È tutto molto educativo, ma mi preme, ora.come ora, sapere una cosettina: hai per caso preso parte all'adattamento di Lu e la città delle sirene della Yamato?
Sono fermamente convinto che, se ascoltati con onestà, davvero sia evidente che i miei adattamenti dei film Ghibli, dal taglio e target più familiare, sono ben diversi dal mio adattamento di Evangelion.
Sì, lo sono, in minima parte sì (beh, nel caso della Principess Splendente è molto evidente, per esempio). Ma quello che ti è sempre stato contestato sono i forti fattori comuni a tutti quei dialoghi, non le differenze che vengono messe in secondo piano da questi fattori comuni. Non è accettato proprio il "sentire dei giapponesi parlare in italiano". Lascia stare ciò che ritieni giusto o sbagliato, la capisco perfettamente la tua ideologia: quando parlo in inglese nei paesi esteri odio non riuscire a dare la sfumatura che la mia mente italiana partorisce nel dialogo in quanto mente italiana, e quindi finisco per dire cose italianizzate oppure mutilate e la cosa mi dà ai nervi perché penso sia fondamentale il modo in cui vengono dette le cose e concatenate tra loro, ad esempio il sarcasmo si basa interamente su questo e forma e contenuto in quei casi vanno a braccetto. Quindi sì, capisco perfettamente la tua ideologia. È sempre stato un conflitto di premesse (chi fruisce del doppiaggio non desidera questo), però nel fare le argomentazioni che ho fatto finora ho preso comunque la tua premessa per buona. Cercando solo di arginarla e limitarla (tu stesso non la spingi al massimo del suo potenziale, quindi anche tu ti dai dei paletti. Cerco solo di avvicinarli).
Quelle che tu epiteti come "le mie stranezze" sono per me le particolarità, al ricchezza di A) una cultura diversa traslata in italiano senza essere appiattita col ferro da stiro e B) la ricchezza delle variazioni presenti nell'originale e mantenute in un adattamento fedele.
Sì, esattamente. Dico "tue stranezze" perché sei tu che porti avanti questa metodologia, quindi che tu lo voglia o no... è un metodo che hai introdotto tu in quest'ambiente, e a venire sarà ricordato con la tua figura.
A me continua solo a sembrare che chi strabuzza di fronte alle mie presunte "stranezze" inconsciamente non brami altro che la banalità della lingua a cui è probabilmente avezzo nel proprio quotidiano, che per crassa comodità, o voglia di pacchia, o sollazzo, vorrebbe anche nell'adattamento dei prodotti stranieri. Ecco, a me è tutto questo che proprio non riguarda né interessa.
No, non è così, credimi. O meglio, per qualcuno sarà sicuramente così. Per altri, semplicemente, guardare un film è legato all'immersione, l'immedesimazione, la sospensione di incredulità: ovvero l'illusione che quei personaggi siano vivi e stiano parlando in quel modo. Si tratta sempre di convenzioni, ovvero lo spettatore è conscio che i personaggi stanno parlando in un linguaggio codificato, ma la premessa comune è che ciò che comunichino non siano parole, ma concetti. Non tutti i concetti sono uguali per tutti i popoli, ma ce ne sono molti di simili, l'adattamento ti dice semplicemente: "Ehi, tale concetto espresso nella nostra lingua si esprime in modo più o meno efficace in quest'altro modo analogo." Quello che invece definiscono "Cannarsiano" (vale a dire il "giapponese parlato in italiano") è una lingua a sé stante in cui vengono espressi gli stessi identici concetti, solo utilizzando forme differenti da quelle utilizzabili nell'italiano: ci si può fare senz'altro l'abitudine, ma di per sé spiazza e rompe la quarta parete. Non è del tutto sbagliato dire che equivalga ad una sorta di lingua a sé stante, un dialetto basato sulla grammatica italiana. Ma in quanto "giapponese-parlato-in-italiano" non è giapponese. Le persone che desiderano tenere invariato il più possibile forme e concetti originali non fruiscono del doppiaggio, fanno un giusto e sacrosanto passo avanti: fruiscono dei sottotitoli. Il passo ulteriormente successivo è quello di fruire dei sottotitoli nella medesima lingua del parlato (nel caso: giapponese con sottotitoli giapponesi). Il passo ulteriormente successivo è quello dei madrelingua: non fruire di alcun sottotitolo. Io credo che il tuo metodo sia PERFETTO per dei sottotitoli. Nel doppiaggio non ha un target (ed è stato ampliamente dimostrato). La tua ideologia non tiene conto del concetto di target, ma il mercato sì. Il doppiaggio è puro mercato. Non valorizza la cultura. I sottotitoli possono ancora appigliarsi alla valorizzazione culturale.
