L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Anche il Giappone è un paese in cui il lavoro è parte fondamentale dell'individuo; il problema è che a volte lo è troppo, perché in Giappone il lavoro può portare alla morte. Esiste una parola "Karoshi" che significa appunto "morte da troppo lavoro"; è usata raramente, perché fa paura, perché è quasi una vergogna. Fa coppia con Karojisatsu, termine con il quale si indica il suicidio per il troppo lavoro. Ma come si arriva a tanto?
Il vocabolo karoshi è apparso per la prima volta nei dati statistici del Ministero della salute, del lavoro e del welfare giapponese nel 1987 e dal 2002 è stato aggiunto nell'Oxford English Dictionary.
Ma le morti per troppo lavoro erano iniziate molti anni prima: una su tutte fu il decesso del mangaka Eiichi Fukui, autore di manga per bambini come Batto-kun, Igaguri-kun e Akado Suzunosuke; sempre più sfinito dalla mole di lavoro a cui era sottoposto, finì per crollare e il 26 giugno 1954 si spense all'età di 33 anni.
Il primo caso registrato ufficialmente risale invece al 1969: un ragazzo occupato nel reparto spedizioni del principale quotidiano giapponese morì di ictus, fatto un po’ insolito per un 29enne.
Quasi un decennio più tardi, nel 1978, si è avuta la prima definizione ufficiale di karoshi e nel 1982 l'uscita del libro intitolato "Karoshi" scritto da Tajiri Seiichiro, Hosokawa e Uehata ha fatto sì che il grande pubblico ne venisse a conoscenza, ma è stato solo con lo scoppio della bolla economica alla fine degli anni 80 (che mise in ginocchio il Giappone) che si è presa coscienza della vera entità del problema.
Secondo un'indagine compiuta nel 1988 infatti, quasi un quarto dei dipendenti di sesso maschile (7,8 milioni) aveva lavorato più di 60 ore alla settimana, quasi 2,4 volte in più rispetto al 1975. Una tipica settimana di lavoro era composta da 70-90 ore. Tutto questo per dimostrare la propria fedeltà all'azienda, tratto tipico della cultura giapponese, per cui si vive per il proprio padrone o superiore.
Da allora, il numero delle morti per troppo lavoro è sempre aumentato, con circa 9.000 morti all'anno.
Molto spesso inoltre il lavoro straordinario è detto furoshiki, (che letteralmente vuol dire nascoste nel fagottino della spesa), perché i dipendenti lo fanno a casa dove, con il tacito consenso dei manager, continuano ciò che non sono riusciti a terminare in ufficio o in fabbrica. In ogni caso, comunque e ovunque siano fatte, a nessuno salta in mente di esigerne il pagamento, perché non sono altro che il pegno da pagare per dimostrare la propria lealtà verso la ditta.
Il 90% dei lavoratori ha dichiarato che non avrebbe problemi ad annullare eventuali impegni privati se il capo chiedesse loro di fare gli straordinari, non capendo la necessità di cercare un equilibrio tra vita privata e lavoro.
Oppure capendolo bene, ma rinunciandovi perché il rischio di essere licenziati è molto alto e la decisione spesso inoppugnabile, in quanto la Corte Suprema è quasi sempre dalla parte delle ditte. Molto noto è infatti il caso in cui i giudici hanno rifiutato la richiesta di un'organizzazione sindacale di rendere pubblici i nomi delle ditte in cui si verificavano decessi sul lavoro classificabili come karoshi, perché così "si sarebbe danneggiata la reputazione dell'azienda".
Oppure quello in cui la Corte ha dato ragione alla Hitachi per aver licenziato un dipendente che aveva rifiutato, a 15 minuti dal termine del suo lungo turno giornaliero, di fare cinque ore di straordinario, causa impegni improrogabili presi in precedenza. Peccato poi che lo stesso lavoratore, il giorno seguente, si fosse presentato spontaneamente al lavoro all'alba per completare oltre al proprio lavoro ordinario anche quello straordinario che gli era stato chiesto il giorno prima. Ciò non è stato sufficiente: la ditta ha disapprovato il suo comportamento e siccome il lavoratore si rifiutava di ammettere di aver agito scorrettamente, è stato licenziato e la Corte Suprema non ha trovato appunto nulla da ridire.
Stando alla definizione del Ministero della salute, del lavoro e del welfare possono essere classificate come karoshi le morti improvvise di dipendenti che hanno lavorato una media di 65 o più ore a settimana per oltre quattro settimane consecutive (senza giorni di riposo) o una media di 60 ore settimanali per più di 8 settimane consecutive.
Il problema è che questa già allarmante definizione è ampiamente sorpassata dalla realtà certificata dall'organizzazione sindacale mondiale Labor Force Survey che ritiene che una settimana tipica di un lavoratore giapponese, sia esso operaio o quadro dirigente, va normalmente da 70 a 90 ore.
Senza contare che sia le autorità governative che le aziende cercano di limitare il più possibile la classificazione di karoshi per le morti improvvise dei loro lavoratori, anche quando è evidente il contrario come nel caso della morte per infarto di un camionista che aveva guidato per sette anni per circa 6.000 ore all'anno (circa 17 ore al giorno) senza mai un giorno di riposo.
Verrebbe da chiedersi perché e come si finisca per annientarsi per l'azienda.
Secondo uno studio condotto congiuntamente dal prof. Katsuo Nishiyama (docente di medicina preventiva dell'università giapponese di Otsu) e dal prof. Jeffrey Johnson (docente di scienze comportamentali dell'università americana Johns Hopkins), le grandi industrie giapponesi sono riuscite ad inculcare nei lavoratori il concetto che dipendenti e padroni condividono lo stesso destino, grazie a molte attività formali e informali, erodendo così ogni potere dei sindacati che sono diventati solo strumenti di controllo dei lavoratori.
