il testo del brano “Aozora” cantato da Miwa che ritma i titoli di coda.
Graficamente la serie si attesta su buoni livelli, quasi tutte le ambientazioni fanno uso di fotografie dal vero riarrangiate poi al computer per animarle e fonderle all’insieme. Le animazioni sono fluide e pulite anche se forse in alcune scene si poteva fare qualcosina di più. L’espressività dei personaggi è ben rappresentata, a volte anche un po’ esasperata per poter rendere al meglio le emozioni, ma sempre corretta e mai fastidiosa. La palette cromatica utilizzata è neutra, la sua particolarità risiede nell’adattare saturazione e luminosità dei colori agli sfondi, in relazione alla vivacità della scena, e ai soggetti in relazione ai loro stati emotivi.
Il film vuole insegnarci ad apprezzare le sfumature di colore di noi stessi e di chi ci sta intorno, stimare chi abbiamo vicino valorizzandolo. Ci ricorda che fare una carezza, regalare un sorriso, donare un abbraccio o un saluto non sono scontati e creano legami. Di contro una ramanzina, una discussione, un confronto non sono mai superflui, ma aiutano a relazionarsi e crescere insieme.
Voglio subito spezzare una lancia in favore del film, non è drammatico quanto potrebbe sembrare dalla cover e dai primi minuti, i quali potrebbero trasmettere un senso di sconforto ricordandoci, se l'abbiamo visto, "La tomba delle lucciole" dello studio Ghibli. Entrambi i film iniziano in una stazione ferroviaria con diverse persone/anime in attesa del proprio turno, per accaparrarsi un viaggio che potrebbe cambiare la loro esistenza.
«Colorful» racconta la storia di un'anima macchiata da un gravissimo peccato, alla quale viene offerta una seconda possibilità per tornare in vita, solo a seguito del superamento di un test in cui prenderà possesso del corpo di un ragazzo di nome Makoto. L'anima reincarnata non avrà né i propri ricordi né quelli di Makoto, riceverà solo alcune informazioni dalla sua guida astrale, un'entità con l'aspetto di un ragazzino di nome Purapura. Avrà un duplice obiettivo, quello di scoprire le motivazioni che hanno portato Makoto a tentare il suicidio e provare a ricordare i propri peccati per redimersi. L’anima tenta di emulare la personalità di Makoto, restando all’interno del personaggio nel tentativo di “vestire i suoi panni”.
La storia ruota intorno alla famiglia e alle conoscenze di Makoto, seppur senza approfondimenti, in quanto la narrazione si concentra sulla quotidianità della vita del ragazzo eludendo persino le personalità dello sceneggiatore e del regista, che sembrano non esserci. Hanno deciso di filmare la storia di questa famiglia mostrando cosa succede nella loro vita dopo il tentativo di suicidio di Makoto. Sarà lo spettatore a dover cogliere le sfumature dei personaggi, le reazioni e stati d'animo non saranno filtrate o passate sotto lente di gradimento per essere immediatamente chiare a tutti. Makoto è il protagonista e la regia segue il suo punto di vista per raccontarci la storia.
Questo metodo narrativo mi ha colpito, funziona se riesce a coinvolgerti, entri a far parte di questa famiglia e inizi a vederne luci e ombre. In una famiglia non esiste “Io o Tu” c’è solo il “Noi” e in quella famiglia tutti hanno le proprie colpe. Partiamo proprio da Makoto, il più piccolo della famiglia, non si apre, interiorizza tutto e per giunta un giorno le sue due uniche fondamenta crollano nello stesso momento. Qualcuno dopo la visione potrebbe pensare che le motivazioni del suicidio siano state futili, ma non è forse vero che basta una goccia per far traboccare il vaso?
Il fratello di Makoto è un ragazzo superbo che non dimostra affetto, da l’idea di pensare solo a se stesso e fregarsene di chi gli sta intorno, “esteriormente” di fraterno non dimostra niente.
I figli hanno sicuramente ereditato dalla madre la sua incapacità di aprirsi ed esporre malcontenti e problemi, dopotutto lei è vittima e carnefice della situazione famigliare. Esterna le proprie frustrazioni attraverso il più primitivo istinto di ogni essere umano, il sesso, ma in assenza di dialogo con la famiglia, con il marito, la si può biasimare se cerca compagnia altrove?
Se la madre in una famiglia di solito è il collante, il padre è la figura di riferimento o dovrebbe esserlo. Apparentemente il padre di questa famiglia potrebbe non avere colpe, ma il silenzio è un’arma micidiale, la più pericolosa, colui che sa - e fa finta di non sapere - evitando di parlarne, non fa altro che aggravare la situazione, il dialogo è fondamentale in una coppia e in una famiglia.
In questo assordante silenzio si sviluppano i drammi e le incomprensioni, Makoto non perdona la madre e la tratta in modo barbaro, la donna cerca di tenere duro nonostante non abbia nessuno con cui poter parlare, il fratello continua ad essere distaccato e il padre continua a rimandare un confronto. Se il capitano non sa governare la sua nave, quella nave è destinata ad andare alla deriva.
Ritornando al concetto di narrazione, ho scritto “funziona se riesce a coinvolgerti”, poiché proprio la scelta narrativa ha in sé pregi e difetti. E’ lenta e poco incisiva se non riesci a seguire i suoi tempi, rischiando quindi di non apprezzare le sfumature di cui invece è ricca.
La storia racconta un sorta di espiazione di colpe per la famiglia e per questo motivo mi ha ricordato da alcuni punti di vista “A Silent Voice”, in cui la narrazione è simile, vera e senza filtri. Quantomeno in quest’ultimo la colonna sonora di tanto in tanto alza il livello di intrattenimento su schermo, si ricorda che è un film e non un documentario. La colonna sonora di «Colorful» fa bene il suo lavoro, accompagna sempre le scene mostrate su schermo con brani che si adattano alla perfezione ma non va mai oltre, non è la musica ad elevare le immagini ma si limita ad accompagnarle, segue fedelmente l’imparziale linea narrativa scelta. Qualche piccola rivisitazione e l’aggiunta di brani leggermente più ritmati ed indirizzati, avrebbero reso la storia più coinvolgente e fluida ad un più ampio bacino di spettatori.
Sono i suoni ambientali ed i rumori a fare da cornice alla colonna sonora, come le scarpe di Shoko che rumoreggiano esprimendo timidezza e impaccio mentre parla con Makoto, o il cinguettio degli uccelli che riempie il silenzio di un dialogo, ed ancora il suono delle bacchette di Makoto dedito a mangiare, che echeggia nella scena in cui la madre tenta di comunicare con un figlio disinteressato ed assente.
A mio parere si adattano bene alla narrazione scelta ed esaltano i momenti e i drammi vissuti dai personaggi, esprimo solo il timore che non vengano apprezzati in quanto lo spettatore medio potrebbe non coglierli. Menzione speciale per il brano “Tegami Haikei Juugo No Kimi He”, che nella parte finale del film apre un dialogo in sottofondo e lo chiude in crescendo. Bello il testo del brano “Aozora” cantato da Miwa che ritma i titoli di coda.
Graficamente la serie si attesta su buoni livelli, quasi tutte le ambientazioni fanno uso di fotografie dal vero riarrangiate poi al computer per animarle e fonderle all’insieme. Le animazioni sono fluide e pulite anche se forse in alcune scene si poteva fare qualcosina di più. L’espressività dei personaggi è ben rappresentata, a volte anche un po’ esasperata per poter rendere al meglio le emozioni, ma sempre corretta e mai fastidiosa. La palette cromatica utilizzata è neutra, la sua particolarità risiede nell’adattare saturazione e luminosità dei colori agli sfondi, in relazione alla vivacità della scena, e ai soggetti in relazione ai loro stati emotivi.
Il film vuole insegnarci ad apprezzare le sfumature di colore di noi stessi e di chi ci sta intorno, stimare chi abbiamo vicino valorizzandolo. Ci ricorda che fare una carezza, regalare un sorriso, donare un abbraccio o un saluto non sono scontati e creano legami. Di contro una ramanzina, una discussione, un confronto non sono mai superflui, ma aiutano a relazionarsi e crescere insieme.
Innanzitutto, cos’è "Colorful"? Un film del 2010, firmato Keichi Hara (famoso per il precedente “Un’estate con Coo”). La storia si apre in quella che sembra una rappresentazione astratta del purgatorio in cui varie anime, mere sagome grigie, si mettono in fila per compiere quell’ultimo salto verso l’aldilà. Tra le tante, una viene fermata da Purapura, un’entità astrale che, su comando di Dio, informa l’anima che ha vinto una lotteria celeste.
Lo spirito, di cui non conosciamo il volto, di cui non sentiamo la voce, di cui non sapremo mai il nome, appare però infelice della notizia; non sembra entusiasta dell’idea di tornare di nuovo sulla terra, preferirebbe scomparire per sempre, uscire dalla catena di reincarnazioni. Ma, obbligato, viene spedito nel corpo dello studente Makoto Kobayashi, morto suicida poco prima, dopo aver ingerito delle pillole.
Il patto per quest’angosciata anima, intrappolata in un corpo non suo, è quello di riuscire a scoprire quale sia stato il suo peccato, cosa l’abbia spinto al suo estremo gesto.
Già la trama dovrebbe farci intendere il tono drammatico che prenderà la vicenda, che ci catapulta in una realtà cruda, coperta da una mera facciata di ipocrisia.
Il primo pensiero di Makoto, infatti, è “Come si è potuto suicidare?”. La sua vita sembra perfetta, con genitori amorevoli che si occupano di lui, una buona dote nel disegno artistico e una cotta per una ragazza bellissima. Ma, appunto, si ferma a questo… Al sembrare perfetta. Perché non è che una facciata.
Il film è tutto filtrato attraverso lo sguardo di un ragazzo giovane, che vede il mondo in bianco e nero, che scopre e non perdona la falsa felicità della famiglia. Martirizza la madre fedifraga, sopporta a stento la boria del fratello, non accenna a voler comprendere la posizione di un padre sfruttato. Oltre a questo, Makoto si rende conto che tutto il mondo che lo circonda è falso, che la ragazza bellissima per cui ha una cotta va a letto con uomini più grandi in cambio di denaro; che i compagni di classe lo bullizzano… Incapace di perdonare questa realtà, si chiude in sé stesso, e addirittura gode nel far soffrire chi tenta di avvicinarlo.
La regia di Hara è riuscita a raccontare un dramma serio in maniera semplice, senza ridondanze o abbellimenti. Paradossalmente, se la storia parla di falsità ed ipocrisia, la regia con cui ci viene raccontata è al contrario genuina. Il regista si fa carico di mostrare diverse sfaccettature di trama e diverse tematiche. Non si parla solo di Makoto, ma anche della cultura giapponese (il tutto vista sempre dal punto di vista di un ragazzino), come ad esempio i ritmi estenuanti di lavoro in Giappone.
Il tema principale della pellicola ci viene fatto presente già da un titolo evocativo: l’accettazione delle varie sfumature che compongono l’animo umano, in cui non esiste un solo colore predominante. Tema, per altro, legato alla metafora della pittura di Makoto, il quale - insieme alle sue amiche - non sa dare una vera interpretazione al proprio quadro.
