Chi ha inventato il gioco del calcio? Alcuni sostengono siano stati gli italiani e a supporto della loro teoria citano il calcio fiorentino, altri affermano che la paternità sia degli inglesi. E se invece lo avessero inventato i giapponesi? Esiste infatti una leggenda (e mai termine è stato più appropriato visto che non ci sono certezze in tal senso) che il calcio sia stato introdotto in Europa da Marco Polo.
Sembra infatti che l'esploratore, durante il suo lungo viaggio per tutta l'Asia, vide proprio in Giappone il Kemari, uno sport molto fisico, che coinvolgeva tutto il corpo, non competitivo ma in cui i giocatori cooperavano tra loro per far sì che il pallone non toccasse mai il suolo. Rimastone affascinato, decise di importarlo in patria e farlo conoscere una volta tornato a casa.
Verità o racconto fantasioso? Non lo sapremo mai; di vero senza dubbio c'è che questo gioco ha attraversato indenne vari secoli ed è giunto fino ai giorni nostri. Vediamo più da vicino in cosa consiste!
Le notizie sulla sua nascita sono avvolte dal mistero: fa la sua comparsa per la prima volta nel Nihon Shoki (testo risalente all'VIII secolo su cui si basa lo studio della storia più antica del Giappone). Qui si dice che il kemari apparve durante il periodo Yamato e per la precisione nel 644 d.C.; alcuni studiosi affermano che deriverebbe dal gioco cinese del Cuju, secondo altri invece il kemari è sostanzialmente diverso e quindi farebbe storia a sé.
Fu solo durante il periodo Heian (IX-XII secolo) che il kemari si diffuse in tutto il paese, seppur confinato principalmente nell’ambiente della corte imperiale e della nobiltà: infatti erano soprattutto sovrani, imperatori in pensione e alti dignitari a prendere parte o ad assistere alle partite. Anche allora come oggi non c'è cenno (salvo rarissimi casi) di una partecipazione femminile a questo gioco.
Dalla seconda metà del XIII secolo, visto che ormai il kemari si era fortemente affermato, le regole del gioco furono codificate, così come le dimensioni e la forma del campo da gioco, l’equipaggiamento, le tecniche e le divise. Anche se privo di ogni connotazione religiosa, pare che in alcuni casi si siano organizzate partite di kemari per far cessare un prolungato periodo di siccità oppure per far terminare un lungo periodo di sfortuna, probabilmente nella speranza che facendo divertire gli dei, questi sarebbero stati più benevoli verso gli uomini.
Ma entriamo più nel dettaglio (per la gioia degli appassionati della domenica...): il campo per praticare il kemari era rigorosamente all'aperto, di forma quadrata, misurava 6-7 metri per lato ed era delimitato ai quattro angoli da alberi, ognuno di una specie diversa: un ciliegio, un salice, uno pino ed un acero. Questi non avevano solo una funzione decorativa, ma erano parte attiva del gioco, infatti ogni albero era destinato ad un particolare angolo del campo. Inoltre, poiché spesso il pallone poteva finire fra i rami, la loro potatura doveva seguire particolari regole, in modo da creare un interessante percorso di uscita per la sfera di gioco.
Il pallone, detto Mari, invece era cavo, cucito con pelle di cervo o di cavallo, pesava circa un etto ed aveva un diametro di 20 centimetri. Per renderla sferica, era riempita di chicchi di orzo, tolti una volta ottenuta la forma desiderata. Per evitare che potessero scoppiare o sgonfiarsi durante la partita, erano resi più robusti con un rivestimento di albume o di colla oppure affumicandoli.
All'inizio le divise erano semplicemente i vestiti di corte, poi, dal IX secolo, furono sostituite da abiti da caccia, più comodi e pratici. Intorno al XIII secolo furono aggiunti dei copricapi neri, fatti con piume di corvo. L'uniforme era ispirata ai vestiti tradizionali dell'era Asuka, noti come kariginu. Per identificare il grado di nobiltà all'interno della corte, ogni giocatore aveva un ventaglio legato in vita: più stecche aveva il ventaglio, più alto era il suo rango. Le scarpe erano di pelle, allacciate al polpaccio con delle corde.
