L'uomo senza talento
La grafica dei personaggi e di come dipinge l’ambiente circostante il maestro Yoshiharu Tsuge è ben lontano sia dai fumetti vintage che ho letto (Tezuka, Yokoyama, Hirata...) sia dagli autori dal bel tratto (Tetsuo Hara, Hagiwara, Miura…) che di solito apprezzo. Cosa strana mi sono innamorato lo stesso di questo racconto in un unico volume arrivato in Italia grazie alla casa editrice bolognese Canicola.
Chi è Tsuge? È un mangaka nato il 30 ottobre 1937 che alla soglia dei cinquanta anni ha abbandonato il settore dopo anni di fame e di incomprensione: la sua opera non ha avuto molto successo finché gli si è dedicato. Abbandonato dal padre che lascia la famiglia in gravi difficoltà economiche entra poco più che bambino nel mondo del lavoro, facendo lavori pesanti che ne rovinano la salute. Poi a sedici anni la svolta: si trasforma in autore di manga per il mercato dei kashihon (i libri in prestito) rimanendo tuttavia povero, cosa che lo porta più volte a tentare il suicidio. Si presenta nel 1965 l’occasione di diventare assistente di Shigeru Mizuki o del maestro gekiga Sanpei Shirato ma essendo Tsuge discontinuo nel lavoro non dura molto. L’ultima opera delle poche da lui create(se confrontate ad autori più prolifici) si intitola “Distacco” del 1987.
Due anni prima aveva iniziato "Muno no hito" ("L’uomo senza talento" forse in onore al romanzo "L’uomo senza qualità" di Musil).
L’uomo senza talento… chi è? Un ex mangaka uscito dal mercato per sua stessa volontà dopo una crisi dello stesso che aveva portato molti piccoli editori a fallire. Con i risparmi inizia un attività fallimentare di costruttore di macchine fotografiche e fallita quella si ritrova a tentare di vendere pietre in riva al fiume. Ciò provoca un distacco con la moglie: all’inizio il volto di quest’ultima non appare come se fosse un personaggio allo stesso tempo vicino e lontano - vicino perché è li accanto a lui, lontano perché anche se si toccano sono distanti spiritualmente con lei che ormai lo disprezza e per strada fa finta di non conoscerlo.
Unico motivo per cui non si suicida e la presenza del figlio che ogni sera benché malaticcio e chiaramente denutrito lo va a prendere nel suo “negozio” sul fiume per portarlo a casa.
Quand’è il tempo del racconto? Dopo la guerra e prima del boom viene da pensare per il gran numero di personaggi poveri, ma l’autore non lo dice. Potrebbe essere che il boom esiste ma questi personaggi ai margini della società, in una realtà provinciale non se ne accorgano, perché anche gli altri personaggi in un modo o nell’altro sono perdenti. Il battitore all’asta delle pietre per esempio non è poverissimo ma è cornificato dalla moglie. Il venditore di uccelli. Il venditore di antichità tutti sopravvivono.
Tsuge depresso e in povertà non può e non vuole narrare di gente che è contenta della propria situazione e senza grandi voli immaginari imbastisce cinque episodi quotidiani e un episodio tre il presente e il passato di un personaggio di cui potrebbe essere un incarnazione: un samurai poeta morto in miseria di cui però sopravvive in una piccola valle del Giappone il ricordo grazie ad una raccolta di haiku.
Chi è Tsuge? È un mangaka nato il 30 ottobre 1937 che alla soglia dei cinquanta anni ha abbandonato il settore dopo anni di fame e di incomprensione: la sua opera non ha avuto molto successo finché gli si è dedicato. Abbandonato dal padre che lascia la famiglia in gravi difficoltà economiche entra poco più che bambino nel mondo del lavoro, facendo lavori pesanti che ne rovinano la salute. Poi a sedici anni la svolta: si trasforma in autore di manga per il mercato dei kashihon (i libri in prestito) rimanendo tuttavia povero, cosa che lo porta più volte a tentare il suicidio. Si presenta nel 1965 l’occasione di diventare assistente di Shigeru Mizuki o del maestro gekiga Sanpei Shirato ma essendo Tsuge discontinuo nel lavoro non dura molto. L’ultima opera delle poche da lui create(se confrontate ad autori più prolifici) si intitola “Distacco” del 1987.
Due anni prima aveva iniziato "Muno no hito" ("L’uomo senza talento" forse in onore al romanzo "L’uomo senza qualità" di Musil).
L’uomo senza talento… chi è? Un ex mangaka uscito dal mercato per sua stessa volontà dopo una crisi dello stesso che aveva portato molti piccoli editori a fallire. Con i risparmi inizia un attività fallimentare di costruttore di macchine fotografiche e fallita quella si ritrova a tentare di vendere pietre in riva al fiume. Ciò provoca un distacco con la moglie: all’inizio il volto di quest’ultima non appare come se fosse un personaggio allo stesso tempo vicino e lontano - vicino perché è li accanto a lui, lontano perché anche se si toccano sono distanti spiritualmente con lei che ormai lo disprezza e per strada fa finta di non conoscerlo.
Unico motivo per cui non si suicida e la presenza del figlio che ogni sera benché malaticcio e chiaramente denutrito lo va a prendere nel suo “negozio” sul fiume per portarlo a casa.
