Riportiamo un interessante articolo di Davide Castellazzi, dal suo blog fumetti&robot:


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Il copyright nella terra dei manga

«La tutela del diritto d’autore assume in Giappone dei risvolti leggermenti inquietanti, fatti di eccessi di controllo e di larvate minacce. Chi scrive non è un legale e non ha una conoscenza approfondita del diritto nipponico, quindi le riflessioni che seguono sono esclusivamente frutto di anni di esperienze personali, costantemente a contatto con editori e autori giapponesi. Inoltre, preciso subito di essere uno strenuo difensore del diritto d’autore, ma ritengo che che certe prese di posizione “estreme” siano insensate e creino più danni che vantaggi agli autori e alle loro opere.

Il problema di fondo consiste nel fatto che gli editori giapponesi non riconoscono, nemmeno minimamente, il diritto di citazione. In altre parole l’utilizzo di anche una sola immagine per illustrare un articolo, una recensione, un saggio dedicato a un loro fumetto, viene da loro etichettato come “pirateria”. Una rivista come Scuola di fumetto, per esempio, è per gli editori giapponesi impensabile (infatti in Giappone le riviste di informazione sui manga sono quasi inesistenti), dato che per ogni immagine andrebbe richiesta autorizzazione alla rispettiva casa editrice. E il problema non si limita al fatto di dover chiedere un permesso (cosa lunga e faticosa, ma fattibile), bensì si ingigantisce di fronte alle conseguenze della richiesta. L’editore giapponese, infatti, per concedere anche una sola immagine chiederà di leggere l’articolo (e subito si prospetta il problema della libertà di stampa, dato che non prenderà con benevolenza nessuna critica), magari vorrà del denaro per l’utilizzo dell’immagine, spesso obietterà che non vuole che su una stessa pubblicazione siano presenti suoi manga vicino a manga di editori concorrenti. Insomma, paralizzerà per mesi la pubblicazione, rendendo l’atto di cortesia iniziale (la richiesta di autorizzazione a usare l’immagine) una vera e propria mina vagante.

Tutto ciò diventa ancora più paradossale di fronte al fatto che in realtà gli editori giapponesi il più delle volte non possiedono i diritti dei manga, i quali restano saldamente nelle mani degli artisti (al contrario di alcuni editori occidentali, come Disney o Marvel, che hanno il controllo totale sui propri personaggi). In pratica, l’editore svolge un ruolo da intermediario, quasi da agente, ma non può disporre a piacimento dell’opera altrui. Infatti, i mangaka devono dare il proprio benestare prima che l’editore firmi un contratto per un’edizione estera. Si penserà allora che siano gli artisti a essere così gelosi e protezionisti nei confronti dei loro lavori. Spesso, invece, non è così, sono al contrario ignari, o indifferenti, di fronte al “pressing” delle case editrici.

Per fare un esempio pratico, quando ero editor dell’edizione italiana di un manga di Toshiki Yui chiesi all’autore una piccola intervista da pubblicare in appendice all’albo. Molto cortesemente, Yui acconsentì volentieri. Una volta pubblicato il manga, però, ricevetti un severo rimprovero dalla casa editrice giapponese, la Shueisha, che, in sintesi, mi chiedeva chi mi avesse autorizzato. A parte l’illogicità della domanda (era ovvio che mi avesse autorizzato l’autore, dato che era stato lui a rispondere alle domande), sorprendente fu il fatto che anche Yui rimase molto meravigliato della cosa, dato che giustamente riteneva di potere concedere interviste a chicchessia e dato che i diritti del manga erano in ultima istanza suoi.

Gli editori nipponici, insomma, cercano di mantenere un controllo strettissimo sulle opere che pubblicano, anche quando non ne hanno un vero diritto e anche quando questo diventa deleterio, dato che tende a bloccare una maggiore informazione (e quindi pubblicità) sui manga. Certamente un Dragonball e un One Piece (tanto per fare due nomi), già estremamente popolari in tutto il mondo, non necessitano di pubblicità, ma serie e autori meno commmerciali e meno noti possono solo ottenere dei vantaggi da una rassegna stampa che li presenti a un pubblico che ancora non li conosce. Un concetto che i grandi editori giapponesi (o i loro modesti funzionari) ancora non sembrano avere compreso
».