Rurouni Kenshin
Hitokiri Battosai è ormai scomparso da 10 anni. Dopo aver compiuto la sua missione ha deciso di vivere nel modo più tranquillo possibile, portandosi dietro il peso di tutti gli omicidi che ha compiuto. Il periodo della guerra è ormai finito, purtroppo però, c'è chi non riesce a vivere nella pace assoluta e decide di sfruttare questo momento per far fiorire un nuovo business, lo spaccio dell'oppio. Costui si chiama Takeda Kanryu ed assolderà delle guardie del corpo che avranno il compito di coprirlo dalla Shinsengumi, ma proprio uno di questi è un sopravvissuto della vecchia era e vendicarsi di Battosai è il suo chiodo fisso. Da qui entrerà in azione Kenshin pur inizialmente non volendolo e sarà lui ha risolvere la facenda con la sua spada.
Il film in sé mi è piaciuto in alcuni frangenti, meno in altri. Soprattutto certe scene ho trovate lente e prevedibili, scontate. Non è un brutto film, anzi, però pensavo fosse meglio di così, invece il prodotto in sé è tutto un susseguirsi di avvenimenti lineari e scontati.
Il film in sé mi è piaciuto in alcuni frangenti, meno in altri. Soprattutto certe scene ho trovate lente e prevedibili, scontate. Non è un brutto film, anzi, però pensavo fosse meglio di così, invece il prodotto in sé è tutto un susseguirsi di avvenimenti lineari e scontati.
La storia di Rurouni Kenshin - Samurai Vagabondo conserva tuttora integro il suo fascino, anche a distanza di diversi anni dalla prima stesura dell'opera; è quindi tutto sommato soltanto legittimo chiedersi come mai tanta popolarità, su questo titolo, non avesse condotto ad un lungometraggio dal vivo già anni addietro.
Il progetto live-action è rientrato invece in quello più ampio dei festeggiamenti per il quindicennale dalla serie animata, che al di là di questo film stand-alone del 2012 ha ricompreso, tra le altre cose, una serie di OVA sul capitolo di Kyoto e un breve remake del manga denominato Cinema Version.
L’opera originale di Nobuhiro Watsuki è nient'altro che la rielaborazione in chiave shounen dei tragici avvenimenti storici che condussero il Giappone alla Restaurazione Meiji prima, e alla trasmigrazione nell'Era Moderna poi: forzata, rapida e non priva di strascichi.
E' certo una rilettura avventurosa, indirizzata idealmente più a un target di lettori adolescenti, piuttosto che ad un pubblico più maturo; per questo, e per quella componente di violenza propria dei fatti accaduti, Rurouni Kenshin non dovrebbe rientrare, a rigor di logica, tra le storie che più ritrovo consone ai miei gusti. Eppure essa è, al tempo stesso, la storia della coscienza di un uomo, con alle spalle un percorso di vita travagliato ma al tempo stesso affascinante e romantico.
A fronte della notizia dell'imminente live action tratto dal manga di Watsuki, pubblicato in Italia per Star Comics, serbavo diversi timori. Trasformare un manga in un lungometraggio, tanto più dal vivo, è spesso e volentieri un'operazione che genera più mormorii di scontento che soddisfazione, sia tra i fan che tra i semplici appassionati del genere: significa necessariamente introdurre dei cambiamenti, intervenire su qualcosa che difficilmente si ritiene migliorabile, e non perché l'opera rasenti la perfezione, quanto piuttosto perché apprezzata così com'era stata pensata originariamente.
Rurouni Kenshin offre tuttavia degli elementi che si prestano con facilità allo scopo: un'appassionata storia di 'cappa e spada' al limite della tragedia, uno sfondo storico affascinante, personaggi il cui carisma non risente dello scorrere del tempo.
L'intreccio originale di Watsuki è stato certamente rielaborato: non troppo, ma nemmeno troppo poco. Eppure per quanto sia assente lo straordinario arco degli Oniwabanshu, la storia narrata di per sé non ne soffre in maniera eccessiva. Le vicende dei primi quattro volumi del manga vengono così ben riassunte in un incastro ex novo, il cui sviluppo non risulta essere affrettato né incoerente, né lascia la percezione che troppi elementi siano stati abbandonati per strada.
La sceneggiatura è riuscita nell'intento di includere nell'intreccio tutto ciò che era necessario inserire, e mai s'insinua la sensazione che 'manchi qualcosa' o, peggio, di incoerenti buchi narrativi. Tutto si colloca, tutto trova il proprio spazio.