Quand’è il tempo del racconto? Dopo la guerra e prima del boom viene da pensare per il gran numero di personaggi poveri, ma l’autore non lo dice. Potrebbe essere che il boom esiste ma questi personaggi ai margini della società, in una realtà provinciale non se ne accorgano, perché anche gli altri personaggi in un modo o nell’altro sono perdenti. Il battitore all’asta delle pietre per esempio non è poverissimo ma è cornificato dalla moglie. Il venditore di uccelli. Il venditore di antichità tutti sopravvivono.
Tsuge depresso e in povertà non può e non vuole narrare di gente che è contenta della propria situazione e senza grandi voli immaginari imbastisce cinque episodi quotidiani e un episodio tre il presente e il passato di un personaggio di cui potrebbe essere un incarnazione: un samurai poeta morto in miseria di cui però sopravvive in una piccola valle del Giappone il ricordo grazie ad una raccolta di haiku.
«Papà… che insetto è il verme?»
«Ah ah ah… non è un insetto… il verme è un essere inutile… ma da chi hai sentito questa parola?»
«È stata la mamma, dice che tu sei un verme»
«La mamma ha ragione… tuo padre è proprio un verme»
Yoshiharu Tsuge si è fatto strada come assistente di Shigeru Mizuki (il papà degli yokai), diventando in seguito uno dei pionieri del gekika manga.
In preda a continue crisi esistenziali, attacchi di panico e gravi problemi di salute, oppresso dalle scadenze e i tempi editoriali, Tsuge decide di ritirarsi prematuramente dalle scene nel 1987.
“L’uomo senza talento” (1986) è il suo canto del cigno, un watakushi manga, “manga dell’io”, sottogenere di cui Tsuge è antesignano, che si rifa alla letteratura giapponese Shishōsetsu (“romanzo dell’io”), in cui la narrativa autobiografica si sovrappone alla messinscena letteraria, portando il fumetto in una nuova dimensione autoriale ormai desueta e quasi dimenticata.
Un mangaka fallito in bancarotta, continuamente schernito da una moglie ormai disamorata, si reinventa venditore di pietre allestendo una capanna diroccata sugli argini del fiume da cui le raccoglie; tuttavia il business non ingrana, e la cagionevolezza del figlio lo sprona a far di tutto pur di racimolare qualche soldo.
Tsuge ci mostra il puzzo della vita, tra marcescenza, povertà e miseria, muovendo il racconto nel sordido più profondo fra baracche luride e pensioni fatiscenti, immergendoci dentro un degrado costante e palpabile, in un inquietante buio oltre il sipario fumettistico.
Lo stile narrativo, mite e placido, a tratti equiparabile alla semantica di Jirō Taniguchi, ci conduce lentamente ad un’amara sinossi che cela anche le motivazioni per cui ha smesso anzitempo di disegnare manga: “Se nessuno ti considera… se nessuno ti legge… se nessuno ti conosce… non esisti”.
Viene tracciato il parallelismo tra i manga e le pietre, che il protagonista non riesce a vendere in quanto troppo “normali”, lontane dal ricercato gusto estetico comune, proprio come i fumetti del mangaka.
Tsuge è uno di quegli autori perfettamente consapevoli del proprio lascito al medium del fumetto, tuttavia insoddisfatto del riscontro ottenuto, dato che il reale riconoscimento è avvenuto soltanto dopo il ritiro artistico.
Una carriera di alti e bassi vissuta con particolare sofferenza, in continua crisi professionale ed emotiva, il cui culmine è il tentativo di suicidio nel 1962, all’età di 25 anni.
Nel libro, dopo che il protagonista intento ad imitare l’uomo-uccello dei racconti di un rigattiere si arrampica su un picco con l’idea di “spiccare il volo”, viene riportato alla realtà dal figlio che ne sventa il suicidio: “papà sono venuto a prenderti”,
a sottolinearci l’importanza dei legami nel labile confine tra la vita e la morte.
La scelta iniziale di non mostrare il viso della moglie, se non attraverso i successivi flashback, sta ad indicare come il protagonista, in quella riluttanza asettica e a tratti meschina, non riconosca la donna che lo amava, non riuscendo più a darle un volto.
La timeline irregolare ci conduce a ritroso fino a quando l’uomo riparava macchine fotografiche difettate acquistate a basso costo in negozi d’antiquariato;
periodo in cui il rapporto con la moglie, non più oscurata in volto, era ancora in fiore: l’intesa passionale è evidenziata dal paragrafo in cui la donna si lascia fotografare nuda per far appurare al marito la riuscita della riparazione dell’otturatore di una fotocamera.
Il finale, aperto e nebuloso, permea l’opera di un’evanescenza più confacente ad altre tipologie di racconti, inficiando lievemente la concretezza narrativa di quello che a conti fatti risulta uno degli ultimi manifesti del gekika.
Il tratto, piuttosto impersonale, abbraccia lo stile realistico del genere, raggiungendo il suo apice nelle rappresentazioni rurali, da cui emerge a pieno il fascino naturalistico giapponese. Il protagonista nella sua caratterizzazione estetica richiama Charlie Chaplin, e in generale i personaggi non rimangono certo impressi per il character design.
L’opera risulta ad oggi piuttosto attempata, impallidendo in termini di freshness visiva se confrontata ai masterpiece dell’epoca.
Yoshiharu Tsuge realizza un disincantato affresco storico del basso ceto sociale giapponese, una lettera d’addio da cui, dopo tanta autoflagellazione, sente ancora echi di acclamazione, ottenendo finalmente quell’unanime riconoscimento che da sempre gli sembrava dovuto.