I dialoghi tra i vari personaggi, a questo proposito, sono molto realistici, lenti ma veri. Non ci si aspetta mai, viste le premesse, di vedere Makoto, per come è rappresentato, cadere in sentimentalismi tipici da film per famiglie holliwoodiani. Il suo modo di respingere o accettare le persone è quello tipico di un ragazzo della sua età che non accetta la realtà che lo circonda. Tutto il film è un lento processo che porterà il ragazzo a maturare quale deve essere il suo posto nel mondo.
Ho letto diverse lamentele sull’apatia di Makoto. Per chi ha esperienza con anime o film d’animazione drammatici, che affrontano questo genere di tematiche, potrebbe risultare un po’ noioso vedere lo stesso prototipo di protagonista. Un po’ come il più noto Shinji Ikari che, isolato dal mondo, si piange addosso incapace di accettarsi, anche Makoto sembra un adolescente portato all’estremo, il che per alcuni permette troppo poca empatia.
Oltre a ciò ho visto qualcuno lamentarsi per la lentezza.
Prima di tutto, penso che la lentezza sia il punto forte del film. I cosiddetti “punti morti”, che mostrano scene ripetitive, sono una scelta ben precisa del regista. Attraverso i personaggi, Hara presenta una società tutt'altro che idealizzata, anzi… esalta l'anaffettività, il bullismo, l’emarginazione dell’uomo, e in ultimo, ma non meno importante, il desiderio del singolo di sfuggire a questa prigionia. Non per niente, ci vengono fatte vedere tantissime sequenze di vita famigliare, soprattutto durante i pasti, che mostrano la quotidianità in tutte le sue sfaccettature, per restare legati al titolo del film.
Penso che l’empatia verso la vita e il dolore del protagonista sia soggettiva, nel senso che è normale che non tutti apprezzino questo tipo di personaggio, proprio perché - a meno che non sia siano vissute esperienze simili - non si riesce a simpatizzare completamente per lui. Ma il film non si pone come obiettivo quello di “apprezzare” il protagonista, ma quello di apprezzare le varie sfaccettature della vita.
Anche la scarsa caratterizzazione dei personaggi secondari non la vedo come un probabile difetto, visto che il film non si pone l’obiettivo di parlare di loro, ma li inserisce solo per permettere a Makoto la sua maturazione.
Sul lato tecnico c’è poco da dire. Per quanto poco abbia personalmente apprezzato il chara, c’è da dire che i dettagli sono ben curati, e ho enormemente apprezzato l’OST finale, che accompagna il culmine della vicenda, anche se di musiche ce ne sono davvero pochissime.
Lo spirito, di cui non conosciamo il volto, di cui non sentiamo la voce, di cui non sapremo mai il nome, appare però infelice della notizia; non sembra entusiasta dell’idea di tornare di nuovo sulla terra, preferirebbe scomparire per sempre, uscire dalla catena di reincarnazioni. Ma, obbligato, viene spedito nel corpo dello studente Makoto Kobayashi, morto suicida poco prima, dopo aver ingerito delle pillole.
Il patto per quest’angosciata anima, intrappolata in un corpo non suo, è quello di riuscire a scoprire quale sia stato il suo peccato, cosa l’abbia spinto al suo estremo gesto.
Già la trama dovrebbe farci intendere il tono drammatico che prenderà la vicenda, che ci catapulta in una realtà cruda, coperta da una mera facciata di ipocrisia.
Il primo pensiero di Makoto, infatti, è “Come si è potuto suicidare?”. La sua vita sembra perfetta, con genitori amorevoli che si occupano di lui, una buona dote nel disegno artistico e una cotta per una ragazza bellissima. Ma, appunto, si ferma a questo… Al sembrare perfetta. Perché non è che una facciata.
Il film è tutto filtrato attraverso lo sguardo di un ragazzo giovane, che vede il mondo in bianco e nero, che scopre e non perdona la falsa felicità della famiglia. Martirizza la madre fedifraga, sopporta a stento la boria del fratello, non accenna a voler comprendere la posizione di un padre sfruttato. Oltre a questo, Makoto si rende conto che tutto il mondo che lo circonda è falso, che la ragazza bellissima per cui ha una cotta va a letto con uomini più grandi in cambio di denaro; che i compagni di classe lo bullizzano… Incapace di perdonare questa realtà, si chiude in sé stesso, e addirittura gode nel far soffrire chi tenta di avvicinarlo.
La regia di Hara è riuscita a raccontare un dramma serio in maniera semplice, senza ridondanze o abbellimenti. Paradossalmente, se la storia parla di falsità ed ipocrisia, la regia con cui ci viene raccontata è al contrario genuina. Il regista si fa carico di mostrare diverse sfaccettature di trama e diverse tematiche. Non si parla solo di Makoto, ma anche della cultura giapponese (il tutto vista sempre dal punto di vista di un ragazzino), come ad esempio i ritmi estenuanti di lavoro in Giappone.
Il tema principale della pellicola ci viene fatto presente già da un titolo evocativo: l’accettazione delle varie sfumature che compongono l’animo umano, in cui non esiste un solo colore predominante. Tema, per altro, legato alla metafora della pittura di Makoto, il quale - insieme alle sue amiche - non sa dare una vera interpretazione al proprio quadro.
I dialoghi tra i vari personaggi, a questo proposito, sono molto realistici, lenti ma veri. Non ci si aspetta mai, viste le premesse, di vedere Makoto, per come è rappresentato, cadere in sentimentalismi tipici da film per famiglie holliwoodiani. Il suo modo di respingere o accettare le persone è quello tipico di un ragazzo della sua età che non accetta la realtà che lo circonda. Tutto il film è un lento processo che porterà il ragazzo a maturare quale deve essere il suo posto nel mondo.
Ho letto diverse lamentele sull’apatia di Makoto. Per chi ha esperienza con anime o film d’animazione drammatici, che affrontano questo genere di tematiche, potrebbe risultare un po’ noioso vedere lo stesso prototipo di protagonista. Un po’ come il più noto Shinji Ikari che, isolato dal mondo, si piange addosso incapace di accettarsi, anche Makoto sembra un adolescente portato all’estremo, il che per alcuni permette troppo poca empatia.
Oltre a ciò ho visto qualcuno lamentarsi per la lentezza.
Prima di tutto, penso che la lentezza sia il punto forte del film. I cosiddetti “punti morti”, che mostrano scene ripetitive, sono una scelta ben precisa del regista. Attraverso i personaggi, Hara presenta una società tutt'altro che idealizzata, anzi… esalta l'anaffettività, il bullismo, l’emarginazione dell’uomo, e in ultimo, ma non meno importante, il desiderio del singolo di sfuggire a questa prigionia. Non per niente, ci vengono fatte vedere tantissime sequenze di vita famigliare, soprattutto durante i pasti, che mostrano la quotidianità in tutte le sue sfaccettature, per restare legati al titolo del film.
Penso che l’empatia verso la vita e il dolore del protagonista sia soggettiva, nel senso che è normale che non tutti apprezzino questo tipo di personaggio, proprio perché - a meno che non sia siano vissute esperienze simili - non si riesce a simpatizzare completamente per lui. Ma il film non si pone come obiettivo quello di “apprezzare” il protagonista, ma quello di apprezzare le varie sfaccettature della vita.
Anche la scarsa caratterizzazione dei personaggi secondari non la vedo come un probabile difetto, visto che il film non si pone l’obiettivo di parlare di loro, ma li inserisce solo per permettere a Makoto la sua maturazione.
Sul lato tecnico c’è poco da dire. Per quanto poco abbia personalmente apprezzato il chara, c’è da dire che i dettagli sono ben curati, e ho enormemente apprezzato l’OST finale, che accompagna il culmine della vicenda, anche se di musiche ce ne sono davvero pochissime.
La sensibilità di un artista sta nel riuscire a prendere l’ordinario e tramutarlo in straordinario, trattare tematiche delicate e difficili senza cadere nella banalità e senza mancare di tatto. È come incedere su una corda sospesa, il gioco sta nel portare avanti quell’equilibrio elegante, per quanto precario, fatto di immagini, suoni e impressioni fin dove l’artista ha intenzione di spingersi. Se l’estro è forte, il risultato può essere un’esperienza memorabile; se a guidare l’artista è invece pretensione, la caduta è una realtà pressoché inevitabile.
È una premessa doverosa, questa, per iniziare a parlare di “Colorful”, e in particolare di come “Colorful” si colloca nel contesto storico in cui è stato prodotto e all’interno del percorso artistico del suo autore, Keiichi Hara. Adattamento del romanzo omonimo di Eto Mori, la trasposizione animata di “Colorful” gode della reinterpretazione personale del regista, il quale, portando in primo piano certi aspetti, limandone altri, tenta di proporre un’opera adatta sia a un pubblico di bambini, col quale Hara si era rapportato fino ad allora, sia a un pubblico più maturo, in grado di cogliere fino in fondo le sfumature più cupe, celate dietro all’intreccio e ai personaggi del racconto. L’intenzione era proprio quella di creare uno stacco con la produzione rivolta a un target infantile - il suo lavoro di animatore per “Shin Chan” e “Doreamon” - ed evolvere la propria poetica verso un registro più maturo.
Protagonista di questa storia è un’anima peccatrice, rigettata contro la sua volontà nel ciclo infinito di vita, morte e resurrezione per espiare le proprie colpe e dimostrarsi meritevole di una nuova esistenza; l’anima, priva di memoria, deve vivere nel corpo di un mortale, tentando di ricordare la propria colpa e al contempo di rivelarsi adatta a reincarnarsi e intraprendere una nuova vita. Il corpo designato è quello del giovane Makoto, un ragazzo delle scuole medie sopravvissuto per miracolo dopo un tentativo di suicidio. Quello che l’aspetta è un viaggio alla scoperta del passato di Makoto e alla riscoperta del proprio io, tra le sofferenze e lo sconforto di una vita alienante che non le appartiene e le gioie fugaci e precarie che piano piano impara a riconoscere e apprezzare.
Lo stacco a cui si allude sta proprio nel modo in cui l’autore si pone nei confronti dell’opera e dei suoi personaggi. Lungi dal voler presentare una realtà e una società idealizzata, quale il modello giapponese si impone di essere, Hara ne mette a nudo il lato più crudo, ne esalta l’anaffettività e l’emarginazione dell’individuo, la necessità di un rapporto sincero col prossimo, il desiderio di sfuggire a questa realtà soffocante. Le numerose sequenze di vita familiare, su cui volutamente il regista decide di soffermarsi, e in particolar modo i pasti, fotografano perfettamente da un lato la volontà di trasmettere un messaggio tramite il realistico e il quotidiano, dall’altro dipingono direttamente il carattere e la personalità di ognuno. È un equilibrio delicato fatto di gesti, sguardi e sensazioni, prima che di dialoghi. È reale, è quotidiano. Ed è quindi proprio dall’ordinario, non dallo straordinario, che se ne colgono dagli aspetti più evidenti alle sfumature più fini, e Hara è davvero un maestro nella rappresentazione di tutto ciò.