La partita era composta da tre fasi: la prima era di preparazione dei giocatori con un vero e proprio riscaldamento e un lancio del pallone tra i rami degli alberi. Nella seconda parte i giocatori mostravano al pubblico le loro personali abilità e nell'ultima parte si svolgeva la partita vera e propria. Il numero di giocatori poteva essere variabile, da un minimo di 2 ad un massimo di 12, ma nella maggior parte dei casi si giocava in 8, posizionati a coppie intorno ai quattro alberi del campo.
Il giocatore di rango più alto si collocava vicino al pino e dava inizio alla partita passando la palla al giocatore con il rango immediatamente più basso del suo. Colui che calciava il pallone era chiamato mariashi; il compito di un buon mariashi era quello di rendere facile per il ricevitore controllare il pallone e quindi la doveva servire con un tocco morbido. Una volta iniziati i passaggi, ognuno poteva muoversi liberamente all'interno del campo ma doveva tornare alla posizione iniziale se il gioco subiva un'interruzione.
La palla era calciata sempre con il piede destro e prima di essere passata, la si poteva palleggiare più volte; il numero di tocchi ideale però era tre: quello per ricevere la sfera, un palleggio per controllarlo e uno per passarlo. Il primo e il terzo, considerati facili da fare, erano chiamati "meashi" (cioè calci di donna) mentre il secondo, più difficile e ostico, era il "woashi" (cioè calcio da uomo). Ogni palleggio era accompagnato da un grido: al momento di ricevere il pallone, bisognava gridare "Ooh!", nei palleggi di controllo si esclamava "Ari!" e al calcio di passaggio si urlava "Ya!".
Lo scopo del gioco era far sì che il pallone non toccasse mai terra, in modo da raggiungere il più alto numero di palleggi possibile, senza vincitori né vinti. Il conteggio era tenuto da un arbitro che, nel caso di qualche colpo particolarmente bello (che magari faceva parte del personale repertorio di quel giocatore), assegnava punti aggiuntivi, e faceva lo stesso se i giocatori si distinguevano in qualche modo per velocità e abilità, postura, padronanza della strategia o lealtà sportiva.
In alcuni casi si stabiliva un punteggio massimo da raggiungere che decretava così la fine della partita; in alcuni testi antichi si narra di una partita in cui si arrivò a 520 punti e nel diario dell'ex imperatore Gotoba (1180 – 1239), grande appassionato di kemari, si legge di una partita in cui si segnarono 2000 punti! Pur non essendoci veri e propri scontri diretti fra squadre, a volte si organizzavano dei piccoli tornei in cui ogni team aveva a disposizione un certo numero di tentativi per raggiungere un punteggio prestabilito e vinceva chi vi si avvicinava di più.
Anche se il suo periodo di maggior splendore coincise con l'era Heian, il kemari non fu mai accantonato del tutto: entrò in uso presso l'esercito che ne apprezzava la poliedricità, combinando insieme doti di coordinamento, gioco di squadra e forza fisica.
I problemi sorsero durante il periodo Meiji, con l'ingresso nel paese degli sport occidentali: per questo nel 1903 fu creata dall'Imperatore in persona una società per preservare questa disciplina. Al giorno d'oggi è possibile assistere a partite di kemari durante feste particolari, come il Capodanno, oppure durante eventi appositamente dedicati, come il Kemari Matsuri presso il tempio Tanzan a Nara oppure durante l'apertura al pubblico del Palazzo Imperiale di Kyoto.
Piccola curiosità: il kemari ha una sua propria divinità che lo protegge. Si chiama Seidaimyojin ed ha l'aspetto di una scimmia; proprio per questo le sfide andrebbero giocate nel giorno dedicato alla scimmia e dovrebbero iniziare alle 16:00, visto che, stando al calendario basato sul ciclo sessagesimale cinese, le ore fra le 15 e le 17 sono appunto dette "periodo della scimmia".
Fonti consultate:
JapanCoolture
DirettaNews
Sembra infatti che l'esploratore, durante il suo lungo viaggio per tutta l'Asia, vide proprio in Giappone il Kemari, uno sport molto fisico, che coinvolgeva tutto il corpo, non competitivo ma in cui i giocatori cooperavano tra loro per far sì che il pallone non toccasse mai il suolo. Rimastone affascinato, decise di importarlo in patria e farlo conoscere una volta tornato a casa.
