Ginga nagareboshi Gin
Dopo aver visto, svariate volte, la relativa trasposizione animata negli anni passati, un mese fa decisi che avrei finalmente dovuto recuperare l’originale “Ginga nagareboshi Gin”, manga di Yoshihiro Takahashi celebre soprattutto in alcuni paesi del Nord Europa, ma da noi rimasto tristemente inedito. Avendo adorato l’anime, avevo ormai riposto delle aspettative quasi esagerate nel manga, nella speranza, evidentemente mal riposta, che prima o poi sarebbe giunto anche in Italia.
Sorprendentemente, “Ginga nagareboshi Gin” è stato in grado di stupirmi anche nella sua veste originale, per motivi che in parte mi aspettavo, e in parte no.
L’aspetto che mi ha stupito di più dell’opera è certamente la qualità tecnica e artistica che riesce a esprimere. Se i personaggi umani di Yoshihiro Takahashi sono disegnati discretamente, ma senza eccessi, quelli animali sono stupendi, il connubio perfetto tra realismo ed espressività che riesce a valorizzarli alla perfezione. Tuttavia, la vera punta di eccellenza sta nella qualità delle ambientazioni. Gli scenari di “Ginga nagareboshi Gin” sono semplicemente clamorosi, una varietà di contesti naturali realizzati splendidamente, che accompagna le vicende dei protagonisti dall’inizio alla fine. Che siano delle montagne nevose, dei folti boschi o delle lande desolate illuminate da un cielo stellato, l’autore sa sempre offrire degli scorci memorabili.
Per quanto concerne la trama invece, sapevo cosa aspettarmi per buona parte dei capitoli, visto che l’anime si ferma agli eventi del volume 13. In ogni caso, rivivere le avventure del piccolo Gin è stato comunque un piacere. La forza di questa storia non si erge su una narrazione complessa o su delle sottotrame intricate e misteriose. La forza di “Ginga nagareboshi Gin” sta nello spessore emotivo che muove le vicissitudini dei personaggi, a partire dal protagonista. La storia di Gin altro non è che una storia di formazione, di una crescita sia fisica che mentale, costruita ottimamente. Il tutto unito ad una componente avventurosa che accompagnerà le vicende dei personaggi almeno fino al termine della prima saga. Strutturare buona parte dell’opera all’interno di un viaggio per tutto il Giappone è stata una scelta azzeccata e funzionale alla trama.
A essere onesti, sono proprio la semplicità e l’immediatezza di questo shonen che lo rendono così coinvolgente e appagante. Questo discorso vale anche per il lato squisitamente battle dell’opera. Non era certamente facile creare delle battaglie tra cani che potessero risultare epiche e credibili al tempo stesso. Ma il risultato finale è più che soddisfacente. Gli scontri in questo manga sono spettacolari, crudi e violentissimi. Forse, nell’ultima saga le cose sono leggermente sfuggite di mano, ma su questo piano il manga compete degnamente con i grandi shonen battle dell’epoca. L’azione che Takahashi mette sul campo è veloce e adrenalinica, e il manga in generale offre un intrattenimento immediato e senza fronzoli, guidato da un ritmo irrefrenabile.
Per quanto concerne i personaggi, la situazione è interessante, ma meno idilliaca. Il cast umano che si vede all’inizio e sporadicamente più avanti nel corso dell’opera è buono, così come quello canino della prima metà dell’opera. Tuttavia, è evidente che, per necessità di trama, l’autore ha dovuto creare un numero esorbitante di personaggi che potessero essere impiegati nella gigantesca battaglia finale che conclude la saga di Akakabuto. Per questo ha finito non solo per presentare dei nuovi personaggi a volte un po’ anonimi, ma soprattutto per togliere spazio a quelli vecchi. Se tutto ciò era comprensibile fino al termine della saga sopracitata per motivi di trama, dopo ci si rende conto di quale fardello rappresenti gestire così tanti personaggi, in buona parte ormai inutili. In ogni caso, credo che fino ad Akame, tutte le nuove leve siano sempre state ben caratterizzate e interessanti, mentre da Musashi in poi il livello è un po’ sceso.