Un altro cardine è il rapporto di Makoto con l’arte, intesa e interpretata come forma finale di escapismo. Questo particolare espediente non è certo originale, ma il modo in cui il tutto viene impacchettato rende ogni sequenza ispirata ed espressiva. Così il disegno e la pittura fungono da ponte tra il protagonista e il ragazzo, tutto diventa un gioco di colori atto a dare forma alle sue emozioni e a delinearne un profilo via via più definito nella mente del protagonista; prima toni vivaci, poi sempre più cupi, che accompagnano la macchinazione del suicidio, fino ai bozzetti lugubri e all’ultimo enigmatico non-finito che il ragazzo ha lasciato nell’aula di arte della propria scuola e che il protagonista scruta e ammira in modo ricorrente nel film.
L’apparato tecnico e artistico è lo strumento attraverso il quale il messaggio riesce a filtrare così bene e ad arrivare allo spettatore, anche qui prima ancora della sceneggiatura. La regia mantiene sempre un quid di delicato, anche quando la tensione è palpabile e il disincanto al suo apice, laddove l’espressività dei personaggi viene resa con una precisione estrema della fisiognomica facciale e una gestione oculata del colore. Il character design è un altro degli aspetti realistici dell’opera; si preferisce mettere in scena personaggi dall’aspetto normale, comune, anche tendente al brutto, e senza eccedere nell’arricchire abiti e capigliature di particolari barocchi o vistosi, come può essere di moda nelle opere a sfondo quotidiano e slice of life contemporanee a “Colorful”.
Il prodotto finale è valido, forte e coinvolgente, riesce a penetrare il guscio dello spettatore e a trasmettere in modo efficacie lo stato d’animo, la realizzazione e l’evoluzione di un protagonista dalla psicologia non certo banale, senza tralasciare neanche la caratterizzazione dei comprimari. Tutto questo probabilmente spiega perché, nonostante l’intento originale fosse quello di proporre un film alla studio Ghibli, “Colorful” non abbia avuto un’eco sufficiente da permeare fino al grande pubblico. Ma, se è vero che non tutti i mali vengono per nuocere, il carattere più marcatamente di nicchia dell’opera ne permette, in un certo senso, un’interpretazione più personale e avulsa dal parere della critica collettiva e, personalmente, anche una più intima fruizione del film, elemento che più di tutto il resto è riuscito a catturarmi.
È una premessa doverosa, questa, per iniziare a parlare di “Colorful”, e in particolare di come “Colorful” si colloca nel contesto storico in cui è stato prodotto e all’interno del percorso artistico del suo autore, Keiichi Hara. Adattamento del romanzo omonimo di Eto Mori, la trasposizione animata di “Colorful” gode della reinterpretazione personale del regista, il quale, portando in primo piano certi aspetti, limandone altri, tenta di proporre un’opera adatta sia a un pubblico di bambini, col quale Hara si era rapportato fino ad allora, sia a un pubblico più maturo, in grado di cogliere fino in fondo le sfumature più cupe, celate dietro all’intreccio e ai personaggi del racconto. L’intenzione era proprio quella di creare uno stacco con la produzione rivolta a un target infantile - il suo lavoro di animatore per “Shin Chan” e “Doreamon” - ed evolvere la propria poetica verso un registro più maturo.
Protagonista di questa storia è un’anima peccatrice, rigettata contro la sua volontà nel ciclo infinito di vita, morte e resurrezione per espiare le proprie colpe e dimostrarsi meritevole di una nuova esistenza; l’anima, priva di memoria, deve vivere nel corpo di un mortale, tentando di ricordare la propria colpa e al contempo di rivelarsi adatta a reincarnarsi e intraprendere una nuova vita. Il corpo designato è quello del giovane Makoto, un ragazzo delle scuole medie sopravvissuto per miracolo dopo un tentativo di suicidio. Quello che l’aspetta è un viaggio alla scoperta del passato di Makoto e alla riscoperta del proprio io, tra le sofferenze e lo sconforto di una vita alienante che non le appartiene e le gioie fugaci e precarie che piano piano impara a riconoscere e apprezzare.
Lo stacco a cui si allude sta proprio nel modo in cui l’autore si pone nei confronti dell’opera e dei suoi personaggi. Lungi dal voler presentare una realtà e una società idealizzata, quale il modello giapponese si impone di essere, Hara ne mette a nudo il lato più crudo, ne esalta l’anaffettività e l’emarginazione dell’individuo, la necessità di un rapporto sincero col prossimo, il desiderio di sfuggire a questa realtà soffocante. Le numerose sequenze di vita familiare, su cui volutamente il regista decide di soffermarsi, e in particolar modo i pasti, fotografano perfettamente da un lato la volontà di trasmettere un messaggio tramite il realistico e il quotidiano, dall’altro dipingono direttamente il carattere e la personalità di ognuno. È un equilibrio delicato fatto di gesti, sguardi e sensazioni, prima che di dialoghi. È reale, è quotidiano. Ed è quindi proprio dall’ordinario, non dallo straordinario, che se ne colgono dagli aspetti più evidenti alle sfumature più fini, e Hara è davvero un maestro nella rappresentazione di tutto ciò.
Un altro cardine è il rapporto di Makoto con l’arte, intesa e interpretata come forma finale di escapismo. Questo particolare espediente non è certo originale, ma il modo in cui il tutto viene impacchettato rende ogni sequenza ispirata ed espressiva. Così il disegno e la pittura fungono da ponte tra il protagonista e il ragazzo, tutto diventa un gioco di colori atto a dare forma alle sue emozioni e a delinearne un profilo via via più definito nella mente del protagonista; prima toni vivaci, poi sempre più cupi, che accompagnano la macchinazione del suicidio, fino ai bozzetti lugubri e all’ultimo enigmatico non-finito che il ragazzo ha lasciato nell’aula di arte della propria scuola e che il protagonista scruta e ammira in modo ricorrente nel film.
L’apparato tecnico e artistico è lo strumento attraverso il quale il messaggio riesce a filtrare così bene e ad arrivare allo spettatore, anche qui prima ancora della sceneggiatura. La regia mantiene sempre un quid di delicato, anche quando la tensione è palpabile e il disincanto al suo apice, laddove l’espressività dei personaggi viene resa con una precisione estrema della fisiognomica facciale e una gestione oculata del colore. Il character design è un altro degli aspetti realistici dell’opera; si preferisce mettere in scena personaggi dall’aspetto normale, comune, anche tendente al brutto, e senza eccedere nell’arricchire abiti e capigliature di particolari barocchi o vistosi, come può essere di moda nelle opere a sfondo quotidiano e slice of life contemporanee a “Colorful”.
Il prodotto finale è valido, forte e coinvolgente, riesce a penetrare il guscio dello spettatore e a trasmettere in modo efficacie lo stato d’animo, la realizzazione e l’evoluzione di un protagonista dalla psicologia non certo banale, senza tralasciare neanche la caratterizzazione dei comprimari. Tutto questo probabilmente spiega perché, nonostante l’intento originale fosse quello di proporre un film alla studio Ghibli, “Colorful” non abbia avuto un’eco sufficiente da permeare fino al grande pubblico. Ma, se è vero che non tutti i mali vengono per nuocere, il carattere più marcatamente di nicchia dell’opera ne permette, in un certo senso, un’interpretazione più personale e avulsa dal parere della critica collettiva e, personalmente, anche una più intima fruizione del film, elemento che più di tutto il resto è riuscito a catturarmi.
"Colorful" è un lungometraggio della durata di circa due ore prodotto nel 2010 dallo studio Sunrise, diretto da Keiichi Hara ed ispirato all'omonimo romanzo di Eto Mori.
Ad un'anima peccatrice viene offerta una strabiliante possibilità: reincarnarsi e vivere una seconda vita nel corpo di Kobayashi Makoto, uno studente giapponese di quattordici anni che, per via di numerosi problemi ha tentato il suicidio. Dopo un iniziale rifiuto, l'anima viene praticamente obbligata ad entrare nel corpo del ragazzo e ad adattarsi alla sua vita tutt'altro che felice.
L'incipit è sicuramente uno dei più coinvolgenti ed interessanti che mi siano mai capitati di vedere, ed è reso con grande maestria. Successivamente, la trama si sviluppa bene e in maniera incredibile, anche se con ritmi piuttosto lenti ma mai soporiferi. I personaggi che vengono presentati sono pochi, ma tutti egregiamente caratterizzati. Il protagonista principale gode di un'ottima e profonda introspezione, volta a mettere in risalto tutte le sue debolezze e, più in generale, le debolezze che accomunano il genere umano. Durante il suo viaggio, compirà una notevole crescita dal punto di vista caratteriale e psicologico, e proprio questa sarà il fulcro dell'intera opera.
Il comparto tecnico è molto buono ma non eccelso. Il design dei personaggi è tutto sommato gradevole, le animazioni sono fluide, le ambientazioni varie e i fondali sufficientemente dettagliati. Ottimo il comparto sonoro che propone un doppiaggio adeguato e delle colonne sonore veramente azzeccate e perfette per ricreare le atmosfere desiderate. Il finale è forse un po' scontato, ma, detto in parole povere, non poteva essere gestito in maniera migliore.
Dunque qual è il messaggio principale che vuole lanciare questa pellicola? Semplice: la vita non è tutta bianco e nero, bensì tinta di una moltitudine di sfumature differenti; il compito dell'uomo è quello di riuscire a coglierne il più possibile senza farsi scoraggiare e, successivamente, quello di accettare anche quelle più oscure.
Non a tutti viene data una seconda possibilità come a Makoto, ragion per cui bisogna cercare di sfruttare al meglio l'unica vita che ci viene concessa, cercando di viverla al massimo delle nostre possibilità. Di ostacoli ce ne sono sempre e per tutti, ed affrontarli con un sorriso è il primo passo verso la felicità.
"Colorful" è un inno alla vita e alla gioia di vivere, analizza in maniera originale ed efficace un problema più diffuso di quanto si pensi, soprattutto nella terra del Sol Levante.
Un'opera profonda ed emozionante che mi sento di consigliare veramente a tutti senza distinzioni.
Ad un'anima peccatrice viene offerta una strabiliante possibilità: reincarnarsi e vivere una seconda vita nel corpo di Kobayashi Makoto, uno studente giapponese di quattordici anni che, per via di numerosi problemi ha tentato il suicidio. Dopo un iniziale rifiuto, l'anima viene praticamente obbligata ad entrare nel corpo del ragazzo e ad adattarsi alla sua vita tutt'altro che felice.
L'incipit è sicuramente uno dei più coinvolgenti ed interessanti che mi siano mai capitati di vedere, ed è reso con grande maestria. Successivamente, la trama si sviluppa bene e in maniera incredibile, anche se con ritmi piuttosto lenti ma mai soporiferi. I personaggi che vengono presentati sono pochi, ma tutti egregiamente caratterizzati. Il protagonista principale gode di un'ottima e profonda introspezione, volta a mettere in risalto tutte le sue debolezze e, più in generale, le debolezze che accomunano il genere umano. Durante il suo viaggio, compirà una notevole crescita dal punto di vista caratteriale e psicologico, e proprio questa sarà il fulcro dell'intera opera.
Il comparto tecnico è molto buono ma non eccelso. Il design dei personaggi è tutto sommato gradevole, le animazioni sono fluide, le ambientazioni varie e i fondali sufficientemente dettagliati. Ottimo il comparto sonoro che propone un doppiaggio adeguato e delle colonne sonore veramente azzeccate e perfette per ricreare le atmosfere desiderate. Il finale è forse un po' scontato, ma, detto in parole povere, non poteva essere gestito in maniera migliore.