Apprezzabile è anche l'inserimento silenzioso di brevi comparse di personaggi comprimari, forse invisibili ad un pubblico neofita, ma che i fan della serie riconoscono a colpo d'occhio.
La figura di Kenshin Himura è impeccabile: Takeru Sato non ha dovuto faticare alcunché per restituire allo spadaccino i suoi delicati lineamenti, ed è inoltre riuscito con abilità a renderne tangibili le varie sfumature espressive, sia nel viso che nella voce, alternando il gentile ‘rurouni’ vagabondo al freddo assassino dalla voce roca, gelida e irriconoscibile.
L'indecifrabile uomo diviso tra il passato, il presente e il suo conflitto interiore è dotato, per stessa ammissione di Watsuki, di una bellezza neutra, non esattamente femminea, che si estende fino a travalicare i sessi. A ben vedere infatti Sato conserva della ruvidezza nei tratti, ed è molto apprezzabile quanto della sua stessa statura ed esile corporatura trasmigri in Kenshin. E, di nuovo, anche quest'aspetto sembra quasi paradossale, perché non c'è scena di spada che non lasci a bocca aperta, per così tanta e sottile forza celata in un corpo così minuto.
Teatrali, certamente, gli svariati combattimenti di arti marziali, eppure mai eccessivi, mai danno l'impressione di rasentare l'assurdità agli occhi dello spettatore.
Splendida la resa di Sanosuke e della sua spiccata e ingenua irruenza, parimenti ben fatta quella di Megumi Takani: malgrado le variazioni apportate alla storia, rimane invariato ed evidente il desiderio di questo personaggio di sfuggire al destino che l'ha intrappolato in una vita di indesiderate costrizioni.
Il piccolo Yahiko non risalta più di tanto ma la sua figura ha il pregio di essere tanto semplice quanto immediata; il profilo di Kanryu Takeda viene modificato solo dal punto di vista della rappresentazione fisica, così che non si fatica a coglierne l’animo corrotto in tutte le sue sfumature.
Ed infine Jinne, che spicca tra tutti con una preponderanza che ritengo davvero meritata.
A perderci sono, a mio parere, solo due personaggi: da un lato Kaoru, bella, dolce e materna al punto di aver slavato un ruvido lato tsundere non indifferente nella figura originale di Watsuki. Dall'altro Hajime Saito, in una caratterizzazione forse un po' troppo buonista, affascinante e filo-governativa, a scapito del lugubre tormento interiore di contestatore sociale e di spia, che tanto ha reso quest'uomo uno dei personaggi di Watsuki tra i più amati di sempre.
E poi come non parlare degli accostamenti cromatici, dei dialoghi, dei costumi e della colonna sonora: in questo film niente è lasciato al caso, così che i fruitori dell'opera originale non possono non riconoscere le stesse identiche battute pronunciate nel manga, e magari realizzare anche che le tinte dominanti dell'intero film sono tutti i toni del mattone, del rossiccio, dell'indaco e dell'oltremare, colori che assai più spesso di altri sono associati alle illustrazioni di Kenshin e al suo inconfondibile kimono rosso o blu. La ricostruzione storica del periodo Meiji è piacevole alla vista, in una miscela di vestiario occidentale e orientale che mai come in quell’era particolare vedeva i suoi albori.
Accattivante e malinconico l'accenno, nemmeno troppo velato, al segreto legato alla cicatrice a forma di croce; altrettanto calzante il nastro blu che Kaoru indossa in chiusura, forse rimando al celebre capitolo del manga, e l'uso di alcuni termini giapponesi desueti, onorifici o meno, legati al gergo un po' rude della casta dei samurai.
La colonna sonora strumentale, di altrettanto chiaro stampo nipponico classico, si propone di accogliere con eleganza l'azione, il ritmo e le sequenze sia dinamiche che più pacate del film, e ben ci riesce. Decisa è anche l'impronta lasciata da “The Beginning”, il tema principale cantato dalla band in ascesa One OK Rock: si tratta di una scelta davvero intelligente ed azzeccata in quanto il mix di lingua inglese e giapponese tipico di questo gruppo rock si pone qui come un evocativo ponte tra due mondi, ben rispecchiando la rappresentazione di un’epoca letteralmente spaccata a metà tra un passato di tradizioni e un futuro di stampo occidentale perlopiù americano.
Tra le altre cose, anche l'accostamento di una band giovane e moderna a un titolo come Rurouni Kenshin conferma di nuovo quanta freschezza ci sia ancora in un'opera che ha già superato i vent'anni di vita, ma non sente nemmeno un acciacco.