Seppur abbia amato l’opera nel suo insieme, riconosco che la seconda e l'ultima saga, quella dei lupi, sia un po’ sottotono rispetto alla prima. Le premesse narrative sono più deboli, le motivazioni che muovono i personaggi più scarne e come già detto la gestione dei personaggi si fa un po’ complicata, anche per l’inserimento di un numero esagerato di nemici dimenticabili. Tuttavia, ciò che non delude sono le battaglie, effettivamente sopra le righe in questi capitoli, ma dannatamente spettacolari e accattivanti. Diciamo che non ci si discosta molto dalle saghe finali che potevano avere altri shonen battle di successo dell’epoca come “Ken il guerriero” e “Saint Seiya”, che anche quando avevano già dato il meglio di sé, dovevano comunque proseguire per via del successo, proponendo nuove saghe, magari non brutte, ma inferiori alle precedenti.
In ogni caso, il finale vero e proprio si è comunque rivelato molto soddisfacente.
“Ginga nagareboshi Gin” è uno shonen splendido che colpisce per l’ottima realizzazione tecnica, per la storia coinvolgente che offre, e per la genialità di aver creato un manga battle perfettamente convincente con dei cani. Se siete amanti del genere, e non vi fate problemi a recuperare titoli un po’ vecchiotti è caldamente consigliato. Da parte mia, continuo (inutilmente) a sperare in un’edizione italiana, e nel frattempo mi butterò sui tanti e longevi sequel che compongono quest’enorme epopea chiamata Ginga.
Sorprendentemente, “Ginga nagareboshi Gin” è stato in grado di stupirmi anche nella sua veste originale, per motivi che in parte mi aspettavo, e in parte no.
L’aspetto che mi ha stupito di più dell’opera è certamente la qualità tecnica e artistica che riesce a esprimere. Se i personaggi umani di Yoshihiro Takahashi sono disegnati discretamente, ma senza eccessi, quelli animali sono stupendi, il connubio perfetto tra realismo ed espressività che riesce a valorizzarli alla perfezione. Tuttavia, la vera punta di eccellenza sta nella qualità delle ambientazioni. Gli scenari di “Ginga nagareboshi Gin” sono semplicemente clamorosi, una varietà di contesti naturali realizzati splendidamente, che accompagna le vicende dei protagonisti dall’inizio alla fine. Che siano delle montagne nevose, dei folti boschi o delle lande desolate illuminate da un cielo stellato, l’autore sa sempre offrire degli scorci memorabili.
Per quanto concerne la trama invece, sapevo cosa aspettarmi per buona parte dei capitoli, visto che l’anime si ferma agli eventi del volume 13. In ogni caso, rivivere le avventure del piccolo Gin è stato comunque un piacere. La forza di questa storia non si erge su una narrazione complessa o su delle sottotrame intricate e misteriose. La forza di “Ginga nagareboshi Gin” sta nello spessore emotivo che muove le vicissitudini dei personaggi, a partire dal protagonista. La storia di Gin altro non è che una storia di formazione, di una crescita sia fisica che mentale, costruita ottimamente. Il tutto unito ad una componente avventurosa che accompagnerà le vicende dei personaggi almeno fino al termine della prima saga. Strutturare buona parte dell’opera all’interno di un viaggio per tutto il Giappone è stata una scelta azzeccata e funzionale alla trama.
A essere onesti, sono proprio la semplicità e l’immediatezza di questo shonen che lo rendono così coinvolgente e appagante. Questo discorso vale anche per il lato squisitamente battle dell’opera. Non era certamente facile creare delle battaglie tra cani che potessero risultare epiche e credibili al tempo stesso. Ma il risultato finale è più che soddisfacente. Gli scontri in questo manga sono spettacolari, crudi e violentissimi. Forse, nell’ultima saga le cose sono leggermente sfuggite di mano, ma su questo piano il manga compete degnamente con i grandi shonen battle dell’epoca. L’azione che Takahashi mette sul campo è veloce e adrenalinica, e il manga in generale offre un intrattenimento immediato e senza fronzoli, guidato da un ritmo irrefrenabile.