C'è un'altra cosa che sbagli a ritenere tale secondo me, vale a dire la seguente:
(iinvero: ricchezza linguistica)
È vero che utilizzi il vocabolario nel modo più completo possibile, proprio perché attingi ai significati etimologici. Non tieni conto di quanto una parola sia "alla moda" o "desueta", lo sfrutti nella sua completezza. Però il vocabolario attualmente utilizzabile è comunque limitato e circoscritto nel tempo. È diverso rispetto all'italiano del passato, e nel futuro cambierà. Petrarca diceva "nudrire", oggi diciamo "nutrire". Diceva "giovenile", oggi diciamo "giovanile", magari tra 200 anni si dirà "giovinno". Pertanto l'attuale vocabolario sfruttato al 100% non è immortale, fa comunque parte del giorno d'oggi. Invecchierà. Tra 200 anni forse non potrà più essere seguito. Le opere invecchiano con le loro parole. Se un'opera è del 1920, va adattata tenendo conto dei vocaboli e delle forme del 1920. Se un'opera è del 1990, va adattata tenendo conto dei vocaboli e delle forme del 1990. Anche la FREQUENZA D'USO è importante. È un dato molto difficile da verificare con sicurezza del 100%, ma è un dato importante. Se si potesse verificare in modo affidabile ANDREBBE ASSOLUTAMENTE verificato. Nell'impossibilità di farlo, si va per presunzione. È necessario. Anche tu dai per scontato che un bambino qualsiasi di 3 anni non utilizzi la completezza di vocabolo di un adulto.
Ma proprio no. Ma da dove ti viene questa convinzione? Forse allora sei tu che guardi soprattutto "un certo tipo" di animazione. Niente di male, ma occhio a non generalizzarne la lingua, o gli stilemi.
Beh, ma rivoltando la medaglia: allora sei tu che non guardi un certo tipo di animazione. "Uso" è una delle parole più utilizzate in quel tipo di linguaggio codificato, lo stesso linguaggio codificato in cui dicono ovunque "Chikusho" o "Teme" (cose oltremodo inopportune nella vita quotidiana) o in cui ripetono allo sfinimento "Yamete" senza forma onofirica (in effetti, negli Anime sono tutti troppo tremendamente maleducati e spavaldi, ma è un'idealizzazione). Evangelion usa lo stesso linguaggio. Noto poi che stai escludendo i casi in cui in Evangelion viene detto "Uso da". Credi veramente che ci sia tutta questa differenza? In conformità ai miei limiti e tenendo conto del mio margine di errore, trovo oggettivo che la differenza tra "Uso" e "Uso da" sia sostanzialmente la stessa che ci può essere tra "Chigau" e "Chigau yo". In italiano tra un "Non è vero!" e un "No!" con il debito sottotesto non c'è differenza nell'intento di comunicazione, è solo un rafforzativo.
Posso obiettivamente contestarti che "non è vero!" in giapponese si può dire eccome, e NON si dice come "Uso!". Rendendo "Uso!" come "non è vero" si introduce materiale lessemico ASSENTE nell'originale - il concetto di verità, e un concetto di negazione. Si rende una idea lampante (bugia!) con un concettp elaborato (non-è-vero). No, no, no: non si fa.
Che in italiano si possa? Dunque, Diversamente. Che si possa dire, conscio, sono io ad esserlo. Lo nego, che si possa, in italiano. Di comunicazione vi è un intento; della comunicazione, quell'intento, sì, differente, questo intento, sarà. Negazione, ovvero doppia negazione, ovvero constatazione. C'è un concetto, esso espresso è tale; rimane tale.
...Come dimostrato sopra: parole normali, ma espresse in modo inusuale rispetto alla frequenza di utilizzo, mancano l'obbiettivo. (cioè comunicare)
Ma lo dici tu. Secondo me si può interpretare eccome, in italiano, a seconda del contesto. E a seconda di come viene pronunciato. Tanti quanto in giapponese.