Grazie poi ad un buon bilanciamento tra scene narrative e momenti d'azione ad alto tasso di incrocio di lame, il risultato è di ottimo equilibrio per un prodotto confezionato con un intento evidente e una cura minuziosa, tale da soddisfare le esigenze di svariate tipologie di pubblico e compiacere su più livelli, ma non senza un'adeguata consistenza di fondo.
Non a caso, a distanza di breve tempo dal suo rilascio, il primo film ha preannunciato non un solo seguito, bensì due titoli gemelli incentrati sull'amatissima saga di Kyoto, usciti al cinema a fine estate 2014 e sostenuti da una campagna mediatica a dir poco colossale con cui Warner Bros ha coperto l'intera Asia. I risultati al botteghino, poi, non si sono fatti attendere.
Peccato che Rurouni Kenshin duri solo un paio di orette. Averne più spesso, di film così.
Il progetto live-action è rientrato invece in quello più ampio dei festeggiamenti per il quindicennale dalla serie animata, che al di là di questo film stand-alone del 2012 ha ricompreso, tra le altre cose, una serie di OVA sul capitolo di Kyoto e un breve remake del manga denominato Cinema Version.
L’opera originale di Nobuhiro Watsuki è nient'altro che la rielaborazione in chiave shounen dei tragici avvenimenti storici che condussero il Giappone alla Restaurazione Meiji prima, e alla trasmigrazione nell'Era Moderna poi: forzata, rapida e non priva di strascichi.
E' certo una rilettura avventurosa, indirizzata idealmente più a un target di lettori adolescenti, piuttosto che ad un pubblico più maturo; per questo, e per quella componente di violenza propria dei fatti accaduti, Rurouni Kenshin non dovrebbe rientrare, a rigor di logica, tra le storie che più ritrovo consone ai miei gusti. Eppure essa è, al tempo stesso, la storia della coscienza di un uomo, con alle spalle un percorso di vita travagliato ma al tempo stesso affascinante e romantico.
A fronte della notizia dell'imminente live action tratto dal manga di Watsuki, pubblicato in Italia per Star Comics, serbavo diversi timori. Trasformare un manga in un lungometraggio, tanto più dal vivo, è spesso e volentieri un'operazione che genera più mormorii di scontento che soddisfazione, sia tra i fan che tra i semplici appassionati del genere: significa necessariamente introdurre dei cambiamenti, intervenire su qualcosa che difficilmente si ritiene migliorabile, e non perché l'opera rasenti la perfezione, quanto piuttosto perché apprezzata così com'era stata pensata originariamente.
Rurouni Kenshin offre tuttavia degli elementi che si prestano con facilità allo scopo: un'appassionata storia di 'cappa e spada' al limite della tragedia, uno sfondo storico affascinante, personaggi il cui carisma non risente dello scorrere del tempo.
L'intreccio originale di Watsuki è stato certamente rielaborato: non troppo, ma nemmeno troppo poco. Eppure per quanto sia assente lo straordinario arco degli Oniwabanshu, la storia narrata di per sé non ne soffre in maniera eccessiva. Le vicende dei primi quattro volumi del manga vengono così ben riassunte in un incastro ex novo, il cui sviluppo non risulta essere affrettato né incoerente, né lascia la percezione che troppi elementi siano stati abbandonati per strada.
La sceneggiatura è riuscita nell'intento di includere nell'intreccio tutto ciò che era necessario inserire, e mai s'insinua la sensazione che 'manchi qualcosa' o, peggio, di incoerenti buchi narrativi. Tutto si colloca, tutto trova il proprio spazio.
Apprezzabile è anche l'inserimento silenzioso di brevi comparse di personaggi comprimari, forse invisibili ad un pubblico neofita, ma che i fan della serie riconoscono a colpo d'occhio.
La figura di Kenshin Himura è impeccabile: Takeru Sato non ha dovuto faticare alcunché per restituire allo spadaccino i suoi delicati lineamenti, ed è inoltre riuscito con abilità a renderne tangibili le varie sfumature espressive, sia nel viso che nella voce, alternando il gentile ‘rurouni’ vagabondo al freddo assassino dalla voce roca, gelida e irriconoscibile.
L'indecifrabile uomo diviso tra il passato, il presente e il suo conflitto interiore è dotato, per stessa ammissione di Watsuki, di una bellezza neutra, non esattamente femminea, che si estende fino a travalicare i sessi. A ben vedere infatti Sato conserva della ruvidezza nei tratti, ed è molto apprezzabile quanto della sua stessa statura ed esile corporatura trasmigri in Kenshin. E, di nuovo, anche quest'aspetto sembra quasi paradossale, perché non c'è scena di spada che non lasci a bocca aperta, per così tanta e sottile forza celata in un corpo così minuto.