C'è poi il nuovo fenomeno degli interinali che costituiscono circa un terzo della forza lavoro giapponese: essere interinali significa meno paga e quasi nessun diritto, anche dopo anni di lavoro nella stessa azienda. L'impiego fisso è ormai una reliquia del passato e un miraggio. Se qualcuno sta all’interno di un'azienda per più di cinque anni si suppone sia destinato a un posto fisso, ma nella realtà, raggiunto quel traguardo, il dipendente è licenziato.
Ci sono ditte, conosciute con il nome di "Aziende Nere", particolarmente inclini allo sfruttamento: per paura di essere sostituiti da un momento all'altro, i lavoratori assecondano i loro superiori in tutto, facendo straordinari folli non retribuiti e arrivando a contraffare l’ammontare di ore di lavoro registrate per tenere l’azienda fuori dai guai.
Senza contare alcune regole non scritte tradizionali per cui, in molti casi, lasciare l'ufficio prima di una persona più anziana è ancora considerato scortese o sconveniente.
Si entra così in un circolo vizioso: il lavoratore vive di solito in periferia, il tragitto per andare in ufficio è lungo, si sposta su un treno affollato e arriva in ufficio già stanco perché è stato in piedi per tutto il viaggio. Poi lavora sino alle 23:00 o a mezzanotte, torna a casa con lo stesso treno affollato e non può stare sveglio per rilassarsi con la famiglia o gli amici perché il giorno dopo deve lavorare. Sopporta perciò una continua privazione del sonno e va avanti per forza di inerzia.
Ma qualcosa inizia a muoversi: l'aumento dell'importanza che i media stanno dando al fenomeno e le prime battaglie sindacali vinte dalle famiglie delle vittime dei karoshi hanno fatto sì che le grandi corporazioni e il governo prendessero le prime timide iniziative.
Ad esempio il colosso bancario Mitsubishi permette ai lavoratori di andarsene a casa massimo tre ore prima della fine del turno per prendersi cura dei figli piccoli o dei genitori anziani: il problema è che solo 34 dei 7.000 dipendenti dell'istituto hanno deciso di sfruttare questa possibilità.
Circa un anno fa è stata poi varata una legge che obbliga il governo a prendere misure per eliminare le morti o i suicidi per troppo lavoro, facendo ricerche sulla realtà dei rischi per la salute e riferendo i risultati ogni anno alla Dieta (il principale organo di governo giapponese). Inoltre questa legge prevede che siano attuati programmi pubblici di chiarimento circa i rischi da superlavoro, istituiti sistemi di consulenza e che sia fornito il giusto sostegno alle organizzazioni non governative che si occupano della questione.
È invece di questa primavera il disegno di legge approvato dal Primo Ministro Shinzo Abe che prevede di esentare i colletti bianchi che guadagnano più di 10.750.000 yen all'anno (circa 80.000 euro), come ad esempio i rivenditori e i consulenti finanziari, dall'avere un limite di ore lavorative. In questo modo, affermano i sostenitori della riforma, verrebbero premiati i lavoratori più produttivi non in termini di ore ma di obbiettivi raggiunti, non importa in quanto tempo, rendendo più flessibile l'orario di lavoro. Inoltre sarebbe lasciata ad ogni singolo impiegato la possibilità di scegliere se usufruire o meno della cosa, in accordo con l'azienda.
I detrattori invece dichiarano che è tutto fumo negli occhi: per i dipendenti potrebbe essere difficile rifiutare l'offerta di passare al nuovo modello e alla fine sarebbero costretti a lavorare più a lungo senza pagamento degli straordinari. Secondo Koji Morioka, professore emerito di economia presso la Kwansei Gakuin University e autore di "The Age of Overwork" (L'era del lavoro eccessivo), questo potrebbe aumentare il numero di decessi legati al superlavoro, invece di diminuirli.
Per fare un confronto con le altre realtà lavorative, secondo l'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo, mentre circa il 22,3% dei dipendenti giapponesi lavora 50 ore o più alla settimana in media, in Gran Bretagna sono il 12,7%, negli Stati Uniti l'11,3%, in Germania il 5,3%, in Finlandia il 4,5%, in Svezia l'1,9%, nei Paesi Bassi l'1,4% e in Francia l'8,2%. Se aggiungiamo il fatto che molte ore di straordinario giapponesi non sono registrate e quindi non sono prese in considerazione dalle statistiche, avremo un quadro decisamente allarmante.
Inoltre in Giappone nel 2013 il 16 per cento dei lavoratori a tempo pieno non ha preso ferie pagate, mentre gli altri hanno preso solo la metà delle vacanze che gli sarebbero spettate. Nello stesso anno il conteggio ufficiale era di 196 decessi (infarti e ictus sono le patologie più comuni) e/o suicidi legati alle eccessive ore di lavoro, ma in molti sostengono che questa sia solo la punta dell'iceberg.
Infatti molte famiglie accettano la morte di un loro caro con il silenzio e non portano avanti ulteriormente la questione; la maggior parte delle aziende poi non ammette la responsabilità per la morte.
Avvocati e studiosi stimano perciò il numero annuo di vittime per karoshi intorno ai 9.000 decessi, molto vicino al numero annuale di morti per incidenti stradali.
Emblematica la storia di Yuji Uendan, 23 anni, che nel marzo del 1999, in preda a una forte depressione causata dall'eccesso di lavoro, si è tolto la vita. È stato trovato nel suo appartamento di Kumagaya, alla periferia di Tokyo: su una lavagnetta bianca che usava per appuntare l'elenco degli appuntamenti giornalieri aveva scritto "Tutto il tempo che ho passato è stato sprecato".