Il ritmo blando e neghittoso non attecchirà sui fan dell’azione convulsa, né sui neofiti cresciuti a pane e cliffhanger.
“L’uomo senza talento” è una lenta marcia nell’introspezione, la ballata dell’indigenza, il magnum opus di un autore seminale sconosciuto ai più, specialmente oltre i confini nipponici, che ha tracciato nel manga alternativo un sentiero da seguire.
Le polveri di una realtà sgretolata dai martelli dell’industria, lembi di nubi in dissolvenza, uno squarcio lirico tra sogno e realtà.
“In lontananza sento il canto di una gru… nella foschia… nella foschia”.
«Ah ah ah… non è un insetto… il verme è un essere inutile… ma da chi hai sentito questa parola?»
«È stata la mamma, dice che tu sei un verme»
«La mamma ha ragione… tuo padre è proprio un verme»
Yoshiharu Tsuge si è fatto strada come assistente di Shigeru Mizuki (il papà degli yokai), diventando in seguito uno dei pionieri del gekika manga.
In preda a continue crisi esistenziali, attacchi di panico e gravi problemi di salute, oppresso dalle scadenze e i tempi editoriali, Tsuge decide di ritirarsi prematuramente dalle scene nel 1987.
“L’uomo senza talento” (1986) è il suo canto del cigno, un watakushi manga, “manga dell’io”, sottogenere di cui Tsuge è antesignano, che si rifa alla letteratura giapponese Shishōsetsu (“romanzo dell’io”), in cui la narrativa autobiografica si sovrappone alla messinscena letteraria, portando il fumetto in una nuova dimensione autoriale ormai desueta e quasi dimenticata.
Un mangaka fallito in bancarotta, continuamente schernito da una moglie ormai disamorata, si reinventa venditore di pietre allestendo una capanna diroccata sugli argini del fiume da cui le raccoglie; tuttavia il business non ingrana, e la cagionevolezza del figlio lo sprona a far di tutto pur di racimolare qualche soldo.
Tsuge ci mostra il puzzo della vita, tra marcescenza, povertà e miseria, muovendo il racconto nel sordido più profondo fra baracche luride e pensioni fatiscenti, immergendoci dentro un degrado costante e palpabile, in un inquietante buio oltre il sipario fumettistico.
Lo stile narrativo, mite e placido, a tratti equiparabile alla semantica di Jirō Taniguchi, ci conduce lentamente ad un’amara sinossi che cela anche le motivazioni per cui ha smesso anzitempo di disegnare manga: “Se nessuno ti considera… se nessuno ti legge… se nessuno ti conosce… non esisti”.
Viene tracciato il parallelismo tra i manga e le pietre, che il protagonista non riesce a vendere in quanto troppo “normali”, lontane dal ricercato gusto estetico comune, proprio come i fumetti del mangaka.
Tsuge è uno di quegli autori perfettamente consapevoli del proprio lascito al medium del fumetto, tuttavia insoddisfatto del riscontro ottenuto, dato che il reale riconoscimento è avvenuto soltanto dopo il ritiro artistico.
Una carriera di alti e bassi vissuta con particolare sofferenza, in continua crisi professionale ed emotiva, il cui culmine è il tentativo di suicidio nel 1962, all’età di 25 anni.
Nel libro, dopo che il protagonista intento ad imitare l’uomo-uccello dei racconti di un rigattiere si arrampica su un picco con l’idea di “spiccare il volo”, viene riportato alla realtà dal figlio che ne sventa il suicidio: “papà sono venuto a prenderti”,
a sottolinearci l’importanza dei legami nel labile confine tra la vita e la morte.
La scelta iniziale di non mostrare il viso della moglie, se non attraverso i successivi flashback, sta ad indicare come il protagonista, in quella riluttanza asettica e a tratti meschina, non riconosca la donna che lo amava, non riuscendo più a darle un volto.
La timeline irregolare ci conduce a ritroso fino a quando l’uomo riparava macchine fotografiche difettate acquistate a basso costo in negozi d’antiquariato;
periodo in cui il rapporto con la moglie, non più oscurata in volto, era ancora in fiore: l’intesa passionale è evidenziata dal paragrafo in cui la donna si lascia fotografare nuda per far appurare al marito la riuscita della riparazione dell’otturatore di una fotocamera.
Il finale, aperto e nebuloso, permea l’opera di un’evanescenza più confacente ad altre tipologie di racconti, inficiando lievemente la concretezza narrativa di quello che a conti fatti risulta uno degli ultimi manifesti del gekika.
Il tratto, piuttosto impersonale, abbraccia lo stile realistico del genere, raggiungendo il suo apice nelle rappresentazioni rurali, da cui emerge a pieno il fascino naturalistico giapponese. Il protagonista nella sua caratterizzazione estetica richiama Charlie Chaplin, e in generale i personaggi non rimangono certo impressi per il character design.
L’opera risulta ad oggi piuttosto attempata, impallidendo in termini di freshness visiva se confrontata ai masterpiece dell’epoca.
Yoshiharu Tsuge realizza un disincantato affresco storico del basso ceto sociale giapponese, una lettera d’addio da cui, dopo tanta autoflagellazione, sente ancora echi di acclamazione, ottenendo finalmente quell’unanime riconoscimento che da sempre gli sembrava dovuto.
Il ritmo blando e neghittoso non attecchirà sui fan dell’azione convulsa, né sui neofiti cresciuti a pane e cliffhanger.