Teatrali, certamente, gli svariati combattimenti di arti marziali, eppure mai eccessivi, mai danno l'impressione di rasentare l'assurdità agli occhi dello spettatore.
Splendida la resa di Sanosuke e della sua spiccata e ingenua irruenza, parimenti ben fatta quella di Megumi Takani: malgrado le variazioni apportate alla storia, rimane invariato ed evidente il desiderio di questo personaggio di sfuggire al destino che l'ha intrappolato in una vita di indesiderate costrizioni.
Il piccolo Yahiko non risalta più di tanto ma la sua figura ha il pregio di essere tanto semplice quanto immediata; il profilo di Kanryu Takeda viene modificato solo dal punto di vista della rappresentazione fisica, così che non si fatica a coglierne l’animo corrotto in tutte le sue sfumature.
Ed infine Jinne, che spicca tra tutti con una preponderanza che ritengo davvero meritata.
A perderci sono, a mio parere, solo due personaggi: da un lato Kaoru, bella, dolce e materna al punto di aver slavato un ruvido lato tsundere non indifferente nella figura originale di Watsuki. Dall'altro Hajime Saito, in una caratterizzazione forse un po' troppo buonista, affascinante e filo-governativa, a scapito del lugubre tormento interiore di contestatore sociale e di spia, che tanto ha reso quest'uomo uno dei personaggi di Watsuki tra i più amati di sempre.
E poi come non parlare degli accostamenti cromatici, dei dialoghi, dei costumi e della colonna sonora: in questo film niente è lasciato al caso, così che i fruitori dell'opera originale non possono non riconoscere le stesse identiche battute pronunciate nel manga, e magari realizzare anche che le tinte dominanti dell'intero film sono tutti i toni del mattone, del rossiccio, dell'indaco e dell'oltremare, colori che assai più spesso di altri sono associati alle illustrazioni di Kenshin e al suo inconfondibile kimono rosso o blu. La ricostruzione storica del periodo Meiji è piacevole alla vista, in una miscela di vestiario occidentale e orientale che mai come in quell’era particolare vedeva i suoi albori.
Accattivante e malinconico l'accenno, nemmeno troppo velato, al segreto legato alla cicatrice a forma di croce; altrettanto calzante il nastro blu che Kaoru indossa in chiusura, forse rimando al celebre capitolo del manga, e l'uso di alcuni termini giapponesi desueti, onorifici o meno, legati al gergo un po' rude della casta dei samurai.
La colonna sonora strumentale, di altrettanto chiaro stampo nipponico classico, si propone di accogliere con eleganza l'azione, il ritmo e le sequenze sia dinamiche che più pacate del film, e ben ci riesce. Decisa è anche l'impronta lasciata da “The Beginning”, il tema principale cantato dalla band in ascesa One OK Rock: si tratta di una scelta davvero intelligente ed azzeccata in quanto il mix di lingua inglese e giapponese tipico di questo gruppo rock si pone qui come un evocativo ponte tra due mondi, ben rispecchiando la rappresentazione di un’epoca letteralmente spaccata a metà tra un passato di tradizioni e un futuro di stampo occidentale perlopiù americano.
Tra le altre cose, anche l'accostamento di una band giovane e moderna a un titolo come Rurouni Kenshin conferma di nuovo quanta freschezza ci sia ancora in un'opera che ha già superato i vent'anni di vita, ma non sente nemmeno un acciacco.
Grazie poi ad un buon bilanciamento tra scene narrative e momenti d'azione ad alto tasso di incrocio di lame, il risultato è di ottimo equilibrio per un prodotto confezionato con un intento evidente e una cura minuziosa, tale da soddisfare le esigenze di svariate tipologie di pubblico e compiacere su più livelli, ma non senza un'adeguata consistenza di fondo.
Non a caso, a distanza di breve tempo dal suo rilascio, il primo film ha preannunciato non un solo seguito, bensì due titoli gemelli incentrati sull'amatissima saga di Kyoto, usciti al cinema a fine estate 2014 e sostenuti da una campagna mediatica a dir poco colossale con cui Warner Bros ha coperto l'intera Asia. I risultati al botteghino, poi, non si sono fatti attendere.
Peccato che Rurouni Kenshin duri solo un paio di orette. Averne più spesso, di film così.
Di live action ne ho visti a bizzeffe ed ultimamente ho cominciato ad evitarli per la classica paura dell'ennesima delusione, ma una persona deve pur cambiare, no? Quindi mi son detto: "riproviamo con Kenshin, il manga che ho amato da ragazzino e che mi ha fatto tanto sognare quando potevo"... Che dite, scelta azzardata? Forse si, ma fortunatamente la buona sorte è stata dalla mia parte (una volta tanto).