Uendan aveva lavorato per quasi 16 mesi nella fabbrica della Nikon a Kumagaya, come ispettore di apparecchiature per la produzione di semiconduttori, in una stanza asettica illuminata da una luce giallastra, con indosso una divisa bianca sterile.
Era stato assunto dalla Nextar per incarichi a termine alla Nikon, una delle principali produttrici giapponesi di macchine fotografiche. Faceva turni di giorno e di notte di 11 ore a rotazione, con straordinari e viaggi extra che gli facevano raggiungere le 250 ore al mese. Nell'ultimo periodo prima di morire era arrivato a 15 ore consecutive senza un giorno libero; lamentava mal di stomaco, insonnia, intorpidimento delle estremità ed era dimagrito in pochi mesi di ben 13 chili.
La madre di Yuji, Noriko Uendan, 59 anni, ha deciso di dare battaglia e nel marzo del 2005, il tribunale distrettuale di Tokyo ha dichiarato che sia la Nextar sia la Nikon erano da ritenersi responsabili per la morte di Uendan e ha ordinato a entrambe le aziende il risarcimento dei danni. Hiroshi Kawahito, segretario generale del Consiglio di difesa nazionale per le vittime di karoshi e avvocato della Uendan, ha dichiarato che è stata una vittoria senza precedenti, in quanto per la prima volta sia l'azienda che forniva personale temporaneo, che quella che lo riceveva, sono state condannate per negligenza.
La causa non è ancora conclusa: entrambe le aziende sono ricorse in appello, ma la madre della vittima non intende darsi per vinta. "Ho giurato su mio figlio mentre era in coma che non mi sarei mai arresa" ha detto Noriko "e spero davvero che in futuro le aziende giapponesi lascino avere vite dignitose ai propri dipendenti, tanto da arrivare a morire di vecchiaia".
Ma di storie simili ce ne sono tante e si spera che a furia di raccontarle serviranno a salvare e a migliorare le vite di moltissimi altri.
Fonti consultate:
Japantimes 1
Japantimes 2
Tofugu
Infoaut
Dagospia
Repubblica
Il vocabolo karoshi è apparso per la prima volta nei dati statistici del Ministero della salute, del lavoro e del welfare giapponese nel 1987 e dal 2002 è stato aggiunto nell'Oxford English Dictionary.
Ma le morti per troppo lavoro erano iniziate molti anni prima: una su tutte fu il decesso del mangaka Eiichi Fukui, autore di manga per bambini come Batto-kun, Igaguri-kun e Akado Suzunosuke; sempre più sfinito dalla mole di lavoro a cui era sottoposto, finì per crollare e il 26 giugno 1954 si spense all'età di 33 anni.
Il primo caso registrato ufficialmente risale invece al 1969: un ragazzo occupato nel reparto spedizioni del principale quotidiano giapponese morì di ictus, fatto un po’ insolito per un 29enne.
Quasi un decennio più tardi, nel 1978, si è avuta la prima definizione ufficiale di karoshi e nel 1982 l'uscita del libro intitolato "Karoshi" scritto da Tajiri Seiichiro, Hosokawa e Uehata ha fatto sì che il grande pubblico ne venisse a conoscenza, ma è stato solo con lo scoppio della bolla economica alla fine degli anni 80 (che mise in ginocchio il Giappone) che si è presa coscienza della vera entità del problema.
Secondo un'indagine compiuta nel 1988 infatti, quasi un quarto dei dipendenti di sesso maschile (7,8 milioni) aveva lavorato più di 60 ore alla settimana, quasi 2,4 volte in più rispetto al 1975. Una tipica settimana di lavoro era composta da 70-90 ore. Tutto questo per dimostrare la propria fedeltà all'azienda, tratto tipico della cultura giapponese, per cui si vive per il proprio padrone o superiore.
Da allora, il numero delle morti per troppo lavoro è sempre aumentato, con circa 9.000 morti all'anno.
Molto spesso inoltre il lavoro straordinario è detto furoshiki, (che letteralmente vuol dire nascoste nel fagottino della spesa), perché i dipendenti lo fanno a casa dove, con il tacito consenso dei manager, continuano ciò che non sono riusciti a terminare in ufficio o in fabbrica. In ogni caso, comunque e ovunque siano fatte, a nessuno salta in mente di esigerne il pagamento, perché non sono altro che il pegno da pagare per dimostrare la propria lealtà verso la ditta.
Il 90% dei lavoratori ha dichiarato che non avrebbe problemi ad annullare eventuali impegni privati se il capo chiedesse loro di fare gli straordinari, non capendo la necessità di cercare un equilibrio tra vita privata e lavoro.
Oppure capendolo bene, ma rinunciandovi perché il rischio di essere licenziati è molto alto e la decisione spesso inoppugnabile, in quanto la Corte Suprema è quasi sempre dalla parte delle ditte. Molto noto è infatti il caso in cui i giudici hanno rifiutato la richiesta di un'organizzazione sindacale di rendere pubblici i nomi delle ditte in cui si verificavano decessi sul lavoro classificabili come karoshi, perché così "si sarebbe danneggiata la reputazione dell'azienda".
Oppure quello in cui la Corte ha dato ragione alla Hitachi per aver licenziato un dipendente che aveva rifiutato, a 15 minuti dal termine del suo lungo turno giornaliero, di fare cinque ore di straordinario, causa impegni improrogabili presi in precedenza. Peccato poi che lo stesso lavoratore, il giorno seguente, si fosse presentato spontaneamente al lavoro all'alba per completare oltre al proprio lavoro ordinario anche quello straordinario che gli era stato chiesto il giorno prima. Ciò non è stato sufficiente: la ditta ha disapprovato il suo comportamento e siccome il lavoratore si rifiutava di ammettere di aver agito scorrettamente, è stato licenziato e la Corte Suprema non ha trovato appunto nulla da ridire.