Eh, ok. Ma come si fa a stabilire chi ha ragione, se abbiamo percezioni diverse della cosa? Io non rappresento il mondo, tu non rappresenti il mondo. Siamo una caccola nella statistica, è il nostro buonsenso a farci esprimere un'opinione nel merito. Siamo nostro malgrado costretti ad avvalerci di esso.
Il contenuto di "Uso!" è semplicemente una reazione di incrediltà istantanea. Quando Asuka sente Kanji nell'episodio 8 lei CI CREDE ECCOME a quello che Kaji le ha detto. Infatti poi va a "cooptare Shinji, dato che ne ha conosciuto un punto di interesse/valore. Il suo "Uso!", come tutti gli "Uso!" non è affatto un modo per dire davvero "non ci credo", è un modo per esprimere la propria sorpresa di fronte a qualcosa che non si sarebbe pensato. Idem nell'episodio 24. Ovviamente, la presa di coscienza, lo "shock" è ben diverso - e questo ta alla recitazione, in giapponese come in italiano (su cui non mi esprimo, perché non l'ho sentito).
Certo che Asuka ci crede: è soltanto un sottotesto. Come sai benissimo, serve a far capire un'intenzione astratta utilizzando parole che rendano bene l'idea del tono, del tipo di stato d'animo e del modo di porsi nei confronti dell'interlocutore. La sfortuna dei sottotesti è che sono profondamente relativi. In base a quello che ho recepito, in questo caso io e te abbiamo lo stesso identico concetto di ciò che voleva esprimere Asuka in entrambe le circostanze (o meglio, ciò che volevano esprimere per lei gli sceneggiatori che hanno scritto i suoi dialoghi). Abbiamo entrambi questo concetto astratto. Probabilmente usiamo parole diverse per esprimere il suo sottotesto, ma quello è. Il punto è che la frequenza di utilizzo della parola "Bugia!" in italiano, isolata a quel modo, cambia il modo di intendere l'intenzione che ne deriva. Sì, la sua frequenza d'utilizzo nella vita quotidiana di noi esseri umani nel 2019 (e nel 1996) muta la parola stessa, è innegabile. Mi affligge non poter reperire in modo statistico e verificabile questa cosa, ma è una percezione talmente nitida e chiara in me che non posso in nessun modo ignorarla, pertanto mi comporto di conseguenza.
Per le battute finali di Gendo, attendo le tue argomentazioni per porre nuove domande.
Gentile Sig. Cannarsi, premetto che sono laureato in lingua giapponese, ho un master in traduzione audiovisiva e traduco da amatoriale da quasi dieci anni, quindi penso di sapere di cosa parlo e spero prenderà in considerazione le mie parole. Non ho intenzione di fare commenti mirati a delle sue scelte linguistiche, né voglio fare riferimenti alla live di ieri con GioPizzi e compagnia. Voglio parlare della sua filosofia lavorativa, del suo attaccamento al voler riportare il significato letterale delle frasi perché "l'autore ha scelto quella parola e quindi io devo rispettare le volontà dell'autore". Nella mia modesta opinione, lei, Cannarsi, come tutti gli adattatori, è superiore all'autore. Il suo compito è riportare non tanto le parole quanto i concetti che l'autore vuole esprimere. È suo onere e onore far sì che al pubblico arrivi un messaggio mediato ma chiaro. Non deve limitarsi alla resa letterale di una frase quanto piuttosto al trovare un equivalente per il suo contenuto. Il suo lavoro non è cosa soltanto sua, ma coinvolge tutti coloro che leggono ed è precisamente per loro che figure come la sua esistono. La prego, non si lasci più confondere da dei princìpi ferrei che lei stesso si è imposto ma svolga un lavoro libero, mediato non dal suo vocabolario ma dal suo animo.
Non ho mai parlato di "significato LETTERALE", anzi come dicevo sopra ritengo che questa idea sia un falso demone.
"Il suo compito è riportare non tanto le parole quanto i concetti che l'autore vuole esprimere."
Dissento fortemente su questo assunto, passato per categorico e scontato - per di più.
Un autore si esprime con le parole che scrive. Cosa ci sia "dentro la sua testa" lo può sapere solo lui, o un dio forse, ma di certo non un'altra persona.
Quindi no, trovo fortemente errato tutto il discorso che qui mi si propone, per le ragioni che credo di avere più e più volte espresso.
Di fatto, PRESUMERE di poter sapere quello che l'autore "vuole esprimere" mi pare un atto di presunzione quasi megalomaniaca, e foriero delle più nefaste autolegittimazioni. Bisogna attenersi al testo. Il testo è quanto è dato, non i processi alle intenzioni.