“L’uomo senza talento” è una lenta marcia nell’introspezione, la ballata dell’indigenza, il magnum opus di un autore seminale sconosciuto ai più, specialmente oltre i confini nipponici, che ha tracciato nel manga alternativo un sentiero da seguire.
Le polveri di una realtà sgretolata dai martelli dell’industria, lembi di nubi in dissolvenza, uno squarcio lirico tra sogno e realtà.
“In lontananza sento il canto di una gru… nella foschia… nella foschia”.
Un manga che pur nella semplicità del tratto ( pubblicato nel 1984) mostra una grande potenza a livello narrativo ed emotivo.
Il libro racconta la vita di un uomo tormentato, incapace di provvedere al mantenimento della sua famiglia.
Un sognatore, che inizialmente lascia il suo lavoro come mangaka che detesta sempre più per aspirare a imprese più grandi.
Ma i suoi progetti saranno irrimediabilmente destinati al fallimento, portando il protagonista a scontrarsi con la dura realtà.
Egli inizialmente cerca di mettersi in proprio diventando riparatore e rivenditore di macchine fotografiche vintage.
Inizialmente il giro c'è ma pian piano la moda passa e anche l'offerta scarseggia e ben presto finisce per vendere pietre raccolte dal fiume Tama per i collezionisti.
Ma il mercato non è florido e le sue pietre non valgono nulla come invece sperava, non ha mezzi per realizzarsi in un ambiente simile.
Ciò porterà a un logoramento graduale del suo rapporto con la moglie, che lo disprezza per le sue negligenze, la sua pigrizia, l'incapacità di realizzarsi sul lavoro e di rialzarsi dopo il fallimento e puntare a mansioni più redditizie.
La lettura è un lento declino familiare verso l'inesorabile e deprimente indigenza, la disperazione, la vergogna e la cruda povertà in cui la famiglia vive. O meglio sopravvive.
Lungo la trama, il protagonista si imbatte in altri rivenditori come lui che condividono la sensazione di emarginazione, di disadattamento.
il protagonista, nonostante il suo fallimento come rivenditore di pietre e l'autocommiserazione, non rinuncia ad abbandonare quel mercato infecondo per un lavoro più redditizio, continuando a nuocere economicamente alla famiglia perseverando testardamente sui suoi errori.
L'unico ad essergli sempre incondizionatamente vicino è il figlioletto dall'aria sempre affranta, che lo viene a prendere ogni sera dopo il "lavoro", mentre il rapporto con la moglie è crudo e drammatico.
Ottima secondo me la scelta di una trama non lineare, dove inizialmente non viene mostrato il volto di lei, colma di disprezzo per il marito tanto che nel primo capitolo fa addirittura finta di non conoscerlo per strada , una scena intensa nella sua semplicità, per poi procedere coi capitoli a ritroso nel tempo dove cominciamo a vedere non solo il volto della moglie, ma anche la complicità e l'affetto che inizialmente permaneva nel loro matrimonio, mostrando con grande impatto il lento deterioramento affettivo tra i due.
"L'uomo senza talento" viene definito l’autoritratto a fumetti più completo e raffinato dell'autore Yoshiharu Tsuge, il suo canto del cigno.
La Canicola edizioni ha fatto un'ottima edizione e ne consiglio caldamente la lettura a tutti.
Il libro racconta la vita di un uomo tormentato, incapace di provvedere al mantenimento della sua famiglia.
Un sognatore, che inizialmente lascia il suo lavoro come mangaka che detesta sempre più per aspirare a imprese più grandi.
Ma i suoi progetti saranno irrimediabilmente destinati al fallimento, portando il protagonista a scontrarsi con la dura realtà.
Egli inizialmente cerca di mettersi in proprio diventando riparatore e rivenditore di macchine fotografiche vintage.
Inizialmente il giro c'è ma pian piano la moda passa e anche l'offerta scarseggia e ben presto finisce per vendere pietre raccolte dal fiume Tama per i collezionisti.
Ma il mercato non è florido e le sue pietre non valgono nulla come invece sperava, non ha mezzi per realizzarsi in un ambiente simile.
Ciò porterà a un logoramento graduale del suo rapporto con la moglie, che lo disprezza per le sue negligenze, la sua pigrizia, l'incapacità di realizzarsi sul lavoro e di rialzarsi dopo il fallimento e puntare a mansioni più redditizie.
La lettura è un lento declino familiare verso l'inesorabile e deprimente indigenza, la disperazione, la vergogna e la cruda povertà in cui la famiglia vive. O meglio sopravvive.
Lungo la trama, il protagonista si imbatte in altri rivenditori come lui che condividono la sensazione di emarginazione, di disadattamento.
il protagonista, nonostante il suo fallimento come rivenditore di pietre e l'autocommiserazione, non rinuncia ad abbandonare quel mercato infecondo per un lavoro più redditizio, continuando a nuocere economicamente alla famiglia perseverando testardamente sui suoi errori.
L'unico ad essergli sempre incondizionatamente vicino è il figlioletto dall'aria sempre affranta, che lo viene a prendere ogni sera dopo il "lavoro", mentre il rapporto con la moglie è crudo e drammatico.
Ottima secondo me la scelta di una trama non lineare, dove inizialmente non viene mostrato il volto di lei, colma di disprezzo per il marito tanto che nel primo capitolo fa addirittura finta di non conoscerlo per strada , una scena intensa nella sua semplicità, per poi procedere coi capitoli a ritroso nel tempo dove cominciamo a vedere non solo il volto della moglie, ma anche la complicità e l'affetto che inizialmente permaneva nel loro matrimonio, mostrando con grande impatto il lento deterioramento affettivo tra i due.