Stando alla definizione del Ministero della salute, del lavoro e del welfare possono essere classificate come karoshi le morti improvvise di dipendenti che hanno lavorato una media di 65 o più ore a settimana per oltre quattro settimane consecutive (senza giorni di riposo) o una media di 60 ore settimanali per più di 8 settimane consecutive.
Il problema è che questa già allarmante definizione è ampiamente sorpassata dalla realtà certificata dall'organizzazione sindacale mondiale Labor Force Survey che ritiene che una settimana tipica di un lavoratore giapponese, sia esso operaio o quadro dirigente, va normalmente da 70 a 90 ore.
Senza contare che sia le autorità governative che le aziende cercano di limitare il più possibile la classificazione di karoshi per le morti improvvise dei loro lavoratori, anche quando è evidente il contrario come nel caso della morte per infarto di un camionista che aveva guidato per sette anni per circa 6.000 ore all'anno (circa 17 ore al giorno) senza mai un giorno di riposo.
Verrebbe da chiedersi perché e come si finisca per annientarsi per l'azienda.
Secondo uno studio condotto congiuntamente dal prof. Katsuo Nishiyama (docente di medicina preventiva dell'università giapponese di Otsu) e dal prof. Jeffrey Johnson (docente di scienze comportamentali dell'università americana Johns Hopkins), le grandi industrie giapponesi sono riuscite ad inculcare nei lavoratori il concetto che dipendenti e padroni condividono lo stesso destino, grazie a molte attività formali e informali, erodendo così ogni potere dei sindacati che sono diventati solo strumenti di controllo dei lavoratori.
C'è poi il nuovo fenomeno degli interinali che costituiscono circa un terzo della forza lavoro giapponese: essere interinali significa meno paga e quasi nessun diritto, anche dopo anni di lavoro nella stessa azienda. L'impiego fisso è ormai una reliquia del passato e un miraggio. Se qualcuno sta all’interno di un'azienda per più di cinque anni si suppone sia destinato a un posto fisso, ma nella realtà, raggiunto quel traguardo, il dipendente è licenziato.
Ci sono ditte, conosciute con il nome di "Aziende Nere", particolarmente inclini allo sfruttamento: per paura di essere sostituiti da un momento all'altro, i lavoratori assecondano i loro superiori in tutto, facendo straordinari folli non retribuiti e arrivando a contraffare l’ammontare di ore di lavoro registrate per tenere l’azienda fuori dai guai.
Senza contare alcune regole non scritte tradizionali per cui, in molti casi, lasciare l'ufficio prima di una persona più anziana è ancora considerato scortese o sconveniente.
Si entra così in un circolo vizioso: il lavoratore vive di solito in periferia, il tragitto per andare in ufficio è lungo, si sposta su un treno affollato e arriva in ufficio già stanco perché è stato in piedi per tutto il viaggio. Poi lavora sino alle 23:00 o a mezzanotte, torna a casa con lo stesso treno affollato e non può stare sveglio per rilassarsi con la famiglia o gli amici perché il giorno dopo deve lavorare. Sopporta perciò una continua privazione del sonno e va avanti per forza di inerzia.
Ma qualcosa inizia a muoversi: l'aumento dell'importanza che i media stanno dando al fenomeno e le prime battaglie sindacali vinte dalle famiglie delle vittime dei karoshi hanno fatto sì che le grandi corporazioni e il governo prendessero le prime timide iniziative.
Ad esempio il colosso bancario Mitsubishi permette ai lavoratori di andarsene a casa massimo tre ore prima della fine del turno per prendersi cura dei figli piccoli o dei genitori anziani: il problema è che solo 34 dei 7.000 dipendenti dell'istituto hanno deciso di sfruttare questa possibilità.
Circa un anno fa è stata poi varata una legge che obbliga il governo a prendere misure per eliminare le morti o i suicidi per troppo lavoro, facendo ricerche sulla realtà dei rischi per la salute e riferendo i risultati ogni anno alla Dieta (il principale organo di governo giapponese). Inoltre questa legge prevede che siano attuati programmi pubblici di chiarimento circa i rischi da superlavoro, istituiti sistemi di consulenza e che sia fornito il giusto sostegno alle organizzazioni non governative che si occupano della questione.
È invece di questa primavera il disegno di legge approvato dal Primo Ministro Shinzo Abe che prevede di esentare i colletti bianchi che guadagnano più di 10.750.000 yen all'anno (circa 80.000 euro), come ad esempio i rivenditori e i consulenti finanziari, dall'avere un limite di ore lavorative. In questo modo, affermano i sostenitori della riforma, verrebbero premiati i lavoratori più produttivi non in termini di ore ma di obbiettivi raggiunti, non importa in quanto tempo, rendendo più flessibile l'orario di lavoro. Inoltre sarebbe lasciata ad ogni singolo impiegato la possibilità di scegliere se usufruire o meno della cosa, in accordo con l'azienda.
I detrattori invece dichiarano che è tutto fumo negli occhi: per i dipendenti potrebbe essere difficile rifiutare l'offerta di passare al nuovo modello e alla fine sarebbero costretti a lavorare più a lungo senza pagamento degli straordinari. Secondo Koji Morioka, professore emerito di economia presso la Kwansei Gakuin University e autore di "The Age of Overwork" (L'era del lavoro eccessivo), questo potrebbe aumentare il numero di decessi legati al superlavoro, invece di diminuirli.
Per fare un confronto con le altre realtà lavorative, secondo l'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo, mentre circa il 22,3% dei dipendenti giapponesi lavora 50 ore o più alla settimana in media, in Gran Bretagna sono il 12,7%, negli Stati Uniti l'11,3%, in Germania il 5,3%, in Finlandia il 4,5%, in Svezia l'1,9%, nei Paesi Bassi l'1,4% e in Francia l'8,2%. Se aggiungiamo il fatto che molte ore di straordinario giapponesi non sono registrate e quindi non sono prese in considerazione dalle statistiche, avremo un quadro decisamente allarmante.