Torno qui a distanza di due anni perché ho ricercato la conversazione e mai avrei pensato che avrebbe risposto a tutti i commenti. Le faccio le mie più sincere congratulazioni per l'impegno e la pazienza.
Ma no, non riesco comunque a capire come un traduttore possa pensare solo ed esclusivamente alle volontà dell'autore dell'opera e non al pubblico di destinazione. Cannarsi, lei è un ponte, un ponte che deve connettere l'opera ai suoi fruitori, perché per evidenti motivazioni storiche, culturali, geografiche e quant'altro, non potrà mai trasmettere l'intento dell'autore con delle parole. Questo vale per il giapponese come per qualsiasi altra lingua, ovviamente. Se prendiamo atto di questo, ciò che le resta è sforzarsi di trasmettere il messaggio in generale e in modo comprensibile, perché credere di poter rendere, usando per filo e per segno le parole dell'autore, la sua idea mentre concepiva l'opera, è di una presunzione allucinante.
Lei non potrà mai, e sottolineo MAI, rispecchiare le idee dell'autore, quindi basta con questa storia dell'essere fedeli alle idee e alle parole, perché è tutto un fantasma che lei stesso si è costruito.
Infatti, come credevo di avere reso chiaro nel mio precedente messaggio, io NON intendo "interpretare le idee dell'autore". Come scrivevo:
Un autore si esprime con le parole che scrive. Cosa ci sia "dentro la sua testa" lo può sapere solo lui, o un dio forse, ma di certo non un'altra persona.
Quindi no, trovo fortemente errato tutto il discorso che qui mi si propone, per le ragioni che credo di avere più e più volte espresso.
Proprio per questo il mio referente è l'opera, non "l'idea dell'opera" nella testa dell'autore, né presunta e neppure dichiarata in possibili "interpretazioni autentiche".
A tutti gli effetti, mi pare che tu imputi a me esattamente quello che i "normai" traduttori fanno, e io cerco di evitare: interpretare. Se rileggi gli ultimi tre messaggi credo sarà evidente anche a te.
Lei non potrà mai, e sottolineo MAI, rispecchiare le idee dell'autore
Per l'appunto non intendo farlo. Resto con gli occhi fissi sulla materia dell'opera: le parole che la esprimono.
Le parole esprimono linguisticamente qualcosa, il loro legame determina un contesto culturale, nessuno dei due va perso con una "traduzione". Non serve chiamarsi DeSaussure e distinguere tra langue e parole per capirlo.
Proprio per questo il mio referente è l'opera, non "l'idea dell'opera" nella testa dell'autore, né presunta e neppure dichiarata in possibili "interpretazioni autentiche".
Le parole esprimono linguisticamente qualcosa, il loro legame determina un contesto culturale, nessuno dei due va perso con una "traduzione". Non serve chiamarsi DeSaussure e distinguere tra langue e parole per capirlo.
Sì, il fatto è che "l'opera in sé" è priva di significato, senza il fattore interpretativo. La comunicazione non si limita alla grammatica. Sono solo parole e immagini in sequenza, che comunicano un numero limitato di informazioni, con un numero potenzialmente infinito di variabili ed ambivalenze. È l'interpretazione a fornire loro un senso logico, e a racchiudere il maggior numero di informazioni. Il linguaggio è, per definizione stessa, necessariamente ambiguo.
Per l'appunto non intendo farlo. Resto con gli occhi fissi sulla materia dell'opera: le parole che la esprimono.
Ed è proprio questo il problema, santo cielo!
Lei tiene gli occhi fissi sulla materia dell'opera e non guarda in faccia il suo pubblico di destinazione! A cosa serve il suo operato, e che senso ha il suo ruolo se si limita a riportare la "realtà dei fatti"? Quello che fa non è un lavoro di traduzione, ma è quello di un notaio! Lei prende una parola e l'annota, poi un'altra e un'altra ancora, ignorando e prendendo per buono quello che legge. Ma come fa una persona del suo calibro a ritenersi soddisfatta di tutto questo?
Io insisto e ancora insisto, perché ogni volta che si parla di lei mi piange il cuore: metta VERAMENTE le sue conoscenze al servizio del pubblico, perché potrebbe fare grandi cose!