Per quanto concerne i personaggi, la situazione è interessante, ma meno idilliaca. Il cast umano che si vede all’inizio e sporadicamente più avanti nel corso dell’opera è buono, così come quello canino della prima metà dell’opera. Tuttavia, è evidente che, per necessità di trama, l’autore ha dovuto creare un numero esorbitante di personaggi che potessero essere impiegati nella gigantesca battaglia finale che conclude la saga di Akakabuto. Per questo ha finito non solo per presentare dei nuovi personaggi a volte un po’ anonimi, ma soprattutto per togliere spazio a quelli vecchi. Se tutto ciò era comprensibile fino al termine della saga sopracitata per motivi di trama, dopo ci si rende conto di quale fardello rappresenti gestire così tanti personaggi, in buona parte ormai inutili. In ogni caso, credo che fino ad Akame, tutte le nuove leve siano sempre state ben caratterizzate e interessanti, mentre da Musashi in poi il livello è un po’ sceso.
Seppur abbia amato l’opera nel suo insieme, riconosco che la seconda e l'ultima saga, quella dei lupi, sia un po’ sottotono rispetto alla prima. Le premesse narrative sono più deboli, le motivazioni che muovono i personaggi più scarne e come già detto la gestione dei personaggi si fa un po’ complicata, anche per l’inserimento di un numero esagerato di nemici dimenticabili. Tuttavia, ciò che non delude sono le battaglie, effettivamente sopra le righe in questi capitoli, ma dannatamente spettacolari e accattivanti. Diciamo che non ci si discosta molto dalle saghe finali che potevano avere altri shonen battle di successo dell’epoca come “Ken il guerriero” e “Saint Seiya”, che anche quando avevano già dato il meglio di sé, dovevano comunque proseguire per via del successo, proponendo nuove saghe, magari non brutte, ma inferiori alle precedenti.
In ogni caso, il finale vero e proprio si è comunque rivelato molto soddisfacente.
“Ginga nagareboshi Gin” è uno shonen splendido che colpisce per l’ottima realizzazione tecnica, per la storia coinvolgente che offre, e per la genialità di aver creato un manga battle perfettamente convincente con dei cani. Se siete amanti del genere, e non vi fate problemi a recuperare titoli un po’ vecchiotti è caldamente consigliato. Da parte mia, continuo (inutilmente) a sperare in un’edizione italiana, e nel frattempo mi butterò sui tanti e longevi sequel che compongono quest’enorme epopea chiamata Ginga.
L’uomo, l’orso e – soprattutto – il cane.
Sono questi tre elementi, e il rapporto che intercorre tra loro, i poli attorno ai quali si svolge Ginga Nagareboshi Gin, fortunata serie anni ’80 di Yoshihiro Takahashi.
A sentire la storia di base, si potrebbe scambiare questo manga per uno dei tanti shonen d’azione che giravano sulle pagine di Jump all’epoca. Difatti, abbiamo anche qui un cattivo che vuole seminare il terrore col suo esercito e un eroe che deve fermarlo, e che per far ciò viaggia, incontra altri personaggi che si uniscono a lui nella lotta, combatte, ottiene nuove tecniche, cresce e matura, nemmeno fosse l’ultimo dei Dragon Quest.
Ma Ginga Nagareboshi Gin ha una particolarità, in quanto il suo eroe protagonista non è un cavaliere in armatura o un combattente di arti marziali, bensì un semplice cagnolino, un cucciolo di Akita inu dal pelo color argento (da qui il nome), Gin.
Ambientato tra le nevose cime delle montagne di Ou, il manga racconta la storia di questo cucciolo, un cane da caccia col compito di proteggere il suo territorio dall’avanzare del terribile Akakabuto, un orso fortissimo, enorme e feroce, che semina il panico tra montagne e villaggi.
I primi tre volumi circa dell’opera fungono da introduzione al contesto, e mostrano la nascita di Gin, il breve ma intenso rapporto con il padre Riki, la sua crescita insieme al padroncino Daisuke e al di lui nonno Gohei, cacciatore professionista che ha incidentalmente causato danni al sistema nervoso di Akakabuto causandone la follia e che ha giurato di abbatterlo, accudendo Gin sotto la sua ala severa ma protettiva per farne un valido cane da caccia, il rude ma utilissimo addestramento che Gohei impartisce al cagnolino e la rivalità con il superbo pastore tedesco John, animale domestico di un giovane medico con l’hobby della caccia rivale di Gohei.