Inoltre in Giappone nel 2013 il 16 per cento dei lavoratori a tempo pieno non ha preso ferie pagate, mentre gli altri hanno preso solo la metà delle vacanze che gli sarebbero spettate. Nello stesso anno il conteggio ufficiale era di 196 decessi (infarti e ictus sono le patologie più comuni) e/o suicidi legati alle eccessive ore di lavoro, ma in molti sostengono che questa sia solo la punta dell'iceberg.
Infatti molte famiglie accettano la morte di un loro caro con il silenzio e non portano avanti ulteriormente la questione; la maggior parte delle aziende poi non ammette la responsabilità per la morte.
Avvocati e studiosi stimano perciò il numero annuo di vittime per karoshi intorno ai 9.000 decessi, molto vicino al numero annuale di morti per incidenti stradali.
Emblematica la storia di Yuji Uendan, 23 anni, che nel marzo del 1999, in preda a una forte depressione causata dall'eccesso di lavoro, si è tolto la vita. È stato trovato nel suo appartamento di Kumagaya, alla periferia di Tokyo: su una lavagnetta bianca che usava per appuntare l'elenco degli appuntamenti giornalieri aveva scritto "Tutto il tempo che ho passato è stato sprecato".
Uendan aveva lavorato per quasi 16 mesi nella fabbrica della Nikon a Kumagaya, come ispettore di apparecchiature per la produzione di semiconduttori, in una stanza asettica illuminata da una luce giallastra, con indosso una divisa bianca sterile.
Era stato assunto dalla Nextar per incarichi a termine alla Nikon, una delle principali produttrici giapponesi di macchine fotografiche. Faceva turni di giorno e di notte di 11 ore a rotazione, con straordinari e viaggi extra che gli facevano raggiungere le 250 ore al mese. Nell'ultimo periodo prima di morire era arrivato a 15 ore consecutive senza un giorno libero; lamentava mal di stomaco, insonnia, intorpidimento delle estremità ed era dimagrito in pochi mesi di ben 13 chili.
La madre di Yuji, Noriko Uendan, 59 anni, ha deciso di dare battaglia e nel marzo del 2005, il tribunale distrettuale di Tokyo ha dichiarato che sia la Nextar sia la Nikon erano da ritenersi responsabili per la morte di Uendan e ha ordinato a entrambe le aziende il risarcimento dei danni. Hiroshi Kawahito, segretario generale del Consiglio di difesa nazionale per le vittime di karoshi e avvocato della Uendan, ha dichiarato che è stata una vittoria senza precedenti, in quanto per la prima volta sia l'azienda che forniva personale temporaneo, che quella che lo riceveva, sono state condannate per negligenza.
La causa non è ancora conclusa: entrambe le aziende sono ricorse in appello, ma la madre della vittima non intende darsi per vinta. "Ho giurato su mio figlio mentre era in coma che non mi sarei mai arresa" ha detto Noriko "e spero davvero che in futuro le aziende giapponesi lascino avere vite dignitose ai propri dipendenti, tanto da arrivare a morire di vecchiaia".
Ma di storie simili ce ne sono tante e si spera che a furia di raccontarle serviranno a salvare e a migliorare le vite di moltissimi altri.
Fonti consultate:
Japantimes 1
Japantimes 2
Tofugu
Infoaut
Dagospia
Repubblica
Complimenti ad Hachi, ci tenevo particolarmente a questo articolo che rende più chiaro uno dei mali nipponici che sembra più una leggenda metropolitana e invece...
Purtroppo il "lavorare per gli altri sempre e comunque fino a morirne" è un concetto fin troppo radicato nella mentalità giapponese, per loro l'avere tempo libero viene visto come un "disonore", se poi pensiamo che il più grande "sogno giapponese" (passatemi il termine) del giapponese medio è di essere assunto in una grande azienda e diventare impiegato......
E purtroppo, anche se in misura diversa (ma neanche tanto alla fine), questo "modello" lavorativo inizia ad essere pure esportato all'estero e in Italia, dove le aziende sfruttano i nuovi assunti o precari......per carità non dico fino alla morte, ma di sicuro di poco sotto i limiti della sopportazione umana.
Pensando al lavoro in Giappone poi mi torna in mente che alle superiori ho avuto come compagno di classe un giapponese che è stato in Italia per un anno con uno scambio interculturale, ricordo che era rimasto impressionato che l'orario scolastico finisse "già" all'ora di pranzo e che avessimo tre mesi di vacanza in estate ("date molto spazio al tempo libero!" mi disse) e ricordo ancora quando qualche anno fa è tornato in Italia per un breve periodo, gli chiesi se aveva trovato una ragazza in questo lasso di tempo, ma lui si è messo a ridere e ha detto "appena sono tornato in Italia tutti che me l'hanno chiesto! Ma mettere su famiglia non è così importante, è più importante pensare allo studio/lavoro!" e questo suo commento la dice tutta.....
Come ultima cosa, visto che siamo su un sito dedicato ad anime e manga, parlando nello specifico del lavoro dei mangaka......certo, anch'io mi incavolo di brutto perchè Yoshihiro Togashi sta fermo anni prima di continuare Hunter X Hunter, anch'io mi spazientisco vista la lentezza con cui Kentaro Miura pubblica nuovi capitoli di Berserk.....però vedendo che razza di ritmi inumani hanno i giapponesi riguardo al lavoro.....non dico che li giustifico al 100%, ma capisco se dopo un po' non hanno molta voglia di lavorare......