"L'uomo senza talento" viene definito l’autoritratto a fumetti più completo e raffinato dell'autore Yoshiharu Tsuge, il suo canto del cigno.
La Canicola edizioni ha fatto un'ottima edizione e ne consiglio caldamente la lettura a tutti.
Il dolente autoritratto a fumetti del leggendario maestro del Gekiga.
Da un po' di tempo nel convulso panorama del mercato italiano del manga qualche editore coraggioso sta provando a lanciare alcuni tra gli autori nipponici più interessanti del passato. Così succede che J-Pop traduca le opere di Kazuo Kamimura, Coconino Press dedichi un’intera collana al Gekiga e la piccola ma agguerrita casa editrice bolognese Canicola porti per la prima volta in Italia un titolo cult come L’uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge.
Considerata la sua importanza per il fumetto giapponese (e non solo), è abbastanza insolito constatare come Yoshiharu Tsuge rimanga pressoché sconosciuto al grande pubblico dei lettori di manga, e poco tradotto. Ritiratosi dalle scene nel 1987, questo schivo ed eccentrico mangaka ha lasciato un corpus di opere piuttosto modesto ma altamente significativo: circa 150 racconti realizzati nell'arco di tre decenni, connotati da uno stile spesso definito ishoku (unico), che hanno acceso la discussione sul valore artistico del manga in Giappone, creando attorno al loro autore un’aura di leggenda da artista underground paragonabile a quella di Robert Crumb negli Stati Uniti.
Nato nel 1937, orfano di padre a cinque anni, il piccolo Tsuge viene mandato a lavorare quando è ancora un bambino. La sua gioventù è segnata da un atteggiamento ribelle, dall’estrema povertà (dovette persino vendere il proprio sangue per mangiare) e dal disagio dei primi attacchi di depressione. I sogni di fuga lo pervadono: all’età di quattordici anni viene arrestato dalla guardia costiera dopo essersi nascosto nella stiva di una nave diretta in America e, a vent’anni, tenta il suicidio dopo il fallimento di una relazione sentimentale. Nel 1954 fa il suo debutto come fumettista con una serie di racconti per il mercato delle librerie a noleggio (kashihon). Dal 1965 lavora come assistente per Sanpei Shirato e Shigeru Mizuki e successivamente pubblica Nejishiki (1968), racconto sperimentale considerato da molti critici come il suo capolavoro, sulla storica rivista di fumetti alternativi Garo, fondata da Katsuichi Nagai e Yoshihiro Tatsumi.
Fin dall'inizio le sue opere aderiscono all'estetica che caratterizza molti fumetti destinati al noleggio, con quel particolare approccio realista che delinea i contorni di una vera e propria corrente, il Gekiga. Nell'ultimo periodo il suo stile assume un carattere sempre più introspettivo e autobiografico, andando a definire il cosiddetto manga watakushi (manga dell’io) che declina a fumetti la letteratura shishôsetsu (romanzo dell’io). Le vicende personali di Yoshiharu Tsuge e il suo lavoro di mangaka sono indissolubilmente interconnessi fra loro e i suoi fumetti, così come i suoi appunti di viaggio illustrati e gli altri scritti, forniscono una narrazione, più o meno consapevolmente romanzata, della sua stessa vita. Ne viene fuori un profilo di autore travagliato, fortemente pessimista, a tratti nichilista e borderline.
Nell’ambito del fumetto nipponico si potrebbe azzardare un paragone con il suo contemporaneo Keiji Nakazawa. Anch’egli da bambino aveva sperimentato in prima persona l’orrore della guerra con il bombardamento di Hiroshima e aveva raccontato la sua storia nel capolavoro Hadashi no Gen (Gen di Hiroshima, 1973-1985). Sebbene carica di indignazione, Gen è un'opera profondamente umanista che non manca di un certo ottimismo consolatorio. D’altro canto, nel suo racconto coevo di 24 pagine Oba Denki Mekki Kôgyôsho, Yoshiharu Tsuge pone l’accento sul vuoto di senso e sull’alienazione pervasiva nati dalle macerie del dopoguerra e, nei decenni successivi, dallo stordente boom economico. Basandosi direttamente sulla sua esperienza in fabbrica, l’autore denuncia senza retorica le condizioni di lavoro spaventose e disumane, nonché l'avvelenamento da cadmio subito dagli operai. In una scena surreale particolarmente struggente, un lavoratore anziano espelle letteralmente la sua vita da un buco nel pavimento mentre i suoi figli lo stanno a guardare.
L’uomo senza talento (nel titolo forse un riferimento a L'uomo senza qualità di Robert Musil) è l’autoritratto a fumetti più completo e raffinato di Yoshiharu Tsuge. Serializzato per la prima volta sulla rivista Comic Baku nel 1984, il racconto è considerato il canto del cigno della sua carriera. Suddiviso in sei capitoli, introdotti dalla voce off del protagonista, narra la vicenda esistenziale e spirituale di Sukesan Sukegawa, un uomo tormentato dalla frustrazione di non riuscire a sostenere la sua famiglia coi propri mezzi. Ex mangaka, Sukesan ha abbandonato una promettente carriera in seguito a una crisi creativa e morale, scegliendo di esiliarsi dal mondo dell'editoria per inseguire una serie di modeste aspirazioni. Partendo da vaghe intuizioni, il protagonista si sforza di far funzionare le cose a modo suo ma ogni volta si ritrova a scontrarsi con la realtà.