Dunque qual è il messaggio principale che vuole lanciare questa pellicola? Semplice: la vita non è tutta bianco e nero, bensì tinta di una moltitudine di sfumature differenti; il compito dell'uomo è quello di riuscire a coglierne il più possibile senza farsi scoraggiare e, successivamente, quello di accettare anche quelle più oscure.
Non a tutti viene data una seconda possibilità come a Makoto, ragion per cui bisogna cercare di sfruttare al meglio l'unica vita che ci viene concessa, cercando di viverla al massimo delle nostre possibilità. Di ostacoli ce ne sono sempre e per tutti, ed affrontarli con un sorriso è il primo passo verso la felicità.
"Colorful" è un inno alla vita e alla gioia di vivere, analizza in maniera originale ed efficace un problema più diffuso di quanto si pensi, soprattutto nella terra del Sol Levante.
Un'opera profonda ed emozionante che mi sento di consigliare veramente a tutti senza distinzioni.
Come si può facilmente immaginare l'industria dell'animazione, così come quella cinematografica, ha come condizione indispensabile per la sua sopravvivenza quella di generare profitti. Affinchè questa si realizzi, però, è necessario che il prodotto finale riesca ad intrattenere masse sempre più ingenti di persone e per farlo, purtroppo, si è reso necessario sacrificare il fattore qualità a favore di altri elementi che abbiano un impatto più semplice ed immediato sullo spettatore (fanservice, effetti speciali, la legge del più forte, eccetera).
Ora essendone io in prima persona un assiduo consumatore non mi metterò certo qui a criticare l'animazione di massa, che svolge comunque un ruolo importante per rallegrare le nostre serate e che spesso è capace comunque di offrire prodotti di ottimo livello. Ma vuoi mettere il senso di appagamento che si prova dopo aver visto un anime di qualità come questo Colorful? La soddisfazione di aver visto qualcosa che non ti ha semplicemente divertito o appassionato ma che ti ha lasciato qualcosa dentro? Tutto ciò, come dice un famoso spot, non ha prezzo.
"Colorful" è un film del 2010 tratto dal romanzo omonimo di Eto Mori e diretto da Keiichi Hara. La trama racconta di come all'anima di un defunto su cui grava una grande colpa venga offerta una seconda possibilità di salvezza: dovrà tornare nel mondo degli umani e vestire i panni di Makoto Kobayashi, un ragazzo di quattordici anni morto suicida pochi istanti prima. Nelle sue nuove vesti quest'anima misteriosa, che non ricorda nulla del proprio passato, dovrà fare i conti con una famiglia a lui sconosciuta, con un contesto sociale piuttosto complicato e soprattutto col nuovo sè stesso: ciò che imparerà sul passato di Makoto, infatti, gli faranno nutrire una non celata antipatia verso il ragazzo che si trova ad impersonare. Le cose, però, sono destinate a cambiare col tempo.
La morale che emergerà dalla storia, e da cui prende il nome anche il titolo, è che ogni persona possiede dentro di sè una vasta gamma di colori ognuno dei quali rappresenta un lato dell'animo umano; il compito dell'individuo è quello di imparare a riconoscerli tutti ed accettarli, anche i più sgradevoli. In questo contesto Makoto compirà un viaggio, irto di ostacoli e pieno di momenti di grande amarezza, al termine del quale riuscirà ad accettarsi e ad accettare il mondo che lo circonda. Il finale sarà il tassello finale di questo percorso ma per ovvi motivi non lo svelo per non togliere la sorpresa allo spettatore.
Questa visione dell'uomo può essere condivisibile o meno; di certo rappresenta un valido motivo di riflessione e di arricchimento del proprio punto di vista in materia. Ciò che maggiormente mi ha colpito, però, è la rappresentazione del mondo in cui si svolge l'azione, un mondo decisamente imperfetto ed intriso di massicce dosi di amaro realismo; tutto ciò, però, senza cadere nel pessimismo ma proponendo un ideale di tolleranza verso gli altri e soprattutto verso sè stessi. Anche se i colori dell'anima sono diversi da quelli esaltati dalla società ciò non può e non deve essere motivo di vergogna ma essi rappresentano solo una piccola parte di quelle diversità che rendono vario e bello il creato.
In definitiva, "Colorful" è un film che consiglio vivamente a tutti, perchè è una storia in cui, in un modo o nell'altro, tutti si possono riconoscere se non ci si limita a considerazioni superficiali del tipo "mia madre non balla il flamenco". Il mondo in cui viviamo è sicuramente un mondo imperfetto fatto di persone imperfette; questo film cerca di rappresentarlo ed al tempo stesso cerca di offrire una possibile via d'uscita al dolore che tutto ciò comporta. Forse non è quella che si desidera, ma spesso bisogna sapersi accontentare.
Ora essendone io in prima persona un assiduo consumatore non mi metterò certo qui a criticare l'animazione di massa, che svolge comunque un ruolo importante per rallegrare le nostre serate e che spesso è capace comunque di offrire prodotti di ottimo livello. Ma vuoi mettere il senso di appagamento che si prova dopo aver visto un anime di qualità come questo Colorful? La soddisfazione di aver visto qualcosa che non ti ha semplicemente divertito o appassionato ma che ti ha lasciato qualcosa dentro? Tutto ciò, come dice un famoso spot, non ha prezzo.
"Colorful" è un film del 2010 tratto dal romanzo omonimo di Eto Mori e diretto da Keiichi Hara. La trama racconta di come all'anima di un defunto su cui grava una grande colpa venga offerta una seconda possibilità di salvezza: dovrà tornare nel mondo degli umani e vestire i panni di Makoto Kobayashi, un ragazzo di quattordici anni morto suicida pochi istanti prima. Nelle sue nuove vesti quest'anima misteriosa, che non ricorda nulla del proprio passato, dovrà fare i conti con una famiglia a lui sconosciuta, con un contesto sociale piuttosto complicato e soprattutto col nuovo sè stesso: ciò che imparerà sul passato di Makoto, infatti, gli faranno nutrire una non celata antipatia verso il ragazzo che si trova ad impersonare. Le cose, però, sono destinate a cambiare col tempo.
La morale che emergerà dalla storia, e da cui prende il nome anche il titolo, è che ogni persona possiede dentro di sè una vasta gamma di colori ognuno dei quali rappresenta un lato dell'animo umano; il compito dell'individuo è quello di imparare a riconoscerli tutti ed accettarli, anche i più sgradevoli. In questo contesto Makoto compirà un viaggio, irto di ostacoli e pieno di momenti di grande amarezza, al termine del quale riuscirà ad accettarsi e ad accettare il mondo che lo circonda. Il finale sarà il tassello finale di questo percorso ma per ovvi motivi non lo svelo per non togliere la sorpresa allo spettatore.
Questa visione dell'uomo può essere condivisibile o meno; di certo rappresenta un valido motivo di riflessione e di arricchimento del proprio punto di vista in materia. Ciò che maggiormente mi ha colpito, però, è la rappresentazione del mondo in cui si svolge l'azione, un mondo decisamente imperfetto ed intriso di massicce dosi di amaro realismo; tutto ciò, però, senza cadere nel pessimismo ma proponendo un ideale di tolleranza verso gli altri e soprattutto verso sè stessi. Anche se i colori dell'anima sono diversi da quelli esaltati dalla società ciò non può e non deve essere motivo di vergogna ma essi rappresentano solo una piccola parte di quelle diversità che rendono vario e bello il creato.
In definitiva, "Colorful" è un film che consiglio vivamente a tutti, perchè è una storia in cui, in un modo o nell'altro, tutti si possono riconoscere se non ci si limita a considerazioni superficiali del tipo "mia madre non balla il flamenco". Il mondo in cui viviamo è sicuramente un mondo imperfetto fatto di persone imperfette; questo film cerca di rappresentarlo ed al tempo stesso cerca di offrire una possibile via d'uscita al dolore che tutto ciò comporta. Forse non è quella che si desidera, ma spesso bisogna sapersi accontentare.
Abbiamo una seconda possibilità? Esiste un modo per espiare le nostre colpe? Cosa c'è dopo la morte? Sono domande che, almeno una volta nella vita, un essere umano si fa.
La storia di "Colorful" gira intorno a un'anima che si ritrova nel corpo di un giovane ragazzo, Kobayashi Makoto, suicidatosi per motivi sconosciuti. L'anima in questione dovrà superare un determinato test per recuperare la memoria dei suoi peccati, cercando di vivere la vita di questo ragazzo.
"Colorful" è davvero un capolavoro che mi ha toccato tantissimo; il disegno è davvero sublime, curato nei minimi dettagli, le musiche riescono a immergere lo spettatore nella storia. La trama tratta un tema che mi ha sempre affascinato: la reincarnazione. Un'anima ha la possibilità di reincarnarsi, a meno che non abbia delle forti colpe, ma anche in questo caso c'è, anche se in modo casuale, l'occasione di avere una seconda opportunità (la grande lotteria celeste, come capitato al protagonista). La visione ultraterrena del film è davvero affascinante, e se dovessi pensare a cosa c'è dopo la morte, non mi dispiacerebbe pensare che possa essere così. Altro aspetto che salta subito alla vista dello spettatore sono i colori: splendenti e coinvolgenti, non si può restare indifferenti davanti a tanta bellezza e varietà.
I personaggi sono davvero ben caratterizzati, si riesce subito a capire che tipo di persone sono: bello il personaggio di Saotome, ma forse il personaggio che mi ha toccato di più è la madre di Makoto. Il film riesce a cogliere tutti i sentimenti dei protagonisti, mostrando tutta la tristezza, la fragilità, le inquietudini che li colpiscono, mantenendo tutto credibile e reale, facendo subito immedesimare lo spettatore.
In conclusione, non posso fare altro che consigliare questo film, invitando tutti a guardarlo. Penso sia doveroso chiudere questa recensione con la frase, a mio parere, più significativa del film: "Le persone non hanno un solo colore, ma moltissimi. Nessuno sa quali siano i propri veri colori. Quindi va bene avere una vita piena di colori... Continua a vivere così."
La storia di "Colorful" gira intorno a un'anima che si ritrova nel corpo di un giovane ragazzo, Kobayashi Makoto, suicidatosi per motivi sconosciuti. L'anima in questione dovrà superare un determinato test per recuperare la memoria dei suoi peccati, cercando di vivere la vita di questo ragazzo.
"Colorful" è davvero un capolavoro che mi ha toccato tantissimo; il disegno è davvero sublime, curato nei minimi dettagli, le musiche riescono a immergere lo spettatore nella storia. La trama tratta un tema che mi ha sempre affascinato: la reincarnazione. Un'anima ha la possibilità di reincarnarsi, a meno che non abbia delle forti colpe, ma anche in questo caso c'è, anche se in modo casuale, l'occasione di avere una seconda opportunità (la grande lotteria celeste, come capitato al protagonista). La visione ultraterrena del film è davvero affascinante, e se dovessi pensare a cosa c'è dopo la morte, non mi dispiacerebbe pensare che possa essere così. Altro aspetto che salta subito alla vista dello spettatore sono i colori: splendenti e coinvolgenti, non si può restare indifferenti davanti a tanta bellezza e varietà.