Alle Twin Towers, l'11 Settembre, un gruppo di impiegati nipponici che era riuscito a mettersi in salvo dovette risalire su una delle torri "per riprendere il lavoro". Sono morti tutti quando la torre crollò. Ovviamente ogni paese ha le sue regole scritte e non, ma questo non è semplice stakanovismo. Che io sappia è una realtà tipicamente giapponese, altrove è considerato sfruttamento o schiavismo.
A causa di questa pressione sociale i giapponesi stanno addirittura sparendo come etnia. Ci sono aziende che hanno dovuto obbligare gli impiegati a prendersi delle ferie perchè rimanessero a casa a fare figli. Il Giappone è già da tempo il paese più "vecchio" del mondo col più basso tasso globale di giovani per popolazione. Altissimo è anche il tasso di suicidi.
Per molti occidentali questa mentalità è incomprensibile ma quanto costa al paese tutto questo?
"Si trabajas para vivir porque te matas de trabajo"
Come dico sempre il Giappone è un paese fantastico da visitare, ma viverci e lavorarci sono un altro paio di maniche.
Ancora, complimenti per l'articolo.
Dalla nascita, i giapponesi, sono convogliati direttamente in un nefando sistema di obblighi e codificazioni che, di fatto, ne anninetano la personalità: si è solo un ingranaggio nel sistema. Questa svalutazione dell'io è un po' tipica della mentalità orientale, dove è la comunità a contare, ma il Sol Levante, sicuramente, lo ha portato all'estremo.
Bello vedere che ci sono timidi segnali di cambiamento: anche perchè tutti questi suicidi, in continuo aumento, dimostrano che incosciamente la popolazione si sta già ribellando, prima o poi i danni psichici vengono alla luce, non si può resistere anni a lavorare 13 ore al giorno!!
Cioè, vi rendete conto: prendere le ferie per concepire un figlio???? O_O
Una realtà davvero triste e disgustosa questa dello sfruttamento disumano del lavoro dipendente, benché in realtà i lavoratori siano tutelati teoricamente dalle leggi, ma purtroppo, così come già visto in un articolo pubblicato recentemente su questo stesso portale sui burakumin, mentalità arcaiche quanto sbagliate, unite ad un conformismo esasperato e ad un indottrinamento che comincia già in tenera età sui banchi di scuola, fanno sì che questi paghino un prezzo esagerato per gli interessi delle loro aziende. La cosa che suscita in me più rabbia è che questa situazione scandalosa sia vissuta dalla maggior parte della popolazione con totale rassegnazione, come se non potesse esserci nessuna alternativa a questo mondo del lavoro così crudo e alienante. Non stupisce affatto che poi nelle statistiche internazionali il Giappone ha il record di suicidi e di infelicità percepita. Le cause di tutto questo penso che vadano ricercate nella storia stessa del Giappone, e della sua società, nell'esaltazione estrema del valore della collettività a costo di considerare gli individui poco più che un numero. Qualcuno sta provando a ribellarsi, ma vista l'insensibilità pressoché totale degli organi giudiziari e della politica verso queste istanze di giustizia e umanità, solo quando ci sarà un vero risveglio della coscienza della massa potrà migliorare questa situazione. Lo tengano bene a mente tutti quegli ingenui che pensano che il Giappone sia una specie di gigantesco parco dei divertimenti dove vivere spensieratamente, questo può essere vero per i turisti, ma non certo per gli indigeni, almeno nella maggior parte dei casi!
Il documentario si chiama Japan: A story of love and hate ...lo consiglio vedere a tutti http://www.imdb.com/title/tt1401179/
Putroppo ho potuto vederlo solo in inglese, quindi non so dirvi sulla versione italiana.
Che poi e' tutta un'assurdita', perche' la produttivita' di lavorare 90 ore a settimana e' meno di quella di lavorare 45 ore, visto che i lavoratori saranno completamente rimbecilliti e faranno piu' errori che cose utili. Non a caso l'economia giapponese e' in stagnazione da piu' di 25 anni. I paesi piu' prodottivi sono quelli in cui i lavoratori lavorano meno, tipo la Germania, l'Olanda e il Nord Europa. Quindi questo sistema e' dannoso anche per le aziende oltre che per i lavoratori e la societa' in generale.
Mah!
Il senso del dovere e il rispetto per il proprio lavoro, che piaccia o meno, è importantissimo, ma mai portato agli eccessi, una mentalità di quel tipo è deleterio per la società, al di là del mero riscontro economico che ne ricava. Mi auguro che le cose migliorino per quelle persone, che, pur private della propria libertà, hanno tutto il mio rispetto.
sull'argomento: è assolutamente innegabile che il problema ci
sia e continui ad esser molto radicato, tuttavia a detta di alcuni
italiani che vivono da anni in Giappone il problema si focalizza
più sul fatto che il dipendente è costretto a rimanere tante ore in
ditta per volere del suo capo (o capo reparto) anche se di fatto,
magari, non c'è sto gran lavoro da portare avanti/ultimare...
perchè andare a casa prima serebbe maleducato, irrispettoso...
e si rischierebbe di innescare del mobbing pesante da parte dei colleghi!
Poi va beh, le casistiche sono molteplici e variabili...
Sempre secondo ciò che dicono i nostri connazionali in Giappone
(a differenza dell'italia) si riuscirebbe a vivere degnamente anche
facendo tanti lavori part-time (anche se dalla società è considerato
altamente denigratorio) però permetterebbe di avere del buon tempo
libero e molti giovani giapponesi si starebbero orientando più verso
queste opportunità...
Grazie Hachi!
Se un ragazzo di 23 anni lavora 15 ore al giorno ha scelto di essere un martire come tutti quelli prima (e dopo) di lui. Come si fa a dire che il giappone e l'italia in questo sono diverse?
Paghiamo entrambi per gli errori di gente che ha rinunciato ai propri diritti per lavorare.