Ma no, l'idea che le parole vengano rese in modo slegato (da me come da chiunque altro produca una traduzione, un adattamento, una localizzazione corretta nella sua lingua d'arrivo) non solo è errata, ma non esiste. È solo uno spauracchio da maestra contro la "traduzione letterale". Non c'è bisogno di avere studiato Ferdinand de Saussure, come è probabile che anche tu abbia fatto, per sapere che ogni lingua è un sistema che fa reggere insieme le parole di cui è fatta. Questo non ha nulla, nulla a che vedere con la (sempre soggettivamente valutata e presunta) "fluidità", o "idiomaticità" (per usare una sorta di anglismo a me non particolarmente gradito) di una resa linguistica. Semplicemente, disporsi a rendere in italiano pur corretto un testo straniero nella maniera più fedele possibile comporta un certo livello di "straniazione" nel risultato correttamente espresso nella lingua d'arrivo. Si solo tratta di un effetto collaterale a non "domesticare" la lingua di origine a quella di arrivo, e nella mia visione delle cose è qualcosa di sensato se non dovuto in ossequio alla reltà delle cose: lo scarto interculturale intrinsecamente presente nell'interlinguistica.
Sì, certo, quello che dici è vero, ma continui a eludere o non considerare il fatto che non esista nessuna lingua che faccia corrispondere a ciascun concetto esistente un dato vocabolo e/o forma strutturale. Ogni lingua è un'approssimazione limitativa e limitante, quindi determinati concetti e sfumature vengono rese per approssimazione e, pertanto, in maniera relativa. Quando si dice che "Il linguaggio è necessariamente ambiguo" si intende questo... in poche parole una data parola o frase, che oggettivamente dovrebbe voler dire una cosa univoca, in realtà non significa mai una cosa necessariemente univoca. E questo è un dato di fatto.
Sì, certo, quello che dici è vero, ma continui a eludere o non considerare il fatto che non esista nessuna lingua che faccia corrispondere a ciascun concetto esistente un dato vocabolo e/o forma strutturale.
Infatti non lo faccio neppure io. In termini di di relazione, a corrispondenza tra aree semantiche interlinguistiche non è mai biettiva. Se parliamo di traduzione in termini di funzione matematica, la funzione non è biunivoca. Si tratta di applicazioni a volta iniettive, a volte suriettive, a causa della sempre presente polisemia terminologica in ambo le lingue coinvolte, ma anche per la semplice non-corrispondenza d'estensione delle aree semantiche di significato associate ad ogni significante.
Le parole [signifcant] dal significato davvero univoco sono davvero pochissime, in genere appartengono a registri molto specifici se non tecnici - un eritrocita, per dire, è un significato che si è definito specificamente. Così come molti termini giuridici, per fare una citazione interna si può dire che la lingua tecnico-specifica è normata quasi da un giuspositivismo puro di tipo kelseniano, ma nella lingua e terminologia più comune, usuale, non è mai così.
Il fatto che si cerci, si provi a temere ordinata un un singolo testo testo tradotto/adattato/localizzato per non sacrificarne la varietà linguistica - né sacrificarla per contro - è solo un tentativo e un intento di rigore, non è una norma preordinata al significato delle cose.
È sufficiente che non compari i tuoi dialoghi a quelli originali. Perché i tuoi dialoghi non sono quelli originali. Nessuna traduzione/adattamento è comparabile ai dialoghi originali. Tutte le traduzioni sono sbagliate e soggette ad un'interpretazione contestuale anche minima... pertanto (quasi) ogni critica è sempre legittima. Certo, ci sono traduzioni meno sbagliate di altre. Ma sotto sotto, sono tutte sbagliate.
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Sì, lo sono, in minima parte sì (beh, nel caso della Principess Splendente è molto evidente, per esempio). Ma quello che ti è sempre stato contestato sono i forti fattori comuni a tutti quei dialoghi, non le differenze che vengono messe in secondo piano da questi fattori comuni. Non è accettato proprio il "sentire dei giapponesi parlare in italiano". Lascia stare ciò che ritieni giusto o sbagliato, la capisco perfettamente la tua ideologia: quando parlo in inglese nei paesi esteri odio non riuscire a dare la sfumatura che la mia mente italiana partorisce nel dialogo in quanto mente italiana, e quindi finisco per dire cose italianizzate oppure mutilate e la cosa mi dà ai nervi perché penso sia fondamentale il modo in cui vengono dette le cose e concatenate tra loro, ad esempio il sarcasmo si basa interamente su questo e forma e contenuto in quei casi vanno a braccetto.