I personaggi sono davvero ben caratterizzati, si riesce subito a capire che tipo di persone sono: bello il personaggio di Saotome, ma forse il personaggio che mi ha toccato di più è la madre di Makoto. Il film riesce a cogliere tutti i sentimenti dei protagonisti, mostrando tutta la tristezza, la fragilità, le inquietudini che li colpiscono, mantenendo tutto credibile e reale, facendo subito immedesimare lo spettatore.
In conclusione, non posso fare altro che consigliare questo film, invitando tutti a guardarlo. Penso sia doveroso chiudere questa recensione con la frase, a mio parere, più significativa del film: "Le persone non hanno un solo colore, ma moltissimi. Nessuno sa quali siano i propri veri colori. Quindi va bene avere una vita piena di colori... Continua a vivere così."
Arte. La prima cosa che ho pensato vedendo un film così. Molti potrebbero pensarlo per il semplice fatto che nei fondali si riconosce, forse più che in qualsiasi altro anime ( almeno fra quelli che ho visto io ), una particolare vena pittorica che da vita a paesaggi naturali accurati e dentro i quali i personaggi non hanno difficoltà a immedesimarsi. In realtà, proprio per la somiglianza di questi scenari a delle tele, è difficile non scorgere una certa fissità nella natura rappresentata: ad esempio nella scena in cui il protagonista è seduto su un masso e si appresta a dipingere la natura di fronte a lui vediamo uno specchio d'acqua mosso dal vento e allo stesso tempo alberi e nuvole immobili. Tuttavia, ritengo che l'immobilità di certi elementi in molte scene non faccia che portare ancora di più l'attenzione sui personaggi, sulle loro espressioni e sulle loro azioni, spesso lente e meditate. E' come se l'autore avesse deciso non di creare il proprio film partendo da un foglio bianco per poi procedere all'animazione, ma da quadri già compiuti e portatori di una loro bellezza, riuscendo comunque a fondere le due realtà. Fare un cartone, infatti, significa anche fare un disegno e colorarlo e per questo può essere considerato arte, ma qui sono proprio due mondi, pittura e animazione, che si incontrano e si fondono armoniosamente.
Scusate la digressione su questo aspetto, ma mi ha davvero colpito. Continuo dicendo che i personaggi si muovono fluidamente e soprattutto sono carichi di espressioni coinvolgenti, come la scena che si vede circa al minuto 42:00: il nostro giovane protagonista è a tavola durante la cena, solo con la madre la quale ha commesso un grave peccato ( che non vi anticipo ) e del quale il figlio è a conoscenza; lei si mostra gentile e preoccupata per il ragazzo che però crede nella sua falsità, e mentre gli scorrono in mente le immagini dell'orribile atto commesso da lei strizza velocemente l'occhio in segno di rabbia repressa e getta con noncuranza le bacchette in mezzo ai piatti, facendo piangere la donna dopo essersene andato.
Il tema principale poi, quello della reincarnazione dell'anima e della sua possibilità di redimersi, è chiaramente toccante, o perlomeno provocatorio per chiunque. I momenti drammatici sono vari, e il semplice lieto fine serve forse a bilanciare la tensione che corre per quasi tutto il film. Tra l'altro non ci sono riferimenti a qualche religione particolare, potrebbe infatti trattarsi della reincarnazione in termini buddhisti o di altri credi spiritisti nonché di un semplice atto di volere divino, come per i cristiani. Questo è un fattore che aiuta l'osservatore nell'immedesimazione coi personaggi, in primo luogo il protagonista, senza farsi fuorviare da specifici rimandi religiosi che potrebbero non essere graditi ( almeno, questo è ciò che mi è parso ).
Nel complesso dunque un ottimo film, al quale non mi sento di dare 10 semplicemente perché lo trovo leggermente lento, ma giusto un pochino, in alcune scene. Forse delle musiche un po' più presente avrebbe potuto sopperire a questo difettuccio, anche se questa è la mia nuova colonna sonora preferita ( ha soppiantato quella di " La collina dei papaveri " ).
Scusate ancora la lunghezza, è difficile scrivere cercando di non parlare della trama per non anticipare nulla di compromettente e per invogliare il più possibile a guardare ...
Spero vi abbia interessato, buona visione!!
Scusate la digressione su questo aspetto, ma mi ha davvero colpito. Continuo dicendo che i personaggi si muovono fluidamente e soprattutto sono carichi di espressioni coinvolgenti, come la scena che si vede circa al minuto 42:00: il nostro giovane protagonista è a tavola durante la cena, solo con la madre la quale ha commesso un grave peccato ( che non vi anticipo ) e del quale il figlio è a conoscenza; lei si mostra gentile e preoccupata per il ragazzo che però crede nella sua falsità, e mentre gli scorrono in mente le immagini dell'orribile atto commesso da lei strizza velocemente l'occhio in segno di rabbia repressa e getta con noncuranza le bacchette in mezzo ai piatti, facendo piangere la donna dopo essersene andato.
Il tema principale poi, quello della reincarnazione dell'anima e della sua possibilità di redimersi, è chiaramente toccante, o perlomeno provocatorio per chiunque. I momenti drammatici sono vari, e il semplice lieto fine serve forse a bilanciare la tensione che corre per quasi tutto il film. Tra l'altro non ci sono riferimenti a qualche religione particolare, potrebbe infatti trattarsi della reincarnazione in termini buddhisti o di altri credi spiritisti nonché di un semplice atto di volere divino, come per i cristiani. Questo è un fattore che aiuta l'osservatore nell'immedesimazione coi personaggi, in primo luogo il protagonista, senza farsi fuorviare da specifici rimandi religiosi che potrebbero non essere graditi ( almeno, questo è ciò che mi è parso ).
Nel complesso dunque un ottimo film, al quale non mi sento di dare 10 semplicemente perché lo trovo leggermente lento, ma giusto un pochino, in alcune scene. Forse delle musiche un po' più presente avrebbe potuto sopperire a questo difettuccio, anche se questa è la mia nuova colonna sonora preferita ( ha soppiantato quella di " La collina dei papaveri " ).
Scusate ancora la lunghezza, è difficile scrivere cercando di non parlare della trama per non anticipare nulla di compromettente e per invogliare il più possibile a guardare ...
Spero vi abbia interessato, buona visione!!
Davvero non ho le parole per una introduzione a questa recensione... quindi evito di dilungarmi troppo, e passo subito alla mia solita analisi!
Trama: la storia, sebbene in certi momenti sia portata avanti un po' lentamente, è molto buona, e in particolare sfrutta un tema -quello della reincarnazione- che risulta particolarmente interessante a quel pubblico occidentale che in qualche modo guarda con interesse al mondo del buddhismo. Non credo ovviamente che questo fosse lo scopo principale della scelta alla base di questa storia, però era una riflessione che mi è venuta spontanea. E chi, del resto, non si è mai chiesto almeno una volta che cosa possa esserci dopo la morte? Il protagonista, un'anima deceduta colpevole di un grave peccato che però ha dimenticato, verrà catapultato nel corpo di un giovane suicida e incoraggiato a vivere, di nuovo. Come reagire di fronte alla grande mole di situazioni ignote, come affrontare i problemi che hanno spinto quel giovane a uccidersi, e che di certo non tarderanno a farsi avanti?
La risposta si farà strada un poco alla volta, nel protagonista come nello spettatore.
Chiariamoci: 2 ore abbondanti potrebbero sembrare anche troppe. Però, mio gusto personale, meglio abbondare che tagliare troppo, sempre e comunque. Anche a costo di inserire parti che non sono poi così fondamentali per la trama.
Su questo punto assegno un 8.
Finale: mi ha lasciato soddisfatto, e, sebbene forse la regia sia stata anche un po' troppo modesta nel chiudere l'opera, secondo me è proprio la conclusione che una storia come questa dovrebbe avere. "Colorful", è proprio il caso di dirlo, ci lascia con un sorriso di speranza, ma senza lasciarsi andare in sentimentalismi e scene strappalacrime. Semplicemente, la storia continua. Così è la vita. Assegno un 10 per questi motivi a questo punto.
Personaggi: ho apprezzato molto i vari personaggi, che a mio dire possono effettivamente ricordare a ciascuno di noi persone che realmente conosciamo, o addirittura parte di noi stessi. Non ci sono, come talvolta (comunque troppo spesso) accade, personaggi palesemente messi lì apposta per attirare lo spettatore, per farlo ridere. E questo è sicuramente un vero valore aggiunto, quindi 10 anche su questo punto.
Grafica: il livello dei disegni è davvero molto alto, e in particolare ho apprezzato particolarmente i fondali, davvero bellissimi e accurati, che rendono davvero un piacere anche talvolta fermare la visione e contemplare. Va dunque un 10 anche su questo punto.
Sonoro: ecco, non è che sia fatto male, però a differenza del resto non mi ha colpito particolarmente. Ci sono state tante opere, tra quelle che ho visto, che magari erano inferiori sotto molti altri aspetti, ma che grazie ad una colonna sonora splendida si sono fatte apprezzare parecchio da me. In questo caso, a farmi apprezzare "Colorful" è stato tutto il resto. Diciamo che qui si ferma al 6.
Complessivamente la mia opinione è molto molto positiva, e mi sento di consigliare la visione di questo lungometraggio a chiunque abbia un animo sensibile e attento. Caldamente sconsigliato invece a chi cerchi azione o grandi emozioni. "Colorful" è qualcosa di più tranquillo. Quasi... quotidiano, oserei dire.
Trama: la storia, sebbene in certi momenti sia portata avanti un po' lentamente, è molto buona, e in particolare sfrutta un tema -quello della reincarnazione- che risulta particolarmente interessante a quel pubblico occidentale che in qualche modo guarda con interesse al mondo del buddhismo. Non credo ovviamente che questo fosse lo scopo principale della scelta alla base di questa storia, però era una riflessione che mi è venuta spontanea. E chi, del resto, non si è mai chiesto almeno una volta che cosa possa esserci dopo la morte? Il protagonista, un'anima deceduta colpevole di un grave peccato che però ha dimenticato, verrà catapultato nel corpo di un giovane suicida e incoraggiato a vivere, di nuovo. Come reagire di fronte alla grande mole di situazioni ignote, come affrontare i problemi che hanno spinto quel giovane a uccidersi, e che di certo non tarderanno a farsi avanti?
La risposta si farà strada un poco alla volta, nel protagonista come nello spettatore.
Chiariamoci: 2 ore abbondanti potrebbero sembrare anche troppe. Però, mio gusto personale, meglio abbondare che tagliare troppo, sempre e comunque. Anche a costo di inserire parti che non sono poi così fondamentali per la trama.
Su questo punto assegno un 8.
Finale: mi ha lasciato soddisfatto, e, sebbene forse la regia sia stata anche un po' troppo modesta nel chiudere l'opera, secondo me è proprio la conclusione che una storia come questa dovrebbe avere. "Colorful", è proprio il caso di dirlo, ci lascia con un sorriso di speranza, ma senza lasciarsi andare in sentimentalismi e scene strappalacrime. Semplicemente, la storia continua. Così è la vita. Assegno un 10 per questi motivi a questo punto.
Personaggi: ho apprezzato molto i vari personaggi, che a mio dire possono effettivamente ricordare a ciascuno di noi persone che realmente conosciamo, o addirittura parte di noi stessi. Non ci sono, come talvolta (comunque troppo spesso) accade, personaggi palesemente messi lì apposta per attirare lo spettatore, per farlo ridere. E questo è sicuramente un vero valore aggiunto, quindi 10 anche su questo punto.