Egli respinge categoricamente l’ipotesi di tornare a disegnare fumetti, rifiutandosi di piegarsi alla logica del mercato e al giogo degli editori che renderebbe i mangaka simili a schiavi. Allo stesso tempo si ostina nell’affannoso tentativo di guadagnarsi da vivere prima come commerciante di macchine fotografiche di seconda mano, che egli ripara per poi rivendere a collezionisti del vintage, quindi come improbabile cercatore/venditore di pietre decorative, sempre a scopo di collezionismo, che egli si procura lungo le sponde del vicino fiume Tama. Questi vani tentativi di svolta sono emblematici della sua stessa carriera di mangaka, come la sua avvilita moglie non esita a rinfacciargli. Egli semplicemente non può avere successo e finisce per avvitarsi su sé stesso in una spirale di indolenza e autocommiserazione.
Capitolo dopo capitolo, l'autore riversa sulle pagine frammenti di vita quotidiana pregni di amare confessioni come in una lenta e lacerante catarsi. Sono episodi a sé stanti, ma nell’insieme formano una narrazione organica e strutturata che segue una cronologia non lineare. Il racconto si apre a momenti di disperazione quasi totale quando si sofferma sul difficile rapporto del protagonista con sua moglie, della quale inizialmente non ci viene mostrato il volto, che va progressivamente deteriorandosi nel reciproco malessere. In una toccante scena lei gli passa accanto per strada fingendo di non conoscerlo, in un misto di vergogna e disprezzo. La sua unica ancora di salvezza sembra essere suo figlio, che puntualmente scende ogni sera in riva al fiume, dove il nostro ha insediato un'umile bancarella come venditore di pietre, per poi accompagnarlo a casa al tramonto sullo sfondo di un mesto gracchiare di corvi.
I capitoli successivi vanno a ritroso nel tempo e ci narrano le varie fasi di disintegrazione dei legami affettivi. Incontriamo la coppia appena sposata in tempi più felici, quando ancora vive momenti di calore e di intima tenerezza, ma già mostra segni d’insofferenza e di comportamento nevrotico. Finalmente ci viene rivelato il viso della donna, ma la sensazione è che la stima per l'uomo stia inesorabilmente declinando. Nel dipingere in modo sincero e autoironico la sua famigliola, Yoshiharu Tsuge rende la maledizione della povertà in modo particolarmente intenso, ma è meno enfatico nella critica sociale rispetto a Nejishiki e Oba Denki Mekki Kôgyôsho, limitandosi a descrivere da una certa distanza la società consumista, divisa tra il rispetto della tradizione e la rincorsa ossessiva alla modernità, e che considera come non persone chiunque non contribuisca al benessere generale.
La tragedia è tutta interiore e la dolorosa analisi che l’autore si auto infligge si riflette in quella dei personaggi comprimari altrettanto emarginati e disadattati. Il crudo realismo dell’ambientazione si unisce ai toni aulici e contemplativi creando una strana atmosfera disincantata, carica in egual misura di irriverenza ed empatia. In una scena insolitamente comica, il dialogo tra il protagonista e un mercante suo amico, fatto di sofisticate elucubrazioni sul buddismo, sull’equilibrio interiore e sulla salvezza dell’anima, viene bruscamente interrotto da un sonoro peto emesso dalla moglie di quest'ultimo.
L’ultimo capitolo (Svanire) si focalizza sulla leggenda di un poeta vagabondo, Yanaginoya Seigetsu, vissuto a cavallo tra il periodo Edo e il Meiji, prima ben voluto dalla sua comunità perché dispensatore di bellezza a buon mercato, poi sempre più bistrattato, fino a diventare un pulcioso alcolizzato reietto con il corpo rinsecchito e ricoperto dei propri escrementi, che esala il suo ultimo respiro recitando un enigmatico haiku. La parabola del poeta diventa metafora stessa dell’esistenza del protagonista e riporta la storia al punto di partenza in una sorta di precaria circolarità.
Il segno grafico è scabro ed essenziale, specie nella caratterizzazione dei personaggi, spesso ritratti in pose sofferte ed espressioniste, e la griglia segue schemi regolari nella scansione delle vignette. Di contro non manca una certa ricercatezza nel dipingere gli scenari e la misurata eleganza esecutiva di alcune tavole, paragonabili a incisioni per intensità espressiva, raggiunge picchi di virtuosismo compositivo per l’estrema finezza nel tratteggio e la generosa dovizia di particolari.
Con la sua vivida rappresentazione della realtà, la sua poetica nostalgica e l’affettuoso ritratto dei suoi personaggi, L’uomo senza talento è un distillato di cruda e dolorosa bellezza, che al contempo esprime un pessimismo di fondo sulla condizione umana, temperato solo da fugaci momenti di effimera felicità e di insondabile fascinazione.
Nota per i moderatori: Recensione pubblicata in vetrina.
Da un po' di tempo nel convulso panorama del mercato italiano del manga qualche editore coraggioso sta provando a lanciare alcuni tra gli autori nipponici più interessanti del passato. Così succede che J-Pop traduca le opere di Kazuo Kamimura, Coconino Press dedichi un’intera collana al Gekiga e la piccola ma agguerrita casa editrice bolognese Canicola porti per la prima volta in Italia un titolo cult come L’uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge.