"Rurouni Kenshin", storia e disegni di Nobuhiro Watsuki, manga edito in Italia da Star Comics in 27 volumi ed opera soggetta ad un inaspettato rispolvero tra i recenti nuovi film animati, altro finale del manga ed appunto, il film in questione.
"Rurouni Kenshin" è uno shounen, ma inizialmente è tutt'altra cosa, chi conosce il manga già sa a cosa mi riferisco ed è proprio su questa prima parte che si concentra il film, ovvero ciò che riguarda la parte storica.
La trama ricalca quasi fedelmente proprio questa parte del manga: Hitokiri Battosai, colui che ha cambiato un'epoca, è ormai scomparso da 10 anni. Dopo aver compiuto la sua missione ha deciso di vivere nel modo più tranquillo possibile, portandosi dietro il peso di tutte le sue uccisioni. Il periodo della guerra è ormai finito, purtroppo però, c'è chi non riesce a vivere nella pace assoluta e decide di sfruttare questo momento per far fiorire un nuovo business: lo spaccio dell'oppio. Tale "essere" si chiama Takeda Kanryu ed assolderà delle guardie del corpo che avranno il compito di coprirlo dalla Shinsengumi, ma proprio uno di questi è un sopravvissuto della vecchia era e vendicarsi di Battosai è il suo chiodo fisso. Riuscirà quindi Jin-e a rompere il voto del nuovo Kenshin nel non uccidere più nessuno?
Comunque, a parte qualche piccola modifica alla trama originale, il film si regge bene unendo le scene di combattimento con quelle piatte, rendendo il tutto mai noioso ma piacevole.
E' inoltre interessante come Keishi Ōtomo abbia cercato di trasportare l'opera di Watsuki nel modo più storico possibile cercando di rendere più reale l'ambientazione e dando così più umanità ai personaggi.
Kenshin è più lineare in questo film, l'attore riesce perfettamente a cambiare espressione quando è Battosai (eliminando qualsiasi luce dagli occhi e mantenendo un'espressione accigliata) e quando è appunto il nuovo Kenshin (più solare ed estroverso).
Kaoru, Yahiko, Sanosuke, Megumi e Saito sono praticamente perfetti, l'unica pecca riguarda l'attore scelto per Kanryu, purtroppo l'aspetto fisico è ben diverso da quello del manga, ma riesce a compensare col suo grande carisma.
Le differenze con il manga sono molteplici: chi è abituato a vedere Kaoru sgridare Kenshin ogni cinque minuti, probabilmente si troverà un pò spaesato, ma fondamentalmente è comprensibile: in fondo sono due ore di film, direi insufficienti per inserirci qualche gag e rendere il tutto meno serio.
Un'altra nota è la rivelazione del segreto delle sue due cicatrici: in realtà il flashback si concentra solo su una di loro, mentre l'altra viene spiegata solo a voce, evitando di citare anche Tomoe... Molto probabilmente ci sarà un seguito.
Per concludere, posso dire che il film mi è piaciuto. Non mi azzardo a mettere 9 perchè fondamentalmente qualche pecca ce l'ha, però mi fatto tornare indietro nel tempo e sono sicuro che piacerà anche a coloro che Kenshin lo hanno solo sentito nominare.
"Rurouni Kenshin", storia e disegni di Nobuhiro Watsuki, manga edito in Italia da Star Comics in 27 volumi ed opera soggetta ad un inaspettato rispolvero tra i recenti nuovi film animati, altro finale del manga ed appunto, il film in questione.
"Rurouni Kenshin" è uno shounen, ma inizialmente è tutt'altra cosa, chi conosce il manga già sa a cosa mi riferisco ed è proprio su questa prima parte che si concentra il film, ovvero ciò che riguarda la parte storica.
La trama ricalca quasi fedelmente proprio questa parte del manga: Hitokiri Battosai, colui che ha cambiato un'epoca, è ormai scomparso da 10 anni. Dopo aver compiuto la sua missione ha deciso di vivere nel modo più tranquillo possibile, portandosi dietro il peso di tutte le sue uccisioni. Il periodo della guerra è ormai finito, purtroppo però, c'è chi non riesce a vivere nella pace assoluta e decide di sfruttare questo momento per far fiorire un nuovo business: lo spaccio dell'oppio. Tale "essere" si chiama Takeda Kanryu ed assolderà delle guardie del corpo che avranno il compito di coprirlo dalla Shinsengumi, ma proprio uno di questi è un sopravvissuto della vecchia era e vendicarsi di Battosai è il suo chiodo fisso. Riuscirà quindi Jin-e a rompere il voto del nuovo Kenshin nel non uccidere più nessuno?