Verità o racconto fantasioso? Non lo sapremo mai; di vero senza dubbio c'è che questo gioco ha attraversato indenne vari secoli ed è giunto fino ai giorni nostri. Vediamo più da vicino in cosa consiste!
Le notizie sulla sua nascita sono avvolte dal mistero: fa la sua comparsa per la prima volta nel Nihon Shoki (testo risalente all'VIII secolo su cui si basa lo studio della storia più antica del Giappone). Qui si dice che il kemari apparve durante il periodo Yamato e per la precisione nel 644 d.C.; alcuni studiosi affermano che deriverebbe dal gioco cinese del Cuju, secondo altri invece il kemari è sostanzialmente diverso e quindi farebbe storia a sé.
Fu solo durante il periodo Heian (IX-XII secolo) che il kemari si diffuse in tutto il paese, seppur confinato principalmente nell’ambiente della corte imperiale e della nobiltà: infatti erano soprattutto sovrani, imperatori in pensione e alti dignitari a prendere parte o ad assistere alle partite. Anche allora come oggi non c'è cenno (salvo rarissimi casi) di una partecipazione femminile a questo gioco.
Dalla seconda metà del XIII secolo, visto che ormai il kemari si era fortemente affermato, le regole del gioco furono codificate, così come le dimensioni e la forma del campo da gioco, l’equipaggiamento, le tecniche e le divise. Anche se privo di ogni connotazione religiosa, pare che in alcuni casi si siano organizzate partite di kemari per far cessare un prolungato periodo di siccità oppure per far terminare un lungo periodo di sfortuna, probabilmente nella speranza che facendo divertire gli dei, questi sarebbero stati più benevoli verso gli uomini.
Ma entriamo più nel dettaglio (per la gioia degli appassionati della domenica...): il campo per praticare il kemari era rigorosamente all'aperto, di forma quadrata, misurava 6-7 metri per lato ed era delimitato ai quattro angoli da alberi, ognuno di una specie diversa: un ciliegio, un salice, uno pino ed un acero. Questi non avevano solo una funzione decorativa, ma erano parte attiva del gioco, infatti ogni albero era destinato ad un particolare angolo del campo. Inoltre, poiché spesso il pallone poteva finire fra i rami, la loro potatura doveva seguire particolari regole, in modo da creare un interessante percorso di uscita per la sfera di gioco.
Il pallone, detto Mari, invece era cavo, cucito con pelle di cervo o di cavallo, pesava circa un etto ed aveva un diametro di 20 centimetri. Per renderla sferica, era riempita di chicchi di orzo, tolti una volta ottenuta la forma desiderata. Per evitare che potessero scoppiare o sgonfiarsi durante la partita, erano resi più robusti con un rivestimento di albume o di colla oppure affumicandoli.
All'inizio le divise erano semplicemente i vestiti di corte, poi, dal IX secolo, furono sostituite da abiti da caccia, più comodi e pratici. Intorno al XIII secolo furono aggiunti dei copricapi neri, fatti con piume di corvo. L'uniforme era ispirata ai vestiti tradizionali dell'era Asuka, noti come kariginu. Per identificare il grado di nobiltà all'interno della corte, ogni giocatore aveva un ventaglio legato in vita: più stecche aveva il ventaglio, più alto era il suo rango. Le scarpe erano di pelle, allacciate al polpaccio con delle corde.
La partita era composta da tre fasi: la prima era di preparazione dei giocatori con un vero e proprio riscaldamento e un lancio del pallone tra i rami degli alberi. Nella seconda parte i giocatori mostravano al pubblico le loro personali abilità e nell'ultima parte si svolgeva la partita vera e propria. Il numero di giocatori poteva essere variabile, da un minimo di 2 ad un massimo di 12, ma nella maggior parte dei casi si giocava in 8, posizionati a coppie intorno ai quattro alberi del campo.
Il giocatore di rango più alto si collocava vicino al pino e dava inizio alla partita passando la palla al giocatore con il rango immediatamente più basso del suo. Colui che calciava il pallone era chiamato mariashi; il compito di un buon mariashi era quello di rendere facile per il ricevitore controllare il pallone e quindi la doveva servire con un tocco morbido. Una volta iniziati i passaggi, ognuno poteva muoversi liberamente all'interno del campo ma doveva tornare alla posizione iniziale se il gioco subiva un'interruzione.