La cosa triste è che ci stiamo arrivando anche in Italia: non posso ovviamente scrivere nomi di ditte in un sito internet pubblico, ma posso dirvi che ho sentito storie terribili anche di ditte italiane che già chiedono orari assurdi, di continuare il lavoro a casa, nessun giorno di riposo, straordinari lunghi non pagati, pena licenziamento in tronco (tanto fuori dalla porta c'era la fila). Mi ci sono trovata anche io, per fortuna era un lavoro di un anno (una delle poche volte che ho ringraziato il lavoro precario), mi ricordo bene quell'anno perchè ero dimagrita tantissimo, peccato fosse tutto mancanza di sonno e stress.
Questi sono gli articoli che vogliamo vedere su animeclick.
Conoscevo già questa realtà purtroppo, ma è doveroso ribadire questi problemi, perchè sia chiaro che in giappone non è tutto caruccio luccicoso anime manga, è un popolo diversissimo da noi con problemi che facciamo addirittura fatica a comprendere.
Una mentalità sul lavoro del genere non riusciamo nemmeno ad immaginarla, è necessario comprendere una profonda diversità culturale.
Molti credono che sia tutto rose e fiori, come nei manga e negli anime, ma solo una parte delle cose che leggiamo e vediamo sono reali. Ciò che mi fa piacere è che ci siano numerosi segnali di cambiamento, segnali che possano portare avanti gli ideali del Giappone senza intaccare però la vita e le menti del suo popolo. Spero davvero che le cose cambino al più presto.
Il problema però si è ingigantito con il graduale passaggio dal dipendente "fisso" a quelli "iterinale".
Il 30% della forza lavoro è un numero veramente altissimo, e purtroppo il trend è mondiale, nonostante la continua riduzione dei diritti anche per i lavoratori fissi.
Purtroppo in alcune nazioni l'errore delle associazioni per la difesa dei lavoratori è stato accettare certi soprusi verso questi lavoratori di "serie b" in cambio del mantenimento dello status quo per gli altri.
Non pensando che a lungo andare il numero dei primi sarebbe stato tale da porre i secondi di fronte all'alternativa "o rinunciate ai diritti o diventate anche voi lavoratori di serie b".
E sarà sempre peggio.
Sul fronte dati statistici anche nei paesi occidentali le morti e le malattie causate da stress lavorativo non mancano, certo non siamo arrivati ai casi eccezzionali di questo articolo, sperando anche anche in Giappone questi siano appunto casi eccezzionali e non la normalità che si sta creando.
Perchè combattere qualcosa che si è radicato è molto più difficile che farlo per tempo.
Da fan di anime e manga verrebbe naturale pensare che sarebbe un sogno andare a vivere nel Sol Levante dove si potrebbe accedere a tutte le serie esistenti e stare a contatto con tutto ciò che ne è inerente: cibo, musica, tradizione, sfilza di gadget ed eventi e cosi' via. Mettendo spesso in secondo piano quello che dovrebbe veramente essere l'ostacolo, ossia come farsi una vita li'.
Sono realtà come karoshi e traffico umano (se ne sentono di articoli che ne parlano, purtroppo, fenomeni simili se ne vedono pure negli stessi anime e manga, solo che qui ai nostri occhi ci appaiono più come situazioni eroiche in favore del protangonista...) che più delle volte mi hanno frenata ad immedesimarmi in una società, già complicata di suo, come quello giapponese, senza contare poi tutte le difficoltà di chi viene da fuori, abituato poi ad un altro modello di vita fin da piccolo.
Il Giappone è anch'esso pieno di facce nascoste, bisogna conoscerle e farsi una ragione che non sia sempre un paradiso.
E' un problema di mentalità secondo me, ma spero che si riescano a fare dei passi in avanti in futuro per ridurre questo fenomeno. E' una piaga che va debellata.
In Giappone si ha subito l'impressione che un conto è essere turisti, un conto è viverci.
Per carità, mi capitano pure a me settimana con 100 ore di lavoro e ci sta che ci siano, ma si tratta di 3/4 l'anno. Se fosse la prassi morirei, già finite quelle settimane sono messo male ;
Ciao!
Tacchan
Quindi per concluderla sul comico "in vacanza si, ma viverci troppo no grazie".
Hachi, non posso fare davvero altro se non rigraziarti e complimentarmi per il tempo e l' impegno impiegato per la sua stesura, davvero un ottimo articolo! ☺
Altro che manga e videogiochi, guardiamo la realtà dei fatti che vivono i giapponesi...
Davvero un ottimo articolo Hachi.
Spero comunque che le cose cambino in Giappone cambino, non si può vivere così! Anzi morire così!
dovrei vincere la lotteria per andare a viverci
L'aspetto degli straordinari obbligatori non retribuiti lo conoscevo, con tutte le sfumature che si porta dietro - appartenenza al gruppo della "ditta" per la quale si lavora, sopportazione per cortesia o per rispetto verso i colleghi più anziani... In Usagi Drop, pur senza mostrare l'aspetto della durata degli straordinari, si vede che la ditta dove lavora Daikichi concede a lui e a un'altra collega la possibilità di NON fare straordinari per avere la possibilità di prendersi cura dei bambini, ovviamente al prezzo di rinunciare alla carriera adattandosi a un semplice lavoro di magazziniere.
Questi aspetti me li ha raccontati anche una mia collega che, nella sua storia lavorativa, è stata impiegata a tempo determinato nella filiale italiana di una ditta giapponese. Pur essendo su Firenze gli impiegati erano quasi tutti nipponici - sorrideva per i tanti "Moshi Moshi" al telefono - e lei era praticamente l'unica che rispettava l'orario di 8 ore contrattuali: tutti i suoi colleghi si trattenevano per 2-3 ore oltre l'orario di lavoro, e ricorda ancora il clima di "voglio fregarti in tutti i modi" tra colleghi che si respirava in quelle stanze.