Considerata la sua importanza per il fumetto giapponese (e non solo), è abbastanza insolito constatare come Yoshiharu Tsuge rimanga pressoché sconosciuto al grande pubblico dei lettori di manga, e poco tradotto. Ritiratosi dalle scene nel 1987, questo schivo ed eccentrico mangaka ha lasciato un corpus di opere piuttosto modesto ma altamente significativo: circa 150 racconti realizzati nell'arco di tre decenni, connotati da uno stile spesso definito ishoku (unico), che hanno acceso la discussione sul valore artistico del manga in Giappone, creando attorno al loro autore un’aura di leggenda da artista underground paragonabile a quella di Robert Crumb negli Stati Uniti.
Nato nel 1937, orfano di padre a cinque anni, il piccolo Tsuge viene mandato a lavorare quando è ancora un bambino. La sua gioventù è segnata da un atteggiamento ribelle, dall’estrema povertà (dovette persino vendere il proprio sangue per mangiare) e dal disagio dei primi attacchi di depressione. I sogni di fuga lo pervadono: all’età di quattordici anni viene arrestato dalla guardia costiera dopo essersi nascosto nella stiva di una nave diretta in America e, a vent’anni, tenta il suicidio dopo il fallimento di una relazione sentimentale. Nel 1954 fa il suo debutto come fumettista con una serie di racconti per il mercato delle librerie a noleggio (kashihon). Dal 1965 lavora come assistente per Sanpei Shirato e Shigeru Mizuki e successivamente pubblica Nejishiki (1968), racconto sperimentale considerato da molti critici come il suo capolavoro, sulla storica rivista di fumetti alternativi Garo, fondata da Katsuichi Nagai e Yoshihiro Tatsumi.
Fin dall'inizio le sue opere aderiscono all'estetica che caratterizza molti fumetti destinati al noleggio, con quel particolare approccio realista che delinea i contorni di una vera e propria corrente, il Gekiga. Nell'ultimo periodo il suo stile assume un carattere sempre più introspettivo e autobiografico, andando a definire il cosiddetto manga watakushi (manga dell’io) che declina a fumetti la letteratura shishôsetsu (romanzo dell’io). Le vicende personali di Yoshiharu Tsuge e il suo lavoro di mangaka sono indissolubilmente interconnessi fra loro e i suoi fumetti, così come i suoi appunti di viaggio illustrati e gli altri scritti, forniscono una narrazione, più o meno consapevolmente romanzata, della sua stessa vita. Ne viene fuori un profilo di autore travagliato, fortemente pessimista, a tratti nichilista e borderline.
Nell’ambito del fumetto nipponico si potrebbe azzardare un paragone con il suo contemporaneo Keiji Nakazawa. Anch’egli da bambino aveva sperimentato in prima persona l’orrore della guerra con il bombardamento di Hiroshima e aveva raccontato la sua storia nel capolavoro Hadashi no Gen (Gen di Hiroshima, 1973-1985). Sebbene carica di indignazione, Gen è un'opera profondamente umanista che non manca di un certo ottimismo consolatorio. D’altro canto, nel suo racconto coevo di 24 pagine Oba Denki Mekki Kôgyôsho, Yoshiharu Tsuge pone l’accento sul vuoto di senso e sull’alienazione pervasiva nati dalle macerie del dopoguerra e, nei decenni successivi, dallo stordente boom economico. Basandosi direttamente sulla sua esperienza in fabbrica, l’autore denuncia senza retorica le condizioni di lavoro spaventose e disumane, nonché l'avvelenamento da cadmio subito dagli operai. In una scena surreale particolarmente struggente, un lavoratore anziano espelle letteralmente la sua vita da un buco nel pavimento mentre i suoi figli lo stanno a guardare.
L’uomo senza talento (nel titolo forse un riferimento a L'uomo senza qualità di Robert Musil) è l’autoritratto a fumetti più completo e raffinato di Yoshiharu Tsuge. Serializzato per la prima volta sulla rivista Comic Baku nel 1984, il racconto è considerato il canto del cigno della sua carriera. Suddiviso in sei capitoli, introdotti dalla voce off del protagonista, narra la vicenda esistenziale e spirituale di Sukesan Sukegawa, un uomo tormentato dalla frustrazione di non riuscire a sostenere la sua famiglia coi propri mezzi. Ex mangaka, Sukesan ha abbandonato una promettente carriera in seguito a una crisi creativa e morale, scegliendo di esiliarsi dal mondo dell'editoria per inseguire una serie di modeste aspirazioni. Partendo da vaghe intuizioni, il protagonista si sforza di far funzionare le cose a modo suo ma ogni volta si ritrova a scontrarsi con la realtà.
Egli respinge categoricamente l’ipotesi di tornare a disegnare fumetti, rifiutandosi di piegarsi alla logica del mercato e al giogo degli editori che renderebbe i mangaka simili a schiavi. Allo stesso tempo si ostina nell’affannoso tentativo di guadagnarsi da vivere prima come commerciante di macchine fotografiche di seconda mano, che egli ripara per poi rivendere a collezionisti del vintage, quindi come improbabile cercatore/venditore di pietre decorative, sempre a scopo di collezionismo, che egli si procura lungo le sponde del vicino fiume Tama. Questi vani tentativi di svolta sono emblematici della sua stessa carriera di mangaka, come la sua avvilita moglie non esita a rinfacciargli. Egli semplicemente non può avere successo e finisce per avvitarsi su sé stesso in una spirale di indolenza e autocommiserazione.