Grafica: il livello dei disegni è davvero molto alto, e in particolare ho apprezzato particolarmente i fondali, davvero bellissimi e accurati, che rendono davvero un piacere anche talvolta fermare la visione e contemplare. Va dunque un 10 anche su questo punto.
Sonoro: ecco, non è che sia fatto male, però a differenza del resto non mi ha colpito particolarmente. Ci sono state tante opere, tra quelle che ho visto, che magari erano inferiori sotto molti altri aspetti, ma che grazie ad una colonna sonora splendida si sono fatte apprezzare parecchio da me. In questo caso, a farmi apprezzare "Colorful" è stato tutto il resto. Diciamo che qui si ferma al 6.
Complessivamente la mia opinione è molto molto positiva, e mi sento di consigliare la visione di questo lungometraggio a chiunque abbia un animo sensibile e attento. Caldamente sconsigliato invece a chi cerchi azione o grandi emozioni. "Colorful" è qualcosa di più tranquillo. Quasi... quotidiano, oserei dire.
Reputo "Colorful" una storia veramente bella: non è infantile ma neanche volgare, affronta diversi temi ma mai in maniera pesante: la morte, il suicidio, la prostituzione, la depressione, il bullismo. E lo fa sempre attraverso gli occhi di un ragazzino che è in preda ai suoi lati oscuri, ma anche in cerca del vero senso della vita. Nel film sono presenti anche velate inquadrature e fotografie "reali" a tratti storiche in alcuni momenti. Malgrado alcuni (pochissimi) punti un po' lenti del filo narrativo, "Colorful" è un film che insegna quanto sia importante ricordare dove si sono commessi degli errori perché potrebbe non esserci una seconda occasione. Ha un lieto fine, eppure lascia un lieve amaro in bocca per uno dei personaggi che si scopre non essere stato tanto fortunato quanto il protagonista.
"Colorful", lungometraggio animato (126 minuti di durata) dello studio Sunrise, è stato per me uno delle sorprese del 2010. Opera di genere slice of life, con qualche elemento magico/surreale, narra le vicende di un'anima peccatrice a cui viene fornita la possibilità di tornare a "vivere" (e redimersi) a patto di abitare il corpo di un quattordicenne suicida (Makoto Kobayashi) e di sfruttare il tempo concessole per cercare di ricordare il peccato di cui si è macchiata in vita. Il tempo è ovviamente limitato e, in caso di fallimento, la punizione sarebbe la morte definitiva (di Makoto) e l'impossibilità per l'anima di raggiungere la salvezza.
L'incipit non è però altro che un pretesto e qualsiasi riferimento a questioni ultraterrene passa in secondo piano rispetto alla natura (prevalentemente) realistica della vicenda. L'anima si troverà a confrontarsi con le non molto numerose persone rilevanti nella vita di Makoto e a scoprire i motivi che hanno condotto il ragazzo a commettere il suicidio. Non immaginatevi, però, una sorta di indagine; l'anima, soprattutto in un primo momento, non si dimostrerà particolarmente interessata alla vita del ragazzo e si limiterà a comportarsi secondo le sue inclinazioni, causando un certa perplessità alla famiglia e ai compagni di scuola, abituati da Makoto a un comportamento completamente diverso. Con il procedere della trama vedremo Makoto (l'anima) maturare, acquisendo maggior consapevolezza di sé, fino a giungere al finale, scontato ma necessario, che costituirà la prova della sua crescita.
I personaggi incontrati dall'anima sono senza dubbio il punto di forza dell'opera. Tutti caratterizzati con grande realismo, tra di essi spiccano la madre di Makoto e Kuwabara Hiroka, la ragazza di cui Makoto è innamorato. Entrambe ottimamente caratterizzate nelle loro rispettive problematiche, dal tradimento operato dalla madre nei confronti del padre, con rispettivi sensi di colpa e depressione, al "particolare" rapporto di Hiroka con il proprio corpo (vendere prestazioni sessuali per comprarsi accessori e vestiti alla moda). Meno interessanti ma ugualmente ben delineati sono: Shouko Sano, "strana" compagna di classe di Makoto, Saotome, unico amico del ragazzo, il fratello, il padre stacanovista e, in ultimo, Purapura, la scontrosa guida ultraterrena dell'anima.
Ottimo è il livello dell'animazione che, grazie alla grande attenzione rivolta alle espressioni e movenze dei vari personaggi e fondali e al character design, vicino alle reali proporzioni (giapponesi) di viso e corpo, rendono "Colorful" una gioia per gli occhi senza però allontanarsi dal realismo, di personaggi e ambientazione, che lo contraddistingue.
Nulla da eccepire sul fronte sonoro che, pur non essendo eccelso quanto l'animazione, svolge dignitosamente il suo ruolo.
Consigliato quindi a tutti gli amanti degli slice of life "seri" e a chi è in grado di apprezzare un'opera per la sua normalità e semplicità (che non diventa mai superficialità). Sconsigliato, ovviamente, a chi cerca azione/scontri o un susseguirsi di colpi di scena, poiché qui non ne troverà.
Trama: 8/10; lineare e lenta ma gradevole, subordinata ai personaggi.
Personaggi: 9/10; realistici e ottimamente caratterizzati.
Animazione: 9/10; alta qualità e attenzione al dettaglio.
Sonoro: 7/10; nulla di speciale ma svolge il suo compito.
L'incipit non è però altro che un pretesto e qualsiasi riferimento a questioni ultraterrene passa in secondo piano rispetto alla natura (prevalentemente) realistica della vicenda. L'anima si troverà a confrontarsi con le non molto numerose persone rilevanti nella vita di Makoto e a scoprire i motivi che hanno condotto il ragazzo a commettere il suicidio. Non immaginatevi, però, una sorta di indagine; l'anima, soprattutto in un primo momento, non si dimostrerà particolarmente interessata alla vita del ragazzo e si limiterà a comportarsi secondo le sue inclinazioni, causando un certa perplessità alla famiglia e ai compagni di scuola, abituati da Makoto a un comportamento completamente diverso. Con il procedere della trama vedremo Makoto (l'anima) maturare, acquisendo maggior consapevolezza di sé, fino a giungere al finale, scontato ma necessario, che costituirà la prova della sua crescita.
I personaggi incontrati dall'anima sono senza dubbio il punto di forza dell'opera. Tutti caratterizzati con grande realismo, tra di essi spiccano la madre di Makoto e Kuwabara Hiroka, la ragazza di cui Makoto è innamorato. Entrambe ottimamente caratterizzate nelle loro rispettive problematiche, dal tradimento operato dalla madre nei confronti del padre, con rispettivi sensi di colpa e depressione, al "particolare" rapporto di Hiroka con il proprio corpo (vendere prestazioni sessuali per comprarsi accessori e vestiti alla moda). Meno interessanti ma ugualmente ben delineati sono: Shouko Sano, "strana" compagna di classe di Makoto, Saotome, unico amico del ragazzo, il fratello, il padre stacanovista e, in ultimo, Purapura, la scontrosa guida ultraterrena dell'anima.
Ottimo è il livello dell'animazione che, grazie alla grande attenzione rivolta alle espressioni e movenze dei vari personaggi e fondali e al character design, vicino alle reali proporzioni (giapponesi) di viso e corpo, rendono "Colorful" una gioia per gli occhi senza però allontanarsi dal realismo, di personaggi e ambientazione, che lo contraddistingue.
Nulla da eccepire sul fronte sonoro che, pur non essendo eccelso quanto l'animazione, svolge dignitosamente il suo ruolo.
Consigliato quindi a tutti gli amanti degli slice of life "seri" e a chi è in grado di apprezzare un'opera per la sua normalità e semplicità (che non diventa mai superficialità). Sconsigliato, ovviamente, a chi cerca azione/scontri o un susseguirsi di colpi di scena, poiché qui non ne troverà.
Trama: 8/10; lineare e lenta ma gradevole, subordinata ai personaggi.
Personaggi: 9/10; realistici e ottimamente caratterizzati.
Animazione: 9/10; alta qualità e attenzione al dettaglio.
Sonoro: 7/10; nulla di speciale ma svolge il suo compito.
Non ho mai incontrato un'opera d'animazione con un'introduzione talmente d'impatto, talmente predominante sull'intero lungometraggio. A parte ciò, "Colorful" si presenta come ottimo prodotto anche per una narrazione fluida tanto quanto la sua grafica, per personaggi realistici nella loro varietà e caratterizzazione psicologica.
Abbandonare il samsara, essere annichiliti dall'esistenza, dal futuro, dalla carne, sarebbe un tema che il Poeta marchigiano avrebbe apprezzato, qualora l'avesse conosciuto. Avrebbe anch'egli deciso di rifiutare la ridiscesa nel corpo?
Oppure avrebbe accettato una nuova possibilità di redenzione e di progresso? La questione è futile, perché al protagonista di "Colorful" questa scelta non ponesi, essendo obbligato a ottemperare la seconda.
Non so se esista, nella filosofia buddhista e/o indiana, una qualche teoria riguardo all'abitazione momentanea di un corpo estraneo da parte di un'anima, resta il fatto che la cosa mi ha affascinato. Quest'anima non conosce alcunché del suo passato, sa solo di essere peccatrice, di dovere ricordare i propri peccati vivendo momentaneamente in questo corpo, tra le persone che con questo corpo terzo solevano avere rapporti più o meno intimi giorno dopo giorno.
L'anima viene aiutata, le viene raccontato il passato della sua nuova casa, come s'è "svuotata" dall'inquilino precedente, chi sono i parenti e gli amici, qualora vi siano. Cosa fare, però, nel momento in cui la nuova anima, vivendo nel contesto che ha portato la vecchia anima che quella carne abitava al fatal passo, incontra tutte quelle piccole e grandi battaglie da cui quest'ultima è stata sopraffatta? Si instaurano quasi come una spada di Damocle sul suo capo, pronte a ristrapparla a pezzi.
Come coabitare con chi t'ha portato al suicidio? Come andare a scuola incontrando chi t'ha portato al suicidio?
Peccato per un finale lapalissiano e quindi banale, anche se banale, secondo me, la maggior parte del film non è stata, ma, anzi, sempre intensa e capace di fare comprendere i pensieri e le emozioni basandosi soprattutto sugli sguardi. È d'altronde anche comprensibile che la tensione costante presente si sarebbe dovuta disperdere in qualcosa, come un pianto liberatorio, che però porta con sé anche un po' di equilibratura, di normalità e quindi banalità.
Inutile dire che, a parte ciò, trovo l'opera meravigliosa, ispiratrice e profondamente artistica.
Abbandonare il samsara, essere annichiliti dall'esistenza, dal futuro, dalla carne, sarebbe un tema che il Poeta marchigiano avrebbe apprezzato, qualora l'avesse conosciuto. Avrebbe anch'egli deciso di rifiutare la ridiscesa nel corpo?
Oppure avrebbe accettato una nuova possibilità di redenzione e di progresso? La questione è futile, perché al protagonista di "Colorful" questa scelta non ponesi, essendo obbligato a ottemperare la seconda.