Comunque, a parte qualche piccola modifica alla trama originale, il film si regge bene unendo le scene di combattimento con quelle piatte, rendendo il tutto mai noioso ma piacevole.
E' inoltre interessante come Keishi Ōtomo abbia cercato di trasportare l'opera di Watsuki nel modo più storico possibile cercando di rendere più reale l'ambientazione e dando così più umanità ai personaggi.
Kenshin è più lineare in questo film, l'attore riesce perfettamente a cambiare espressione quando è Battosai (eliminando qualsiasi luce dagli occhi e mantenendo un'espressione accigliata) e quando è appunto il nuovo Kenshin (più solare ed estroverso).
Kaoru, Yahiko, Sanosuke, Megumi e Saito sono praticamente perfetti, l'unica pecca riguarda l'attore scelto per Kanryu, purtroppo l'aspetto fisico è ben diverso da quello del manga, ma riesce a compensare col suo grande carisma.
Le differenze con il manga sono molteplici: chi è abituato a vedere Kaoru sgridare Kenshin ogni cinque minuti, probabilmente si troverà un pò spaesato, ma fondamentalmente è comprensibile: in fondo sono due ore di film, direi insufficienti per inserirci qualche gag e rendere il tutto meno serio.
Un'altra nota è la rivelazione del segreto delle sue due cicatrici: in realtà il flashback si concentra solo su una di loro, mentre l'altra viene spiegata solo a voce, evitando di citare anche Tomoe... Molto probabilmente ci sarà un seguito.
Per concludere, posso dire che il film mi è piaciuto. Non mi azzardo a mettere 9 perchè fondamentalmente qualche pecca ce l'ha, però mi fatto tornare indietro nel tempo e sono sicuro che piacerà anche a coloro che Kenshin lo hanno solo sentito nominare.
Ah, Kenshin, un nome che riporta nella mia mente tanti di quei ricordi adolescenziali estivi che mi permetto di commuovermi un attimo. Okay, a posto così.
"Kenshin - Samurai Vagabondo" (Rurouni Kenshin) è un manga degli anni '90 creato dal signor Nobuhiro Watsuki, celebre per essere stato - proprio in quel periodo - il maestro di Oda, Mishima e Takei, tre autori che dopo pochi anni se ne sarebbero venuti fuori con delle hit spaventose (uno di sicuro). In Italia abbiamo potuto goderne prima dal 1998 al 2000 su Express, mitica rivista della Star Comics, e poi dal 2001 al 2003 in monografico su 28 tankobon.
La storia è quella di Kenshin Himura, samurai vagabondo che si aggira per il Giappone del 1878 (agli albori del periodo Meiji) per espiare il suo passato di sangue, violenza e morte. Durante il suo peregrinare incontrerà Kaoru Kamiya, proprietaria di un dojo caduto in rovina a causa della malavita: Kenshin la aiuterà a rimettere in piedi la palestra e rimarrà al suo fianco per tutta la storia, con conseguente nascita dell'ammmore.
Se c'è una cosa che non era Kenshin, era l'essere un manga storico e di samurai: dopo un buon inizio infatti, Watsuki ha deciso di passare ad una narrazione più da videogame (scontri di vari boss), accompagnata da dialoghi, tecniche e personaggi al limite del puerile, come un bambino quando gioca con i pupazzetti. Se nei primi sette numeri il dramma di Kenshin (proteggere gli innocenti, sconfiggere gli avversari senza causare spargimenti di sangue) era intrigante e affrontato anche in maniera interessante, dall'ottavo in poi si è fatto di tutto per disperdere quanto di buono era stato fatto inizialmente, dando spazio a melensità varie (incarnate da Kaoru) e banalità. Dici "e vabbè, che pretendi da uno shonen?": pretendo un minimo di dignità, e che delle buone basi non vengano demolite da 21 numeri di niente.
Ma porca miseria, non siamo qui a recensire manga, bensì pellicole uscite al cinematografo (nel Bel Paese chiaramente nisba, nada). Quindi. Nel 2012 fa capolino nelle sale "Rurouni Kenshin", prodotto nientemeno che dalla Warner Bros, e diretto da Keishi Ohtomo, uno che ti dirige drama per tutta la carriera e poi decide di fare il grande salto al cinema adattando personalmente il materiale.