Quindi sì, capisco perfettamente la tua ideologia. È sempre stato un conflitto di premesse (chi fruisce del doppiaggio non desidera questo), però nel fare le argomentazioni che ho fatto finora ho preso comunque la tua premessa per buona. Cercando solo di arginarla e limitarla (tu stesso non la spingi al massimo del suo potenziale, quindi anche tu ti dai dei paletti. Cerco solo di avvicinarli).
Sì, esattamente. Dico "tue stranezze" perché sei tu che porti avanti questa metodologia, quindi che tu lo voglia o no... è un metodo che hai introdotto tu in quest'ambiente, e a venire sarà ricordato con la tua figura.
No, non è così, credimi. O meglio, per qualcuno sarà sicuramente così. Per altri, semplicemente, guardare un film è legato all'immersione, l'immedesimazione, la sospensione di incredulità: ovvero l'illusione che quei personaggi siano vivi e stiano parlando in quel modo. Si tratta sempre di convenzioni, ovvero lo spettatore è conscio che i personaggi stanno parlando in un linguaggio codificato, ma la premessa comune è che ciò che comunichino non siano parole, ma concetti. Non tutti i concetti sono uguali per tutti i popoli, ma ce ne sono molti di simili, l'adattamento ti dice semplicemente: "Ehi, tale concetto espresso nella nostra lingua si esprime in modo più o meno efficace in quest'altro modo analogo." Quello che invece definiscono "Cannarsiano" (vale a dire il "giapponese parlato in italiano") è una lingua a sé stante in cui vengono espressi gli stessi identici concetti, solo utilizzando forme differenti da quelle utilizzabili nell'italiano: ci si può fare senz'altro l'abitudine, ma di per sé spiazza e rompe la quarta parete. Non è del tutto sbagliato dire che equivalga ad una sorta di lingua a sé stante, un dialetto basato sulla grammatica italiana. Ma in quanto "giapponese-parlato-in-italiano" non è giapponese. Le persone che desiderano tenere invariato il più possibile forme e concetti originali non fruiscono del doppiaggio, fanno un giusto e sacrosanto passo avanti: fruiscono dei sottotitoli. Il passo ulteriormente successivo è quello di fruire dei sottotitoli nella medesima lingua del parlato (nel caso: giapponese con sottotitoli giapponesi). Il passo ulteriormente successivo è quello dei madrelingua: non fruire di alcun sottotitolo.
Io credo che il tuo metodo sia PERFETTO per dei sottotitoli. Nel doppiaggio non ha un target (ed è stato ampliamente dimostrato).
La tua ideologia non tiene conto del concetto di target, ma il mercato sì. Il doppiaggio è puro mercato. Non valorizza la cultura.
I sottotitoli possono ancora appigliarsi alla valorizzazione culturale.
C'è un'altra cosa che sbagli a ritenere tale secondo me, vale a dire la seguente:
È vero che utilizzi il vocabolario nel modo più completo possibile, proprio perché attingi ai significati etimologici. Non tieni conto di quanto una parola sia "alla moda" o "desueta", lo sfrutti nella sua completezza.
Però il vocabolario attualmente utilizzabile è comunque limitato e circoscritto nel tempo. È diverso rispetto all'italiano del passato, e nel futuro cambierà.
Petrarca diceva "nudrire", oggi diciamo "nutrire". Diceva "giovenile", oggi diciamo "giovanile", magari tra 200 anni si dirà "giovinno".
Pertanto l'attuale vocabolario sfruttato al 100% non è immortale, fa comunque parte del giorno d'oggi. Invecchierà. Tra 200 anni forse non potrà più essere seguito. Le opere invecchiano con le loro parole. Se un'opera è del 1920, va adattata tenendo conto dei vocaboli e delle forme del 1920. Se un'opera è del 1990, va adattata tenendo conto dei vocaboli e delle forme del 1990. Anche la FREQUENZA D'USO è importante. È un dato molto difficile da verificare con sicurezza del 100%, ma è un dato importante. Se si potesse verificare in modo affidabile ANDREBBE ASSOLUTAMENTE verificato. Nell'impossibilità di farlo, si va per presunzione. È necessario. Anche tu dai per scontato che un bambino qualsiasi di 3 anni non utilizzi la completezza di vocabolo di un adulto.