I restanti quindici volumi cambiano registro e lasciano da parte (relegandoli a sparuti siparietti di contorno di sfondo alla vicenda principale e ridonandogli un ruolo attivo soltanto nella parte finale della storia) i protagonisti umani, concentrandosi unicamente sui cani.
Seguendo il suo naturale istinto, infatti, Gin (e John con lui, sebbene sia in un primo momento piuttosto riluttante) si separa dal suo amato Daisuke e dal suo padrone Gohei per inoltrarsi in un’avventura più grande, che possa vivere in quanto cane. Comincia così il viaggio del nostro protagonista, che scopre, tra le montagne di Ou, un nutrito e organizzatissimo gruppo di cani randagi che sta organizzando una lotta segreta contro lo strapotere di Akakabuto (il quale, dal canto suo, sta chiamando tra le sue fila gli orsi più possenti e feroci della zona). Unitosi a loro, Gin comincerà una grandissima avventura che lo porterà a viaggiare, a combattere, a confrontarsi con moltissimi amici e nemici e a crescere.
Ginga Nagareboshi Gin è un manga particolarissimo e praticamente unico nel suo genere (se escludiamo i vari spin off, sequel e prequel dello stesso, che verranno successivamente, e altre opere dello stesso autore), nonché ammantato di un fascino immenso.
E’ una storia la cui struttura è semplicissima, ma che nasce da un’idea di base assolutamente geniale. La vicenda del nostro cagnolino dal pelo grigio è vissuta da personaggi di grandissima levatura, come ad esempio l’austero e tormentato cacciatore Gohei, personalità complessa e dal grandissimo fascino, che schiaccia col suo carisma tutti gli altri personaggi della prima parte della storia e fa sentire la sua presenza anche nella narrazione successiva. Nei primi volumi della storia si ha spazio per trattare temi parecchio importanti e di grande impatto emotivo/narrativo per il lettore, quali il rapporto tra l’uomo e la natura, nelle sue varie accezioni, il rapporto tra il padrone e il suo cane, la diatriba tra modernità e tradizione e tutta una serie di svariati sentimenti descritti in maniera parecchio naturale. A far da sfondo, la natura, le bellissime distese innevate dei monti Ou, con gli animali che le popolano. Ma alla natura non può contrapporsi l’uomo, bensì la natura stessa, ed ecco quindi il senso di tutta la seconda parte, che acquista connotati da classico shonen manga d’azione presentando, in salsa canina, un gruppo eterogeneo di personaggi ognuno con le proprie caratteristiche e i propri sentimenti, viaggi, combattimenti, apprendimento di nuove tecniche, diatribe, amicizie, amori, vendette, drammi, gioie e dolori, nonché una vastissima gamma di valori positivi da trasmettere ai lettori.
Gli esponenti canini che costellano questa storia sono tanti, ottimamente caratterizzati e tutti diversi tra loro, sia a livello fisico sia a livello caratteriale. Su tutti, naturalmente, spicca il buon Gin, che risulta essere un ottimo protagonista, in quanto cresce insieme al lettore e riesce a farsi amare da lui in una maniera molto naturale, grazie anche ad una provvidenziale voce narrante che, attraverso didascalie, si fa interprete dei suoi pensieri e sentimenti nella prima fase della storia, quando il punto di vista è quello di Daisuke e Gohei e non possiamo sentire cosa Gin pensa dalla sua viva voce, dovendo questo limitarsi ad abbaiare, in presenza di umani.
Ginga Nagareboshi Gin non ha la pretesa di essere realistico, poiché parliamo di bambini che riescono a usare archi che utilizzano con difficoltà gli stessi adulti e che uccidono orsi giganteschi con le frecce, di cani ninja, di orsi grandi quanto palazzi che si organizzano in bande, di cani che distruggono sbarre di ferro a testate o che utilizzano tecniche estrose (ma più o meno plausibili) alla Saint Seiya, di addestramenti in stile Tana delle Tigri.