<b>Il seguente paragrafo contiene spoiler</b>
La trama è identica alla parte iniziale del fumetto (quella di Kanryu, per intendersi), se non per alcuni dettagli non di chissà quale rilevanza. Ciò che viene effettivamente cambiato è il modo di gestire misteri e identità: se nel fumetto tutto accade in medias-res, nel film viene spiattellata ogni cosa, senza possibilità di lasciarti un attimo sorpreso da questo o quel fatto. Esempio: nel manga non sappiamo nulla di Kenshin se non che è un samurai errante, ha una misteriosa cicatrice a forma di croce sulla guancia sinistra e che porta con se una sakabato (katana dalla lama invertita), mentre sul suo passato sappiamo ben poco; dovremo andare avanti con la lettura per scoprire che Kenshin è il leggendario hitokiri Battosai. Nel film lo veniamo a sapere praticamente nella sequenza iniziale ambientata nel 1868, alla conclusione del conflitto che pose fine allo shogunato Tokugawa.
E questo è solo un esempio. Nelle due ore e un quarto che compongono la pellicola, sappiamo tutto subito, chi è chi, cosa fa, il suo passato, eccetera. Una svista che crea un forte handicap al film, risultando spesso noioso e prolisso.
Ecco, a proposito di noia. Voglio dirvi che la parte centrale è la cosa più noiosa che abbia visto negli ultimi tempi. Mi sono appisolato con tanti film (di azione), ma questo è diverso, questo è qualcosa che va oltre, un film che annoia ma che non ti abbiocca, così sei costretto a vedere tutto il secondo atto in un atto di forza notevole, perché si chiacchiera, si chiacchiera troppo e non succede nulla, perché tu spettatore in realtà già sai di cosa stanno parlando. E non c'è cosa peggiore dello spiegone dopo che hai visto quanto ti stanno dicendo.
Chiaramente un fatto del genere risulta criminale non solo nella gestione dello spettacolo, ma anche nell'economia del film, contribuendo a danneggiarlo. E lo dico in un certo senso "a malincuore", perché ci sono diverse cose da salvare in questo lungometraggio: per prima cosa i duelli all'arma bianca, ben coreografati, lunghi e appassionati (in una parola, soddisfacenti), senza poi cadere nell'oceano di cacchiate che è il manga, andando a denominare una tecnica ogni qualvolta venga usata. Poi la ricostruzione storica, niente di stupefacente in realtà, ma in grado di immergere i personaggi nel Giappone dell'800, senza tra l'altro risultare fasullo, nonostante la fedeltà visiva con la controparte cartacea (altro punto a favore). Voglio menzionare anche Takeru Sato, ovvero colui che interpreta Kenshin, che regge il ruolo del protagonista senza risultare fuori parte. In più, sempre a proposito di Kenshin, l'ho trovato molto meglio sviluppato rispetto al manga, dove il personaggio sembrava un attimo schizofrenico, mentre questa versione cinematografica lo rende più tridimensionale, un essere umano che ha provato nuovamente delle emozioni dopo averle represse e cancellate in favore di un futuro migliore. Nota: ricordo bene le motivazione del personaggio nel manga, ma l'ho sempre trovato non forzato, di più, e in ogni caso il Kenshin iniziale è da manicomio.
Insomma, una trasposizione fedele, una volta tanto anche meno fumettosa del solito, con delle gustose intuizioni, ma minata da una linearità troppo facilona, di quelle che ti scade potente la noia.
"Kenshin - Samurai Vagabondo" (Rurouni Kenshin) è un manga degli anni '90 creato dal signor Nobuhiro Watsuki, celebre per essere stato - proprio in quel periodo - il maestro di Oda, Mishima e Takei, tre autori che dopo pochi anni se ne sarebbero venuti fuori con delle hit spaventose (uno di sicuro). In Italia abbiamo potuto goderne prima dal 1998 al 2000 su Express, mitica rivista della Star Comics, e poi dal 2001 al 2003 in monografico su 28 tankobon.
La storia è quella di Kenshin Himura, samurai vagabondo che si aggira per il Giappone del 1878 (agli albori del periodo Meiji) per espiare il suo passato di sangue, violenza e morte. Durante il suo peregrinare incontrerà Kaoru Kamiya, proprietaria di un dojo caduto in rovina a causa della malavita: Kenshin la aiuterà a rimettere in piedi la palestra e rimarrà al suo fianco per tutta la storia, con conseguente nascita dell'ammmore.