Altri hanno già fatto riferimento al gruppo che viene prima dell'individuo in quasi tutti i campi della vita di un giapponese; Keiko Ichiguchi, nel libro Non ci sono più i giapponesi di una volta, affronta il tema della competizione tra gli studenti - legato al successivo ingresso nel mondo del lavoro - che, dalle scuole medie in poi, sono costretti ad vivere per ottenere i voti migliori (che garantiscono l'accesso ai licei più rinomati, alle università prestigiose e alle aziende importanti, ma solo per quei pochissimi che riescono a mantenere la media dell'eccellenza lungo tutto il loro percorso di studi); qui ho rivisto Godai di Maison Ikkoku, i sacrifici che compie per tentare di accedere a un'università prestigiosa e i compromessi che è costretto ad accettare quando si accorge che solo un'università di terz'ordine è alla sua portata.
Che la maggiore produttività sia legata a un maggior numero di ore lavorate può essere vero per una fabbrica, meno per i "colletti bianchi" che anzi - come già ricordato - dopo un lungo periodo di lavoro possono commettere errori a ripetizione. Anche qui ricordo un episodio di Lamù dove il sig. Moroboshi viene ripreso dal suo capoufficio perché aveva sbagliato completamente un report, e lo invitava a ripresentarlo corretto rifacendolo fuori dall'orario di lavoro non retribuito.
Il rientro a casa con l'ultimo treno disponibile mi ha fatto tornare in mente un altro aspetto: ci sono anche dei lavoratori che lo perdono, perché hanno lavorato molto oltre l'orario pattuito o perché si sono trattenuti nei giri di bevute con i colleghi/capi, e l'unica possibilità di riposo che gli è concessa è passare la notte in un capsule hotel o in un manga café, sperando che l'indomani possano rientrare a casa...
Mi rendo conto che le mie note sono ben poca cosa rispetto ai temi trattati da Hachi, ma chi è intervenuto prima di me ha già posto l'accento sulla gravità del fenomeno del Karoshi: io sono rimasto veramente molto turbato dal fatto che le aziende coinvolte fanno di tutto per nascondere le morti sospette o a farle passare per "cause naturali" (come se fosse naturale per un giovane morire per un ictus o un infarto o arrivare a perdere quindici chili per lo stress).
Ma a parte tutto, ha senso vivere una vita del genere?
Molto toccanti ancorché drammatiche le foto a corredo.
I giapponesi non lavorano per vivere ma vivono per lavorare..
M'inquieta assai come questo pensiero, impresso nella memoria di tante persone come il simbolo dell'orrore supremo, sembri collimare con le stesse prospettive presentate nel mondo del lavoro in Giappone. L'analogia è troppo forte per essere ignorata ed è proprio ora che il popolo giapponese, quelle persone che si rifiutano di fare causa all'azienda perché non ne vogliono rovinare la reputazione (quasi come mogli remissive di fronte agli abusi di un marito padrone), deve affrontare un passo importante per distaccarsi da questa mentalità che, farà anche parte della loro cultura, ma come molte cose provenienti dal passato rappresenta un punto di vista ormai superato e contro tutto ciò che riguarda la libera vita di una persona.
P.S. Complimenti per lo splendido articolo, ricco di spunti di riflessione e di nozioni molto utili per inquadrare il problema.
Ma ovviamente, vero o falso che fosse, la cosa fu negata.
Questo articolo dovrebbero leggerlo tutti i giappomikia che rompono le scatole e credono che il Giappone sia il Paradiso sceso in terra dove tutto è perfetto e tutto funziona!!
Avere un buon senso civico è un'ottima cosa, porta un sacco di vantaggi e rende il posto dove si vive migliore, ma esistere in funzione di esso non ha assolutamente senso.
Hachi194 dovrebbero darti il premio al giornalismo.
Io penso che sia proprio un problema dell'uomo moderno.... lavoriamo troppo, troppo poco tempo per la nostra vita. Ma dov'è quella famosa tecnologia promessa che doveva farci lavorare la metà?
Primo Piano
mar 16 marzo 2021,
Primo Piano
mar 16 marzo 2021, 10:08 AM
Getty Images
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Il "superlavoro" può essere riconosciuto come una causa di morte. A deciderlo è stato l'Ufficio di verifica delle condizioni di lavoro del Giappone che, chiamato in causa per la morte di un dipendente di Sony negli Emirati arabi uniti a gennaio 2018, ha condannato la multinazionale a risarcire i parenti della vittima.
Il caso, aperto dopo la morte di un 40enne "colletto bianco" del marketing, non è che l'ennesimo che vede le aziende accusate di "sfruttamento" dei lavoratori. Il "karoshi", ovvero la morte per troppo lavoro, è un problema sociale in Giappone che, secondo gli ultimi dati disponibili al 2019, ha subito oltre 174 morti per superlavoro, la maggior parte dei quali per suicidio. Secondo le autorità nipponiche, infatti, non conta tanto la causa del decesso (infarto, ictus, o altro), ma l'ambiente entro cui questo è avvenuto.
In Giappone il rapporto di lavoro supera quasi sempre in maniera eccessiva la prestazione all'interno di un orario definito. Nel caso del 40enne morto a Dubai, infatti, è stato rilevato che il dipendente aveva lavorato 80 ore mensili medie in più dell'orario previsto. Subito dopo il decesso la famiglia aveva presentato la richiesta di risarcimento per "infortunio sul lavoro", ma questa non fu in un primo momento riconosciuta, perché sulle registrazioni dei badge non risultava che il dipendente avesse fatto straordinari.
VIDEO - Giappone, "premium friday" contro le morti per troppo lavoro
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