Non so se esista, nella filosofia buddhista e/o indiana, una qualche teoria riguardo all'abitazione momentanea di un corpo estraneo da parte di un'anima, resta il fatto che la cosa mi ha affascinato. Quest'anima non conosce alcunché del suo passato, sa solo di essere peccatrice, di dovere ricordare i propri peccati vivendo momentaneamente in questo corpo, tra le persone che con questo corpo terzo solevano avere rapporti più o meno intimi giorno dopo giorno.
L'anima viene aiutata, le viene raccontato il passato della sua nuova casa, come s'è "svuotata" dall'inquilino precedente, chi sono i parenti e gli amici, qualora vi siano. Cosa fare, però, nel momento in cui la nuova anima, vivendo nel contesto che ha portato la vecchia anima che quella carne abitava al fatal passo, incontra tutte quelle piccole e grandi battaglie da cui quest'ultima è stata sopraffatta? Si instaurano quasi come una spada di Damocle sul suo capo, pronte a ristrapparla a pezzi.
Come coabitare con chi t'ha portato al suicidio? Come andare a scuola incontrando chi t'ha portato al suicidio?
Peccato per un finale lapalissiano e quindi banale, anche se banale, secondo me, la maggior parte del film non è stata, ma, anzi, sempre intensa e capace di fare comprendere i pensieri e le emozioni basandosi soprattutto sugli sguardi. È d'altronde anche comprensibile che la tensione costante presente si sarebbe dovuta disperdere in qualcosa, come un pianto liberatorio, che però porta con sé anche un po' di equilibratura, di normalità e quindi banalità.
Inutile dire che, a parte ciò, trovo l'opera meravigliosa, ispiratrice e profondamente artistica.
Lo Studio Sunrise è famoso per avere prodotto alcuni dei capisaldi dell'animazione Giapponese, quali: 'Gundam', 'Macross' e 'Cowboy Bebop'. Negli ultimi anni però, Sunrise ha deluso, realizzando prodotti di mediocre qualità.
Con 'Colorful', questo studio torna all'animazione matura, per un film tratto dal romanzo di Eto Mori, che affronta tematiche quali: l'accettazione di se stessi, il confronto con la realtà e il rapporto conflittuale, ma allo stesso tempo identificativo con i genitori.
La storia racconta l'avventura di un'anima "perduta", che viene incarnata nel corpo di Kobayashi Makoto, un quattordicenne che ha tentato il suicidio. L'anima, dovrà superare una sorta di esame per potere rinascere.
Come già detto, il film tratta temi forti; lo fa, a volte, con troppa semplicità, ma anche con molta naturalezza e delicatezza.
Dal punto di vista tecnico Colorful non è nulla di straordinario, anche se vanta un bel character design, semplice e tondeggiante, che ricorda vagamente lo stile di Tezuka, e ottimi fondali molto realistici.
Piena di sostanza la sceneggiatura, che alterna momenti di calma ad altri drammatici.
In definitiva, 'Colorful' è un ottimo film che lancia un messaggio chiaro: siamo composti da mille colori, come un dipinto, e dobbiamo accettarci per ciò che siamo, nel bene e nel male.
Vincitore del premio (2010) Mention Spéciale Prix du public al Festival di Annecy e del Prix du public.
Con 'Colorful', questo studio torna all'animazione matura, per un film tratto dal romanzo di Eto Mori, che affronta tematiche quali: l'accettazione di se stessi, il confronto con la realtà e il rapporto conflittuale, ma allo stesso tempo identificativo con i genitori.
La storia racconta l'avventura di un'anima "perduta", che viene incarnata nel corpo di Kobayashi Makoto, un quattordicenne che ha tentato il suicidio. L'anima, dovrà superare una sorta di esame per potere rinascere.
Come già detto, il film tratta temi forti; lo fa, a volte, con troppa semplicità, ma anche con molta naturalezza e delicatezza.
Dal punto di vista tecnico Colorful non è nulla di straordinario, anche se vanta un bel character design, semplice e tondeggiante, che ricorda vagamente lo stile di Tezuka, e ottimi fondali molto realistici.
Piena di sostanza la sceneggiatura, che alterna momenti di calma ad altri drammatici.
In definitiva, 'Colorful' è un ottimo film che lancia un messaggio chiaro: siamo composti da mille colori, come un dipinto, e dobbiamo accettarci per ciò che siamo, nel bene e nel male.
Vincitore del premio (2010) Mention Spéciale Prix du public al Festival di Annecy e del Prix du public.
'Colorful', colorato, ci insegna che nel corso della nostra vita non possiamo vedere tutto in bianco e nero, fare la lista dei buoni e dei cattivi, ma doppiamo imparare a vedere le sfumature di colore in ogni situazione e in ogni individuo, infatti lo stesso anime ci rivela una perla di saggezza: "Gli uomini non sono fatti di un singolo colore, ma da un variegato numero di essi". Quindi la difficoltà della vita è riuscire ad apprezzare i vari colori di cui è composta e capire quali sono i colori che ci rappresentano.
Il rapporto con i colori di un giovane pittore delle superiori è molto controverso, ha indole artistica, e perciò è anche molto sensibile e impressionabile dal mondo, che gli sembra tutto nero, tanto da portarlo al suicidio. Così la storia comincia quando un'anima peccatrice vince "la lotteria celeste", e, per espiare le sue colpe nonché riacquisire le sue memorie, viene reincarnata proprio nel giovane suicida. L'anima non sa nulla del ragazzo e dei motivi per cui ha compiuto questo gesto estremo; ma man mano si adatterà alla sua nuova esistenza e, con l'aiuto di un "angelo guida", scoprirà i motivi del malessere e con esso alcuni vizi della società moderna, che ne sono la concausa.
Notiamo molti stereotipi e degenerazioni della società nipponica: i giapponesi hanno una smodata passione per il flamenco, ballo gitano travolgente, che diviene sempre più una valvola di sfogo in una società troppo rigida e impostata. Qui il flamenco funge da fuga per uno dei personaggi, ma finisce per guastare i rapporti interpersonali. Viene poi rappresentata la brutta piaga delle studentesse liceali che vendono il proprio corpo nei love hotel, per comprarsi abiti e accessori griffati o togliersi dei futili capricci; incontriamo anche il tema del marito hataraki, che fa orari impossibili a lavoro, ed è sempre assente; ancora assistiamo al dissesto del nucleo famigliare, in cui regna la mancanza di comunicazione, un paradosso nella società in cui invece sono tutti collegati. Non ultimo è presente il tema del disagio degli adolescenti a scuola, che a volte si concreta nella difficoltà d'inserimento nel gruppo di compagni, ma non solo quello, perché indubbiamente il tema principale è quello del suicidio degli adolescenti, un problema sempre più diffuso in Giappone, e comunque nei paesi avanzati, e i motivi che lo causano sono molteplici.
Quest'anime, dopo averci mostrato tante fosche realtà, illumina la via con una speranza: vi è possibilità di redenzione, attraverso la comprensione, può arrivare il perdono; e la redenzione per un suicida sta nell'abbracciare la vita nella sua interezza, in tutte le sue sfumature di colore.
Il rapporto con i colori di un giovane pittore delle superiori è molto controverso, ha indole artistica, e perciò è anche molto sensibile e impressionabile dal mondo, che gli sembra tutto nero, tanto da portarlo al suicidio. Così la storia comincia quando un'anima peccatrice vince "la lotteria celeste", e, per espiare le sue colpe nonché riacquisire le sue memorie, viene reincarnata proprio nel giovane suicida. L'anima non sa nulla del ragazzo e dei motivi per cui ha compiuto questo gesto estremo; ma man mano si adatterà alla sua nuova esistenza e, con l'aiuto di un "angelo guida", scoprirà i motivi del malessere e con esso alcuni vizi della società moderna, che ne sono la concausa.
Notiamo molti stereotipi e degenerazioni della società nipponica: i giapponesi hanno una smodata passione per il flamenco, ballo gitano travolgente, che diviene sempre più una valvola di sfogo in una società troppo rigida e impostata. Qui il flamenco funge da fuga per uno dei personaggi, ma finisce per guastare i rapporti interpersonali. Viene poi rappresentata la brutta piaga delle studentesse liceali che vendono il proprio corpo nei love hotel, per comprarsi abiti e accessori griffati o togliersi dei futili capricci; incontriamo anche il tema del marito hataraki, che fa orari impossibili a lavoro, ed è sempre assente; ancora assistiamo al dissesto del nucleo famigliare, in cui regna la mancanza di comunicazione, un paradosso nella società in cui invece sono tutti collegati. Non ultimo è presente il tema del disagio degli adolescenti a scuola, che a volte si concreta nella difficoltà d'inserimento nel gruppo di compagni, ma non solo quello, perché indubbiamente il tema principale è quello del suicidio degli adolescenti, un problema sempre più diffuso in Giappone, e comunque nei paesi avanzati, e i motivi che lo causano sono molteplici.
Quest'anime, dopo averci mostrato tante fosche realtà, illumina la via con una speranza: vi è possibilità di redenzione, attraverso la comprensione, può arrivare il perdono; e la redenzione per un suicida sta nell'abbracciare la vita nella sua interezza, in tutte le sue sfumature di colore.
Trama
La storia parla di un anima che, sul punto di reincarnarsi, viene scelta da un'estrazione casuale indetta dal "creatore" per avere una possibilità di redimersi dai peccati commessi in vita. Anche se a primo avviso l'anima si presenta svogliata e demotivata, con il susseguirsi degli eventi prende coscienza dell'importanza della vita e ricorda i peccati commessi precedentemente.
Commento
Che dire, trovo 'Colorful' un lungometraggio con i fiocchi. E' da tempo che non visionavo un film di tale bellezza e tale profondità di contenuti. L'opera sviluppa soprattutto i lati negativi della vita, come la solitudine, la tristezza e il dolore provocato dall'amore. E sì, potrei dire che il fulcro della vicenda è imperniato su questo sentimento, che, nonostante mi faccia sentire oppresso e male per il protagonista, ogni volta mi affascina irrimediabilmente.
Lo so che i lungometraggi non piacciono a molti di voi, ma lasciate che vi dica una cosa, l'emozione suscitata da questo film è stata inferiore solo a quella che ho provato per 'Death Note'. E io ne ho visti più di 200, di anime, quindi ne consiglio la visione.
La storia parla di un anima che, sul punto di reincarnarsi, viene scelta da un'estrazione casuale indetta dal "creatore" per avere una possibilità di redimersi dai peccati commessi in vita. Anche se a primo avviso l'anima si presenta svogliata e demotivata, con il susseguirsi degli eventi prende coscienza dell'importanza della vita e ricorda i peccati commessi precedentemente.
Commento
Che dire, trovo 'Colorful' un lungometraggio con i fiocchi. E' da tempo che non visionavo un film di tale bellezza e tale profondità di contenuti. L'opera sviluppa soprattutto i lati negativi della vita, come la solitudine, la tristezza e il dolore provocato dall'amore. E sì, potrei dire che il fulcro della vicenda è imperniato su questo sentimento, che, nonostante mi faccia sentire oppresso e male per il protagonista, ogni volta mi affascina irrimediabilmente.
Lo so che i lungometraggi non piacciono a molti di voi, ma lasciate che vi dica una cosa, l'emozione suscitata da questo film è stata inferiore solo a quella che ho provato per 'Death Note'. E io ne ho visti più di 200, di anime, quindi ne consiglio la visione.