Capitolo dopo capitolo, l'autore riversa sulle pagine frammenti di vita quotidiana pregni di amare confessioni come in una lenta e lacerante catarsi. Sono episodi a sé stanti, ma nell’insieme formano una narrazione organica e strutturata che segue una cronologia non lineare. Il racconto si apre a momenti di disperazione quasi totale quando si sofferma sul difficile rapporto del protagonista con sua moglie, della quale inizialmente non ci viene mostrato il volto, che va progressivamente deteriorandosi nel reciproco malessere. In una toccante scena lei gli passa accanto per strada fingendo di non conoscerlo, in un misto di vergogna e disprezzo. La sua unica ancora di salvezza sembra essere suo figlio, che puntualmente scende ogni sera in riva al fiume, dove il nostro ha insediato un'umile bancarella come venditore di pietre, per poi accompagnarlo a casa al tramonto sullo sfondo di un mesto gracchiare di corvi.
I capitoli successivi vanno a ritroso nel tempo e ci narrano le varie fasi di disintegrazione dei legami affettivi. Incontriamo la coppia appena sposata in tempi più felici, quando ancora vive momenti di calore e di intima tenerezza, ma già mostra segni d’insofferenza e di comportamento nevrotico. Finalmente ci viene rivelato il viso della donna, ma la sensazione è che la stima per l'uomo stia inesorabilmente declinando. Nel dipingere in modo sincero e autoironico la sua famigliola, Yoshiharu Tsuge rende la maledizione della povertà in modo particolarmente intenso, ma è meno enfatico nella critica sociale rispetto a Nejishiki e Oba Denki Mekki Kôgyôsho, limitandosi a descrivere da una certa distanza la società consumista, divisa tra il rispetto della tradizione e la rincorsa ossessiva alla modernità, e che considera come non persone chiunque non contribuisca al benessere generale.
La tragedia è tutta interiore e la dolorosa analisi che l’autore si auto infligge si riflette in quella dei personaggi comprimari altrettanto emarginati e disadattati. Il crudo realismo dell’ambientazione si unisce ai toni aulici e contemplativi creando una strana atmosfera disincantata, carica in egual misura di irriverenza ed empatia. In una scena insolitamente comica, il dialogo tra il protagonista e un mercante suo amico, fatto di sofisticate elucubrazioni sul buddismo, sull’equilibrio interiore e sulla salvezza dell’anima, viene bruscamente interrotto da un sonoro peto emesso dalla moglie di quest'ultimo.
L’ultimo capitolo (Svanire) si focalizza sulla leggenda di un poeta vagabondo, Yanaginoya Seigetsu, vissuto a cavallo tra il periodo Edo e il Meiji, prima ben voluto dalla sua comunità perché dispensatore di bellezza a buon mercato, poi sempre più bistrattato, fino a diventare un pulcioso alcolizzato reietto con il corpo rinsecchito e ricoperto dei propri escrementi, che esala il suo ultimo respiro recitando un enigmatico haiku. La parabola del poeta diventa metafora stessa dell’esistenza del protagonista e riporta la storia al punto di partenza in una sorta di precaria circolarità.
Il segno grafico è scabro ed essenziale, specie nella caratterizzazione dei personaggi, spesso ritratti in pose sofferte ed espressioniste, e la griglia segue schemi regolari nella scansione delle vignette. Di contro non manca una certa ricercatezza nel dipingere gli scenari e la misurata eleganza esecutiva di alcune tavole, paragonabili a incisioni per intensità espressiva, raggiunge picchi di virtuosismo compositivo per l’estrema finezza nel tratteggio e la generosa dovizia di particolari.
Con la sua vivida rappresentazione della realtà, la sua poetica nostalgica e l’affettuoso ritratto dei suoi personaggi, L’uomo senza talento è un distillato di cruda e dolorosa bellezza, che al contempo esprime un pessimismo di fondo sulla condizione umana, temperato solo da fugaci momenti di effimera felicità e di insondabile fascinazione.
Nota per i moderatori: Recensione pubblicata in vetrina.
Brevissimo manga di Yoshiharu Tsuge, noto ai cultori del manga più underground ed oscuro grazie al suo seminale "Screw-Style" (citato in quasi ogni enciclopedia del manga). Qui l'autore riprende, in chiave meno onirica ma forse anche più pessimistica, i temi e toni del suo lavoro più famoso: la caduta del protagonista e la sua famiglia nel vortice dell'indigenza è essenzialmente un pretesto per raccontare la grettezza, avidità e piccoli odi di esseri umani disposti a pugnalarsi senza quartiere anche tra familiari, pur di scavarsi un minimo spazio vitale, salvo poi cadere di nuovo seguendo sogni di vanagloria.
Il tratto sterile, essenziale e "vecchia scuola" rafforza soltanto l'atmosfera plumbea e deprimente del manga, dipingendo la miseria umana attraverso facce distorte e scene da caricatura satirica. Non raggiunge certo i livelli di straniamento dei successi precedenti di Yoshiharu, ma di sicuro è un logico sviluppo dell'analisi umana che il mangaka porta avanti da anni.
Il tratto sterile, essenziale e "vecchia scuola" rafforza soltanto l'atmosfera plumbea e deprimente del manga, dipingendo la miseria umana attraverso facce distorte e scene da caricatura satirica. Non raggiunge certo i livelli di straniamento dei successi precedenti di Yoshiharu, ma di sicuro è un logico sviluppo dell'analisi umana che il mangaka porta avanti da anni.