Beh, ma rivoltando la medaglia: allora sei tu che non guardi un certo tipo di animazione.
"Uso" è una delle parole più utilizzate in quel tipo di linguaggio codificato, lo stesso linguaggio codificato in cui dicono ovunque "Chikusho" o "Teme" (cose oltremodo inopportune nella vita quotidiana) o in cui ripetono allo sfinimento "Yamete" senza forma onofirica (in effetti, negli Anime sono tutti troppo tremendamente maleducati e spavaldi, ma è un'idealizzazione). Evangelion usa lo stesso linguaggio. Noto poi che stai escludendo i casi in cui in Evangelion viene detto "Uso da". Credi veramente che ci sia tutta questa differenza?
In conformità ai miei limiti e tenendo conto del mio margine di errore, trovo oggettivo che la differenza tra "Uso" e "Uso da" sia sostanzialmente la stessa che ci può essere tra "Chigau" e "Chigau yo".
In italiano tra un "Non è vero!" e un "No!" con il debito sottotesto non c'è differenza nell'intento di comunicazione, è solo un rafforzativo.
Che in italiano si possa? Dunque, Diversamente. Che si possa dire, conscio, sono io ad esserlo. Lo nego, che si possa, in italiano. Di comunicazione vi è un intento; della comunicazione, quell'intento, sì, differente, questo intento, sarà. Negazione, ovvero doppia negazione, ovvero constatazione. C'è un concetto, esso espresso è tale; rimane tale.
...Come dimostrato sopra: parole normali, ma espresse in modo inusuale rispetto alla frequenza di utilizzo, mancano l'obbiettivo. (cioè comunicare)
Eh, ok. Ma come si fa a stabilire chi ha ragione, se abbiamo percezioni diverse della cosa? Io non rappresento il mondo, tu non rappresenti il mondo. Siamo una caccola nella statistica, è il nostro buonsenso a farci esprimere un'opinione nel merito. Siamo nostro malgrado costretti ad avvalerci di esso.
Certo che Asuka ci crede: è soltanto un sottotesto. Come sai benissimo, serve a far capire un'intenzione astratta utilizzando parole che rendano bene l'idea del tono, del tipo di stato d'animo e del modo di porsi nei confronti dell'interlocutore. La sfortuna dei sottotesti è che sono profondamente relativi. In base a quello che ho recepito, in questo caso io e te abbiamo lo stesso identico concetto di ciò che voleva esprimere Asuka in entrambe le circostanze (o meglio, ciò che volevano esprimere per lei gli sceneggiatori che hanno scritto i suoi dialoghi). Abbiamo entrambi questo concetto astratto. Probabilmente usiamo parole diverse per esprimere il suo sottotesto, ma quello è. Il punto è che la frequenza di utilizzo della parola "Bugia!" in italiano, isolata a quel modo, cambia il modo di intendere l'intenzione che ne deriva. Sì, la sua frequenza d'utilizzo nella vita quotidiana di noi esseri umani nel 2019 (e nel 1996) muta la parola stessa, è innegabile. Mi affligge non poter reperire in modo statistico e verificabile questa cosa, ma è una percezione talmente nitida e chiara in me che non posso in nessun modo ignorarla, pertanto mi comporto di conseguenza.
Per le battute finali di Gendo, attendo le tue argomentazioni per porre nuove domande.
Torno qui a distanza di due anni perché ho ricercato la conversazione e mai avrei pensato che avrebbe risposto a tutti i commenti. Le faccio le mie più sincere congratulazioni per l'impegno e la pazienza.
Ma no, non riesco comunque a capire come un traduttore possa pensare solo ed esclusivamente alle volontà dell'autore dell'opera e non al pubblico di destinazione. Cannarsi, lei è un ponte, un ponte che deve connettere l'opera ai suoi fruitori, perché per evidenti motivazioni storiche, culturali, geografiche e quant'altro, non potrà mai trasmettere l'intento dell'autore con delle parole. Questo vale per il giapponese come per qualsiasi altra lingua, ovviamente. Se prendiamo atto di questo, ciò che le resta è sforzarsi di trasmettere il messaggio in generale e in modo comprensibile, perché credere di poter rendere, usando per filo e per segno le parole dell'autore, la sua idea mentre concepiva l'opera, è di una presunzione allucinante.