Ma, del resto, è uno shonen manga d’azione degli anni ’80. Quanti fumetti del genere possono definirsi realistici? Ginga Nagareboshi Gin riesce perfettamente a far calare il lettore nel suo contesto, realistico o meno che sia questo, e a lasciarlo incollato alle sue pagine, emozionandolo e catalizzando la sua attenzione. E’ una storia che tiene con sé tutta l’esagerazione, la violenza, il pathos dei suoi colleghi del suo stesso tempo: i combattimenti sono violentissimi, si assiste spesso e volentieri a scene esageratamente splatter come fosse un Hokuto no Ken in salsa animalesca, i sentimenti vengono espressi in maniera molto plateale e si mostrano anche gli aspetti più crudeli della natura, quella stessa natura ritratta in maniera ineccepibile negli splendidi sfondi delle vignette e che impregna tutta l’opera di un fascino immenso.
Lo stile di disegno utilizzato è quantomai classico, tanto più che i personaggi umani di questa storia non sfigurerebbero affatto in un qualsiasi altro shonen degli anni ’70 o ’80. Eppure, è giusto così, perché Ginga Nagareboshi Gin è uno shonen degli anni ’80, che peraltro parla di caccia e cacciatori, ed è bene che si porti dietro quel tratto un po’ sporco, sgraziato, dove nessun personaggio è un fighetto ma dove hanno tutti una certa, rude, virilità, tipico delle opere di quegli anni.
Da manuale, naturalmente, dato che la storia si basa su quello, la rappresentazione grafica degli orsi, massicci e minacciosi, e delle varie razze canine (e sono tante, tra Akita inu, cocker, mastini, pastori tedeschi, bulldog…) che affollano la vicenda e che sono tutte perfettamente dipinte su carta con uno stile impeccabile che riesce a renderle realistiche ma anche a donar loro la giusta dose di espressività che gli deriva dall’essere personaggi di un fumetto e non un album fotografico di una mostra canina.
Yoshihiro Takahashi ci regala, inoltre, dei meravigliosi paesaggi: montagne innevate, grotte, foreste di tutti i tipi, mari, fiumi, laghi, ciliegi in fiore, castelli in tradizionale stile giapponese, villaggi di montagna, città portuali, circhi e così via. Con gli occhi del nostro piccolo cagnolino dal pelo grigio, il lettore vede la vastità del mondo ritratto dall’autore e non può fare a meno di innamorarsene.
Nel complesso, Ginga Nagareboshi Gin si rivela essere un’opera originale e di straordinaria bellezza, intensa e affascinante come poche, che sicuramente riuscirà a fare breccia nel cuore dei lettori amanti degli animali, della natura e delle vecchie storie shonen di formazione degli anni che furono. E’ davvero un peccato che questa, come nessuna delle opere di Yoshihiro Takahashi, sia giunta nel nostro paese, poiché penso che avrebbe anche parecchio da insegnare a chi legge, oltre che affascinarlo e intrattenerlo. Beh, la speranza è l’ultima a morire, del resto, e se un piccolo cagnolino grigio può abbattere un mastodontico orso bruno, allora c’è una piccola possibilità che questo manga arrivi in Italia, prima o poi…
Sono questi tre elementi, e il rapporto che intercorre tra loro, i poli attorno ai quali si svolge Ginga Nagareboshi Gin, fortunata serie anni ’80 di Yoshihiro Takahashi.
A sentire la storia di base, si potrebbe scambiare questo manga per uno dei tanti shonen d’azione che giravano sulle pagine di Jump all’epoca. Difatti, abbiamo anche qui un cattivo che vuole seminare il terrore col suo esercito e un eroe che deve fermarlo, e che per far ciò viaggia, incontra altri personaggi che si uniscono a lui nella lotta, combatte, ottiene nuove tecniche, cresce e matura, nemmeno fosse l’ultimo dei Dragon Quest.