Che accadrebbe se dormiste? E se, mentre state dormendo, sognaste? E se, nel vostro sogno, vi ritrovaste in paradiso e coglieste uno strano e bellissimo fiore? E se, quando vi sveglierete, vi ritrovaste quel fiore tra le mani? Che cosa fareste allora? [S. T. Coleridge]
Colpevole di un peccato di cui non ricorda più nulla, stanco della vita mondana, uno spirito giunge in un luogo buio e dai colori spenti. Assieme a lui ci sono molti altri viaggiatori: sono in fila davanti a un botteghino e stanno acquistando un biglietto. Lenti e apatici, i possessori di quel lasciapassare si dirigono verso una porta oltre la quale c'è solo il buio. È ciò che desidera. L'oscurità, la notte eterna. Fa per mettersi in coda anche lui assieme agli altri, ma un ragazzino lo ferma. Gli dice che ha vinto una specie di lotteria e il premio è potere avere un'altra occasione, un'altra vita sulla Terra.
"Rifiuto il premio" gli dice lo spirito. "Né tu né io possiamo rifiutare."
"Colourful" è la storia di un'anima, la storia della sua redenzione. Un film delicato che racconta la battaglia per la vita del protagonista e gli innumerevoli ostacoli che, minacciosi e apparentemente insormontabili, incombono su di lui a ogni passo. La trama in effetti ricorda per diversi aspetti "Un cielo radioso" di Jiro Taniguchi, anche se le condizioni in cui si ritrova a dovere vivere Makoto, questo il nome del ragazzo in cui lo spirito rinascerà, sono molto più estreme. Niente amici, pessimi voti a scuola, la ragazza di cui è segretamente innamorato che non è poi così pura, il tradimento della madre e infine il tentato suicidio. E nondimeno il tutto è presentato in maniera realistica, senza eccessive esagerazioni o buonismo di sorta, senonché il finale poteva essere gestito un po' meglio. Certo era piuttosto palese che la vicenda sarebbe andata a finire in una maniera del genere - anche solo leggendo il titolo lo si capisce - eppure una leggera insoddisfazione per un finale così "classico" non ne vuole sapere di abbandonarmi, specialmente dopo il magnifico incipit con cui il lungometraggio era iniziato.
Con questo non voglio assolutamente dire che sia forzato, tutt'altro. Ogni personaggio che compare sullo schermo è caratterizzato in maniera credibile e per questo non sorprende che la piega degli eventi prenda una determinata direzione. Insomma non aspettatevi sorprese da questo versante perché non ne avrete. E tuttavia durante la visione non se ne sente alcun bisogno. Tutti gli attori di questa commedia sanno recitare il ruolo alla perfezione e, seppure per l'intera durata del film il ruolo di protagonista non venga mai sottratto a Makoto, in certi momenti alcuni comprimari risultano davvero notevoli. Basti pensare alla madre del ragazzo, tormentata e distrutta dal senso di colpa, oppure alla sua insolita guida, misteriosa e oltremodo indisponente.
Dal punto di vista tecnico "Colourful" è realizzato magnificamente, alcuni fondali sono una vera gioia per gli occhi, le animazioni molto fluide e i disegni più che buoni. Nella parte centrale, che tratta dell'antica linea ferroviaria Shibuya-Futako-Tamagawa, sono inoltre state inserite delle foto del vecchio convoglio. Oltre a inserirsi perfettamente tra narrazione e scene animate, riuscendo nell'impresa di creare un'atmosfera molto suggestiva, queste ultime mettono in risalto anche il tema del viaggio, da lungo tempo diventato una metafora del cammino attraverso la vita e in questo caso particolare anche il punto di svolta dell'intera vicenda.
Se è vero questo bisogna però anche dire che la colonna sonora non fa molto per sottolineare i momenti salienti della storia e risulta, fatta eccezione per pochi brani, piuttosto anonima.
In conclusione "Colourful" si rivela essere un ottimo slice of life, che sa trattare temi profondi in maniera delicata e allo stesso tempo essere leggero e spensierato. E' una storia di formazione, come se ne vedono tante, eppure in grado di ammaliare lo spettatore, di farsi vedere fino alla fine senza mai annoiare. Una meravigliosa celebrazione del lirismo della quotidianità.
Colpevole di un peccato di cui non ricorda più nulla, stanco della vita mondana, uno spirito giunge in un luogo buio e dai colori spenti. Assieme a lui ci sono molti altri viaggiatori: sono in fila davanti a un botteghino e stanno acquistando un biglietto. Lenti e apatici, i possessori di quel lasciapassare si dirigono verso una porta oltre la quale c'è solo il buio. È ciò che desidera. L'oscurità, la notte eterna. Fa per mettersi in coda anche lui assieme agli altri, ma un ragazzino lo ferma. Gli dice che ha vinto una specie di lotteria e il premio è potere avere un'altra occasione, un'altra vita sulla Terra.
"Rifiuto il premio" gli dice lo spirito. "Né tu né io possiamo rifiutare."
"Colourful" è la storia di un'anima, la storia della sua redenzione. Un film delicato che racconta la battaglia per la vita del protagonista e gli innumerevoli ostacoli che, minacciosi e apparentemente insormontabili, incombono su di lui a ogni passo. La trama in effetti ricorda per diversi aspetti "Un cielo radioso" di Jiro Taniguchi, anche se le condizioni in cui si ritrova a dovere vivere Makoto, questo il nome del ragazzo in cui lo spirito rinascerà, sono molto più estreme. Niente amici, pessimi voti a scuola, la ragazza di cui è segretamente innamorato che non è poi così pura, il tradimento della madre e infine il tentato suicidio. E nondimeno il tutto è presentato in maniera realistica, senza eccessive esagerazioni o buonismo di sorta, senonché il finale poteva essere gestito un po' meglio. Certo era piuttosto palese che la vicenda sarebbe andata a finire in una maniera del genere - anche solo leggendo il titolo lo si capisce - eppure una leggera insoddisfazione per un finale così "classico" non ne vuole sapere di abbandonarmi, specialmente dopo il magnifico incipit con cui il lungometraggio era iniziato.
Con questo non voglio assolutamente dire che sia forzato, tutt'altro. Ogni personaggio che compare sullo schermo è caratterizzato in maniera credibile e per questo non sorprende che la piega degli eventi prenda una determinata direzione. Insomma non aspettatevi sorprese da questo versante perché non ne avrete. E tuttavia durante la visione non se ne sente alcun bisogno. Tutti gli attori di questa commedia sanno recitare il ruolo alla perfezione e, seppure per l'intera durata del film il ruolo di protagonista non venga mai sottratto a Makoto, in certi momenti alcuni comprimari risultano davvero notevoli. Basti pensare alla madre del ragazzo, tormentata e distrutta dal senso di colpa, oppure alla sua insolita guida, misteriosa e oltremodo indisponente.
Dal punto di vista tecnico "Colourful" è realizzato magnificamente, alcuni fondali sono una vera gioia per gli occhi, le animazioni molto fluide e i disegni più che buoni. Nella parte centrale, che tratta dell'antica linea ferroviaria Shibuya-Futako-Tamagawa, sono inoltre state inserite delle foto del vecchio convoglio. Oltre a inserirsi perfettamente tra narrazione e scene animate, riuscendo nell'impresa di creare un'atmosfera molto suggestiva, queste ultime mettono in risalto anche il tema del viaggio, da lungo tempo diventato una metafora del cammino attraverso la vita e in questo caso particolare anche il punto di svolta dell'intera vicenda.
Se è vero questo bisogna però anche dire che la colonna sonora non fa molto per sottolineare i momenti salienti della storia e risulta, fatta eccezione per pochi brani, piuttosto anonima.
In conclusione "Colourful" si rivela essere un ottimo slice of life, che sa trattare temi profondi in maniera delicata e allo stesso tempo essere leggero e spensierato. E' una storia di formazione, come se ne vedono tante, eppure in grado di ammaliare lo spettatore, di farsi vedere fino alla fine senza mai annoiare. Una meravigliosa celebrazione del lirismo della quotidianità.
Le tante sfaccettature della vita hanno ognuna un colore proprio. Ecco perché il titolo "Colorful". Ma non sono solo la vita e la maniera in cui l'affrontiamo il tema portante di questo film. Si trattano anche temi comuni come la famiglia e l'amicizia, e temi più complessi come la morte (in particolare nell'ottica del suicidio) e la prostituzione minorile dando un'occhiata ad ampio raggio alla società giapponese odierna.
"Colorful", dal mio punto di vista, non è un'opera apprezzabile da tutti, è necessario un pizzico di maturità per riuscire a coglierne appieno le sfaccettature. L'ideale sarebbe vederlo senza sapere nulla della storia, senza essere intaccati da pregiudizi; ciò è fondamentale per potere essere travolti dalla carica emotiva di questo film.
Siamo di fronte a un lungometraggio che può essere definito come "umano" sotto ogni punto di vista; molti potrebbero rivedersi in alcuni dei personaggi di questa storia, perché sono persone normali come noi, e più volte potremmo trovarci d'accordo con le loro scelte.
Per quanto riguarda invece il resto, siamo di fronte a un prodotto qualitativamente eccezionale. Animazioni di ottimo livello, fluide e, soprattutto, colorate, come ovvio che sia. Anche il reparto sonoro non è da meno, alcuni dei brani sono così adeguati alle varie situazioni in cui si trova Makoto, quasi da far venire i brividi. Infine, la versione fansubbata in rete è realizzata in maniera pregevole, ma vi consiglio di applicarvi la patch per la V2 che corregge piccoli difettucci.
Raramente mi capita di vedere lungometraggi di simile bellezza, e questo è uno di quelli. Non esagero dicendo che se la gioca alla pari (uscendo anche vincitore a mio parere) con i capolavori dello Studio Ghibli, di Kon e Shinkai. Per me è un must. Spero arrivi presto nel nostro paese per potere permettere a tutti di usufruirne.
"Colorful", dal mio punto di vista, non è un'opera apprezzabile da tutti, è necessario un pizzico di maturità per riuscire a coglierne appieno le sfaccettature. L'ideale sarebbe vederlo senza sapere nulla della storia, senza essere intaccati da pregiudizi; ciò è fondamentale per potere essere travolti dalla carica emotiva di questo film.
Siamo di fronte a un lungometraggio che può essere definito come "umano" sotto ogni punto di vista; molti potrebbero rivedersi in alcuni dei personaggi di questa storia, perché sono persone normali come noi, e più volte potremmo trovarci d'accordo con le loro scelte.
Per quanto riguarda invece il resto, siamo di fronte a un prodotto qualitativamente eccezionale. Animazioni di ottimo livello, fluide e, soprattutto, colorate, come ovvio che sia. Anche il reparto sonoro non è da meno, alcuni dei brani sono così adeguati alle varie situazioni in cui si trova Makoto, quasi da far venire i brividi. Infine, la versione fansubbata in rete è realizzata in maniera pregevole, ma vi consiglio di applicarvi la patch per la V2 che corregge piccoli difettucci.
Raramente mi capita di vedere lungometraggi di simile bellezza, e questo è uno di quelli. Non esagero dicendo che se la gioca alla pari (uscendo anche vincitore a mio parere) con i capolavori dello Studio Ghibli, di Kon e Shinkai. Per me è un must. Spero arrivi presto nel nostro paese per potere permettere a tutti di usufruirne.