Lei non potrà mai, e sottolineo MAI, rispecchiare le idee dell'autore, quindi basta con questa storia dell'essere fedeli alle idee e alle parole, perché è tutto un fantasma che lei stesso si è costruito.
Proprio per questo il mio referente è l'opera, non "l'idea dell'opera" nella testa dell'autore, né presunta e neppure dichiarata in possibili "interpretazioni autentiche".
A tutti gli effetti, mi pare che tu imputi a me esattamente quello che i "normai" traduttori fanno, e io cerco di evitare: interpretare. Se rileggi gli ultimi tre messaggi credo sarà evidente anche a te.
Per l'appunto non intendo farlo. Resto con gli occhi fissi sulla materia dell'opera: le parole che la esprimono.
Le parole esprimono linguisticamente qualcosa, il loro legame determina un contesto culturale, nessuno dei due va perso con una "traduzione". Non serve chiamarsi DeSaussure e distinguere tra langue e parole per capirlo.
Sì, il fatto è che "l'opera in sé" è priva di significato, senza il fattore interpretativo.
La comunicazione non si limita alla grammatica.
Sono solo parole e immagini in sequenza, che comunicano un numero limitato di informazioni, con un numero potenzialmente infinito di variabili ed ambivalenze.
È l'interpretazione a fornire loro un senso logico, e a racchiudere il maggior numero di informazioni.
Il linguaggio è, per definizione stessa, necessariamente ambiguo.
Ed è proprio questo il problema, santo cielo!
Lei tiene gli occhi fissi sulla materia dell'opera e non guarda in faccia il suo pubblico di destinazione! A cosa serve il suo operato, e che senso ha il suo ruolo se si limita a riportare la "realtà dei fatti"? Quello che fa non è un lavoro di traduzione, ma è quello di un notaio! Lei prende una parola e l'annota, poi un'altra e un'altra ancora, ignorando e prendendo per buono quello che legge. Ma come fa una persona del suo calibro a ritenersi soddisfatta di tutto questo?
Io insisto e ancora insisto, perché ogni volta che si parla di lei mi piange il cuore: metta VERAMENTE le sue conoscenze al servizio del pubblico, perché potrebbe fare grandi cose!
Ogni lingua è un'approssimazione limitativa e limitante, quindi determinati concetti e sfumature vengono rese per approssimazione e, pertanto, in maniera relativa. Quando si dice che "Il linguaggio è necessariamente ambiguo" si intende questo... in poche parole una data parola o frase, che oggettivamente dovrebbe voler dire una cosa univoca, in realtà non significa mai una cosa necessariemente univoca.
E questo è un dato di fatto.
Infatti non lo faccio neppure io. In termini di di relazione, a corrispondenza tra aree semantiche interlinguistiche non è mai biettiva. Se parliamo di traduzione in termini di funzione matematica, la funzione non è biunivoca. Si tratta di applicazioni a volta iniettive, a volte suriettive, a causa della sempre presente polisemia terminologica in ambo le lingue coinvolte, ma anche per la semplice non-corrispondenza d'estensione delle aree semantiche di significato associate ad ogni significante.
Le parole [signifcant] dal significato davvero univoco sono davvero pochissime, in genere appartengono a registri molto specifici se non tecnici - un eritrocita, per dire, è un significato che si è definito specificamente. Così come molti termini giuridici, per fare una citazione interna si può dire che la lingua tecnico-specifica è normata quasi da un giuspositivismo puro di tipo kelseniano, ma nella lingua e terminologia più comune, usuale, non è mai così.
Il fatto che si cerci, si provi a temere ordinata un un singolo testo testo tradotto/adattato/localizzato per non sacrificarne la varietà linguistica - né sacrificarla per contro - è solo un tentativo e un intento di rigore, non è una norma preordinata al significato delle cose.
Quindi?
È sufficiente che non compari i tuoi dialoghi a quelli originali. Perché i tuoi dialoghi non sono quelli originali.
Nessuna traduzione/adattamento è comparabile ai dialoghi originali.
Tutte le traduzioni sono sbagliate e soggette ad un'interpretazione contestuale anche minima... pertanto (quasi) ogni critica è sempre legittima.
Certo, ci sono traduzioni meno sbagliate di altre. Ma sotto sotto, sono tutte sbagliate.
Questo è un passo logico che hai introdotto tu, ed è del tutto indebito oltreché assurdo.
Un'opera derivata è derivata, e va "paragonata", ovvero riferita, al suo referente - come tale. Tutto qui.