La palla era calciata sempre con il piede destro e prima di essere passata, la si poteva palleggiare più volte; il numero di tocchi ideale però era tre: quello per ricevere la sfera, un palleggio per controllarlo e uno per passarlo. Il primo e il terzo, considerati facili da fare, erano chiamati "meashi" (cioè calci di donna) mentre il secondo, più difficile e ostico, era il "woashi" (cioè calcio da uomo). Ogni palleggio era accompagnato da un grido: al momento di ricevere il pallone, bisognava gridare "Ooh!", nei palleggi di controllo si esclamava "Ari!" e al calcio di passaggio si urlava "Ya!".
Lo scopo del gioco era far sì che il pallone non toccasse mai terra, in modo da raggiungere il più alto numero di palleggi possibile, senza vincitori né vinti. Il conteggio era tenuto da un arbitro che, nel caso di qualche colpo particolarmente bello (che magari faceva parte del personale repertorio di quel giocatore), assegnava punti aggiuntivi, e faceva lo stesso se i giocatori si distinguevano in qualche modo per velocità e abilità, postura, padronanza della strategia o lealtà sportiva.
In alcuni casi si stabiliva un punteggio massimo da raggiungere che decretava così la fine della partita; in alcuni testi antichi si narra di una partita in cui si arrivò a 520 punti e nel diario dell'ex imperatore Gotoba (1180 – 1239), grande appassionato di kemari, si legge di una partita in cui si segnarono 2000 punti! Pur non essendoci veri e propri scontri diretti fra squadre, a volte si organizzavano dei piccoli tornei in cui ogni team aveva a disposizione un certo numero di tentativi per raggiungere un punteggio prestabilito e vinceva chi vi si avvicinava di più.
Anche se il suo periodo di maggior splendore coincise con l'era Heian, il kemari non fu mai accantonato del tutto: entrò in uso presso l'esercito che ne apprezzava la poliedricità, combinando insieme doti di coordinamento, gioco di squadra e forza fisica.
I problemi sorsero durante il periodo Meiji, con l'ingresso nel paese degli sport occidentali: per questo nel 1903 fu creata dall'Imperatore in persona una società per preservare questa disciplina. Al giorno d'oggi è possibile assistere a partite di kemari durante feste particolari, come il Capodanno, oppure durante eventi appositamente dedicati, come il Kemari Matsuri presso il tempio Tanzan a Nara oppure durante l'apertura al pubblico del Palazzo Imperiale di Kyoto.
Piccola curiosità: il kemari ha una sua propria divinità che lo protegge. Si chiama Seidaimyojin ed ha l'aspetto di una scimmia; proprio per questo le sfide andrebbero giocate nel giorno dedicato alla scimmia e dovrebbero iniziare alle 16:00, visto che, stando al calendario basato sul ciclo sessagesimale cinese, le ore fra le 15 e le 17 sono appunto dette "periodo della scimmia".
Fonti consultate:
JapanCoolture
DirettaNews
Detesto il calcio ma un'esibizione di quest'antica usanza con quegli splendidi costumi me la vedrei volentieri anche dal vivo!
è vero, in Giappone anticamente le ore erano indicate dagli animali dell'oroscopo cinese.
con origini piuttosto antiche aveva un livello tecnico e delle regole già
particolari e ben definiti! Da appassionato del Giappone mi farebbe piacere
se effettivamente il calcio fosse nato li...anche se come sport non mi ha
mai attirato granchè! Grazie Hachi!
Trovo un po' "urtante" l'equazione tocco di palla facile = tocco da donna; e poi chi l'ha detto che il primo tocco, quello di ricezione, sia facile? Se il compagno ha calibrato male il passaggio, ricevere il pallone senza farlo cadere può essere molto complicato...
Mentre per chi sia stato il primo è impossibile da stabilire.
Chi sono stati i primi?
I popoli che giocavano a giochi simili al calcio sono molti.
Gli italiani , giapponesi, Cinesi, Indiani d'america, Indios brasiliani??
Difficile.
L'importante è che tutti piaccia giocare a calcio.
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