Nō Otoko
"Nou Otoko", il Brain Main, altri non è che il protagonista di questo avvincente film di Tomoyuki Takimoto, Ichiro Suzuki. Suzuki (Toma Ikuta) dimostra capacità cognitive straordinarie, con prestazioni eccellenti nell'ambito della memoria e dell'elaborazione delle informazioni, così come un corpo atletico e vigoroso. Tuttavia, sembra essere affetto da alessitimia, ossia dall'incapacità di comprendere e vivere le proprie emozioni. Sembra quasi che le emozioni siano assenti in lui, come in un elaboratore elettronico. Allorché Suzuki viene ritenuto responsabile, o meglio complice di una serie di agghiaccianti attentati dinamitardi, che vedono tra le vittime innocenti anche dei bambini, il compito di giungere a comprendere cosa si celi dietro la sua cortina di anaffettività viene preso in carico dalla dottoressa Mariko Washiya (Yasuko Matsuyuki).
Quest'ultima ha un vissuto personale segnato da un trauma del passato, che ha finito per ingigantire la sua determinazione nel "redimere" i criminali, sostenuta dalla fede della dottoressa nella fondamentale bontà della natura umana. Il detective Chaya non sembra condividere le tesi della neuropsichiatra sul modo di rapportarsi coi killer (o presunti tali), ma la Washiya prosegue nella propria opera, giungendo in qualche modo a un passo dallo "stanare" le emozioni di Suzuki, che tuttavia riserverà una sorpresa finale alla dottoressa. Sembra quasi che il Nou Otoko, per ricambiare l'interesse e la partecipazione emotiva della psichiatra, le voglia fare il dono della verità. Una verità amara, per nulla consolatoria, ma pur sempre un dono: la vita umana, così come l'amore, si situa al di là del bene e del male. Dunque, la fiducia ottimistica della dottoressa è priva probabilmente di fondamento, tanto quanto il pessimismo del detective Chaya. Eppure, il film fa di tutto per mostrarci caratteri estremi: il sadismo disperato di Noriko e Yuria (rispettivamente fumi Nikaido e Rina Ohta), vere antieroine della storia, finisce a tratti per apparire grottesco di fronte alla lucida freddezza di Suzuki. Ugualmente poco attraente per lo spettatore la parabola di Shimura, il caso di "guarigione" dalla sociopatia su cui si fondano l'orgoglio professionale e la vittoria umana della dottoressa Washiya (caso divenuto con fin troppa fiducia un protocollo da seguire e applicare in casi simili). È sembrato altrettanto enfatico il quadro del passato "torbido" di Ichiro, un mix di vendette private e incapacità mediche.
I toni cupi e la convinzione con cui Takimoto si sofferma su dettagli spesso raccapriccianti (amputazioni, trafitture etc.) fanno del film un'esperienza poco rilassante, anche per i diversi momenti di suspense e i continui scacchi drammatici cui viene sottoposta la ricerca di un finale salvifico. Noriko appare quasi invincibile, ma il nemico da cui è ossessionata, lo stesso Suzuki, risulta insensibile al dolore che quella gli infligge spietatamente. Su questi due fattori il regista gioca una lunga, estenuante scena di apparente resa dei conti. Come detto, il finale riserva un'ulteriore chiave di lettura, lasciando lo spettatore con molti punti interrogativi (non sulla trama, ma sul senso della vicenda raccontata).
"Nou Otoko" è l'ennesima prova di quanto Ikuta sia attore poliedrico. Ruoli importanti come quello del "Genji Monogatari", o del recente "Mogura no Uta", stanno accanto al personaggio di Suzuki, che l'attore interpreta al meglio, donandogli spessore e rivestendolo del "fascino del male". A tutto tondo anche l'interpretazione di Yasuko Matsuyuki, capace di emozionarsi ed emozionare. Meno convincenti forse i comprimari.
Il film, in ultima analisi, colpisce per gli interrogativi morali che suscita e per l'interpretazione dei protagonisti. Una trasposizione difficile da un romanzo di Urio Shudo, insignito del prestigioso premio Edogawa Ranpo per esordienti nella crime fiction quando correva l'anno 2000. Per gli amanti del genere, un film da non perdere. Per gli altri, da maneggiare con cautela.
Quest'ultima ha un vissuto personale segnato da un trauma del passato, che ha finito per ingigantire la sua determinazione nel "redimere" i criminali, sostenuta dalla fede della dottoressa nella fondamentale bontà della natura umana. Il detective Chaya non sembra condividere le tesi della neuropsichiatra sul modo di rapportarsi coi killer (o presunti tali), ma la Washiya prosegue nella propria opera, giungendo in qualche modo a un passo dallo "stanare" le emozioni di Suzuki, che tuttavia riserverà una sorpresa finale alla dottoressa. Sembra quasi che il Nou Otoko, per ricambiare l'interesse e la partecipazione emotiva della psichiatra, le voglia fare il dono della verità. Una verità amara, per nulla consolatoria, ma pur sempre un dono: la vita umana, così come l'amore, si situa al di là del bene e del male. Dunque, la fiducia ottimistica della dottoressa è priva probabilmente di fondamento, tanto quanto il pessimismo del detective Chaya. Eppure, il film fa di tutto per mostrarci caratteri estremi: il sadismo disperato di Noriko e Yuria (rispettivamente fumi Nikaido e Rina Ohta), vere antieroine della storia, finisce a tratti per apparire grottesco di fronte alla lucida freddezza di Suzuki. Ugualmente poco attraente per lo spettatore la parabola di Shimura, il caso di "guarigione" dalla sociopatia su cui si fondano l'orgoglio professionale e la vittoria umana della dottoressa Washiya (caso divenuto con fin troppa fiducia un protocollo da seguire e applicare in casi simili). È sembrato altrettanto enfatico il quadro del passato "torbido" di Ichiro, un mix di vendette private e incapacità mediche.
I toni cupi e la convinzione con cui Takimoto si sofferma su dettagli spesso raccapriccianti (amputazioni, trafitture etc.) fanno del film un'esperienza poco rilassante, anche per i diversi momenti di suspense e i continui scacchi drammatici cui viene sottoposta la ricerca di un finale salvifico. Noriko appare quasi invincibile, ma il nemico da cui è ossessionata, lo stesso Suzuki, risulta insensibile al dolore che quella gli infligge spietatamente. Su questi due fattori il regista gioca una lunga, estenuante scena di apparente resa dei conti. Come detto, il finale riserva un'ulteriore chiave di lettura, lasciando lo spettatore con molti punti interrogativi (non sulla trama, ma sul senso della vicenda raccontata).
"Nou Otoko" è l'ennesima prova di quanto Ikuta sia attore poliedrico. Ruoli importanti come quello del "Genji Monogatari", o del recente "Mogura no Uta", stanno accanto al personaggio di Suzuki, che l'attore interpreta al meglio, donandogli spessore e rivestendolo del "fascino del male". A tutto tondo anche l'interpretazione di Yasuko Matsuyuki, capace di emozionarsi ed emozionare. Meno convincenti forse i comprimari.
Il film, in ultima analisi, colpisce per gli interrogativi morali che suscita e per l'interpretazione dei protagonisti. Una trasposizione difficile da un romanzo di Urio Shudo, insignito del prestigioso premio Edogawa Ranpo per esordienti nella crime fiction quando correva l'anno 2000. Per gli amanti del genere, un film da non perdere. Per gli altri, da maneggiare con cautela.