Se c'è una cosa che non era Kenshin, era l'essere un manga storico e di samurai: dopo un buon inizio infatti, Watsuki ha deciso di passare ad una narrazione più da videogame (scontri di vari boss), accompagnata da dialoghi, tecniche e personaggi al limite del puerile, come un bambino quando gioca con i pupazzetti. Se nei primi sette numeri il dramma di Kenshin (proteggere gli innocenti, sconfiggere gli avversari senza causare spargimenti di sangue) era intrigante e affrontato anche in maniera interessante, dall'ottavo in poi si è fatto di tutto per disperdere quanto di buono era stato fatto inizialmente, dando spazio a melensità varie (incarnate da Kaoru) e banalità. Dici "e vabbè, che pretendi da uno shonen?": pretendo un minimo di dignità, e che delle buone basi non vengano demolite da 21 numeri di niente.
Ma porca miseria, non siamo qui a recensire manga, bensì pellicole uscite al cinematografo (nel Bel Paese chiaramente nisba, nada). Quindi. Nel 2012 fa capolino nelle sale "Rurouni Kenshin", prodotto nientemeno che dalla Warner Bros, e diretto da Keishi Ohtomo, uno che ti dirige drama per tutta la carriera e poi decide di fare il grande salto al cinema adattando personalmente il materiale.
<b>Il seguente paragrafo contiene spoiler</b>
La trama è identica alla parte iniziale del fumetto (quella di Kanryu, per intendersi), se non per alcuni dettagli non di chissà quale rilevanza. Ciò che viene effettivamente cambiato è il modo di gestire misteri e identità: se nel fumetto tutto accade in medias-res, nel film viene spiattellata ogni cosa, senza possibilità di lasciarti un attimo sorpreso da questo o quel fatto. Esempio: nel manga non sappiamo nulla di Kenshin se non che è un samurai errante, ha una misteriosa cicatrice a forma di croce sulla guancia sinistra e che porta con se una sakabato (katana dalla lama invertita), mentre sul suo passato sappiamo ben poco; dovremo andare avanti con la lettura per scoprire che Kenshin è il leggendario hitokiri Battosai. Nel film lo veniamo a sapere praticamente nella sequenza iniziale ambientata nel 1868, alla conclusione del conflitto che pose fine allo shogunato Tokugawa.
E questo è solo un esempio. Nelle due ore e un quarto che compongono la pellicola, sappiamo tutto subito, chi è chi, cosa fa, il suo passato, eccetera. Una svista che crea un forte handicap al film, risultando spesso noioso e prolisso.
Ecco, a proposito di noia. Voglio dirvi che la parte centrale è la cosa più noiosa che abbia visto negli ultimi tempi. Mi sono appisolato con tanti film (di azione), ma questo è diverso, questo è qualcosa che va oltre, un film che annoia ma che non ti abbiocca, così sei costretto a vedere tutto il secondo atto in un atto di forza notevole, perché si chiacchiera, si chiacchiera troppo e non succede nulla, perché tu spettatore in realtà già sai di cosa stanno parlando. E non c'è cosa peggiore dello spiegone dopo che hai visto quanto ti stanno dicendo.
Chiaramente un fatto del genere risulta criminale non solo nella gestione dello spettacolo, ma anche nell'economia del film, contribuendo a danneggiarlo. E lo dico in un certo senso "a malincuore", perché ci sono diverse cose da salvare in questo lungometraggio: per prima cosa i duelli all'arma bianca, ben coreografati, lunghi e appassionati (in una parola, soddisfacenti), senza poi cadere nell'oceano di cacchiate che è il manga, andando a denominare una tecnica ogni qualvolta venga usata. Poi la ricostruzione storica, niente di stupefacente in realtà, ma in grado di immergere i personaggi nel Giappone dell'800, senza tra l'altro risultare fasullo, nonostante la fedeltà visiva con la controparte cartacea (altro punto a favore). Voglio menzionare anche Takeru Sato, ovvero colui che interpreta Kenshin, che regge il ruolo del protagonista senza risultare fuori parte. In più, sempre a proposito di Kenshin, l'ho trovato molto meglio sviluppato rispetto al manga, dove il personaggio sembrava un attimo schizofrenico, mentre questa versione cinematografica lo rende più tridimensionale, un essere umano che ha provato nuovamente delle emozioni dopo averle represse e cancellate in favore di un futuro migliore. Nota: ricordo bene le motivazione del personaggio nel manga, ma l'ho sempre trovato non forzato, di più, e in ogni caso il Kenshin iniziale è da manicomio.
Insomma, una trasposizione fedele, una volta tanto anche meno fumettosa del solito, con delle gustose intuizioni, ma minata da una linearità troppo facilona, di quelle che ti scade potente la noia.