Ma Ginga Nagareboshi Gin ha una particolarità, in quanto il suo eroe protagonista non è un cavaliere in armatura o un combattente di arti marziali, bensì un semplice cagnolino, un cucciolo di Akita inu dal pelo color argento (da qui il nome), Gin.
Ambientato tra le nevose cime delle montagne di Ou, il manga racconta la storia di questo cucciolo, un cane da caccia col compito di proteggere il suo territorio dall’avanzare del terribile Akakabuto, un orso fortissimo, enorme e feroce, che semina il panico tra montagne e villaggi.
I primi tre volumi circa dell’opera fungono da introduzione al contesto, e mostrano la nascita di Gin, il breve ma intenso rapporto con il padre Riki, la sua crescita insieme al padroncino Daisuke e al di lui nonno Gohei, cacciatore professionista che ha incidentalmente causato danni al sistema nervoso di Akakabuto causandone la follia e che ha giurato di abbatterlo, accudendo Gin sotto la sua ala severa ma protettiva per farne un valido cane da caccia, il rude ma utilissimo addestramento che Gohei impartisce al cagnolino e la rivalità con il superbo pastore tedesco John, animale domestico di un giovane medico con l’hobby della caccia rivale di Gohei.
I restanti quindici volumi cambiano registro e lasciano da parte (relegandoli a sparuti siparietti di contorno di sfondo alla vicenda principale e ridonandogli un ruolo attivo soltanto nella parte finale della storia) i protagonisti umani, concentrandosi unicamente sui cani.
Seguendo il suo naturale istinto, infatti, Gin (e John con lui, sebbene sia in un primo momento piuttosto riluttante) si separa dal suo amato Daisuke e dal suo padrone Gohei per inoltrarsi in un’avventura più grande, che possa vivere in quanto cane. Comincia così il viaggio del nostro protagonista, che scopre, tra le montagne di Ou, un nutrito e organizzatissimo gruppo di cani randagi che sta organizzando una lotta segreta contro lo strapotere di Akakabuto (il quale, dal canto suo, sta chiamando tra le sue fila gli orsi più possenti e feroci della zona). Unitosi a loro, Gin comincerà una grandissima avventura che lo porterà a viaggiare, a combattere, a confrontarsi con moltissimi amici e nemici e a crescere.
Ginga Nagareboshi Gin è un manga particolarissimo e praticamente unico nel suo genere (se escludiamo i vari spin off, sequel e prequel dello stesso, che verranno successivamente, e altre opere dello stesso autore), nonché ammantato di un fascino immenso.
E’ una storia la cui struttura è semplicissima, ma che nasce da un’idea di base assolutamente geniale. La vicenda del nostro cagnolino dal pelo grigio è vissuta da personaggi di grandissima levatura, come ad esempio l’austero e tormentato cacciatore Gohei, personalità complessa e dal grandissimo fascino, che schiaccia col suo carisma tutti gli altri personaggi della prima parte della storia e fa sentire la sua presenza anche nella narrazione successiva. Nei primi volumi della storia si ha spazio per trattare temi parecchio importanti e di grande impatto emotivo/narrativo per il lettore, quali il rapporto tra l’uomo e la natura, nelle sue varie accezioni, il rapporto tra il padrone e il suo cane, la diatriba tra modernità e tradizione e tutta una serie di svariati sentimenti descritti in maniera parecchio naturale. A far da sfondo, la natura, le bellissime distese innevate dei monti Ou, con gli animali che le popolano. Ma alla natura non può contrapporsi l’uomo, bensì la natura stessa, ed ecco quindi il senso di tutta la seconda parte, che acquista connotati da classico shonen manga d’azione presentando, in salsa canina, un gruppo eterogeneo di personaggi ognuno con le proprie caratteristiche e i propri sentimenti, viaggi, combattimenti, apprendimento di nuove tecniche, diatribe, amicizie, amori, vendette, drammi, gioie e dolori, nonché una vastissima gamma di valori positivi da trasmettere ai lettori.
Gli esponenti canini che costellano questa storia sono tanti, ottimamente caratterizzati e tutti diversi tra loro, sia a livello fisico sia a livello caratteriale. Su tutti, naturalmente, spicca il buon Gin, che risulta essere un ottimo protagonista, in quanto cresce insieme al lettore e riesce a farsi amare da lui in una maniera molto naturale, grazie anche ad una provvidenziale voce narrante che, attraverso didascalie, si fa interprete dei suoi pensieri e sentimenti nella prima fase della storia, quando il punto di vista è quello di Daisuke e Gohei e non possiamo sentire cosa Gin pensa dalla sua viva voce, dovendo questo limitarsi ad abbaiare, in presenza di umani.
Ginga Nagareboshi Gin non ha la pretesa di essere realistico, poiché parliamo di bambini che riescono a usare archi che utilizzano con difficoltà gli stessi adulti e che uccidono orsi giganteschi con le frecce, di cani ninja, di orsi grandi quanto palazzi che si organizzano in bande, di cani che distruggono sbarre di ferro a testate o che utilizzano tecniche estrose (ma più o meno plausibili) alla Saint Seiya, di addestramenti in stile Tana delle Tigri.
Ma, del resto, è uno shonen manga d’azione degli anni ’80. Quanti fumetti del genere possono definirsi realistici? Ginga Nagareboshi Gin riesce perfettamente a far calare il lettore nel suo contesto, realistico o meno che sia questo, e a lasciarlo incollato alle sue pagine, emozionandolo e catalizzando la sua attenzione. E’ una storia che tiene con sé tutta l’esagerazione, la violenza, il pathos dei suoi colleghi del suo stesso tempo: i combattimenti sono violentissimi, si assiste spesso e volentieri a scene esageratamente splatter come fosse un Hokuto no Ken in salsa animalesca, i sentimenti vengono espressi in maniera molto plateale e si mostrano anche gli aspetti più crudeli della natura, quella stessa natura ritratta in maniera ineccepibile negli splendidi sfondi delle vignette e che impregna tutta l’opera di un fascino immenso.
Lo stile di disegno utilizzato è quantomai classico, tanto più che i personaggi umani di questa storia non sfigurerebbero affatto in un qualsiasi altro shonen degli anni ’70 o ’80. Eppure, è giusto così, perché Ginga Nagareboshi Gin è uno shonen degli anni ’80, che peraltro parla di caccia e cacciatori, ed è bene che si porti dietro quel tratto un po’ sporco, sgraziato, dove nessun personaggio è un fighetto ma dove hanno tutti una certa, rude, virilità, tipico delle opere di quegli anni.
Da manuale, naturalmente, dato che la storia si basa su quello, la rappresentazione grafica degli orsi, massicci e minacciosi, e delle varie razze canine (e sono tante, tra Akita inu, cocker, mastini, pastori tedeschi, bulldog…) che affollano la vicenda e che sono tutte perfettamente dipinte su carta con uno stile impeccabile che riesce a renderle realistiche ma anche a donar loro la giusta dose di espressività che gli deriva dall’essere personaggi di un fumetto e non un album fotografico di una mostra canina.
Yoshihiro Takahashi ci regala, inoltre, dei meravigliosi paesaggi: montagne innevate, grotte, foreste di tutti i tipi, mari, fiumi, laghi, ciliegi in fiore, castelli in tradizionale stile giapponese, villaggi di montagna, città portuali, circhi e così via. Con gli occhi del nostro piccolo cagnolino dal pelo grigio, il lettore vede la vastità del mondo ritratto dall’autore e non può fare a meno di innamorarsene.
Nel complesso, Ginga Nagareboshi Gin si rivela essere un’opera originale e di straordinaria bellezza, intensa e affascinante come poche, che sicuramente riuscirà a fare breccia nel cuore dei lettori amanti degli animali, della natura e delle vecchie storie shonen di formazione degli anni che furono. E’ davvero un peccato che questa, come nessuna delle opere di Yoshihiro Takahashi, sia giunta nel nostro paese, poiché penso che avrebbe anche parecchio da insegnare a chi legge, oltre che affascinarlo e intrattenerlo. Beh, la speranza è l’ultima a morire, del resto, e se un piccolo cagnolino grigio può abbattere un mastodontico orso bruno, allora c’è una piccola possibilità che questo manga arrivi in Italia, prima o poi…