Le persone tipicamente dedicano la propria vita alla finzione.
Agosto 1989, il “paese del sol levante” vede sorgere una nuova opera dal genio di Mamoru Oshii, si tratta di Gosenzosama Banbanzai (letteralmente “Lunga lunga vita agli Antenati”), una miniserie composta da sei OVA e partorita in sinergia con Kenji Kawai; il quale successivamente diventerà uno stretto collaboratore del Maestro, curando la colonna sonora di tutti i suoi lavori.
Gosenzosama Banbanzai incarna in modo esemplare il caso di quelle serie animate rimaste ignote al mondo e il cui nome è presto svanito dalle scene, obliato nei meandri del tempo, per rimanere ad appannaggio di pochissimi e fedeli fan. L’occorrenza del suo anniversario, che cade oggi 5 agosto, pare pertanto l’occasione più appropriata per donargli un piccolo tributo, così da far brillare ancora una volta tale inestimabile gemma dell’animazione nipponica, nella speranza di farla riscoprire destando la curiosità di qualche nuovo appassionato, o di far scendere una lacrima di nostalgia a chi già ha potuto goderne la visione.
La ragione del “fallimento”, a livello di successo commerciale, di Gosenzosama si può comodamente imputare, tra le altre cose, anche al suo essere estremamente peculiare, cosa che non dovrebbe stupire considerando la cifra prettamente intellettuale e autoriale che contrassegna le opere di Oshii. Si tratta, infatti, di una serie caratterizzata da uno sperimentalismo estremo ed efferato, assolutamente distante dai canoni consueti a cui si è abituati quando ci si approccia ad una serie animata proveniente dal panorama giapponese. Ciò tuttavia non deve intimorire perché, una volta compreso il “modus operandi” attraverso il quale la serie si muove, apparirà chiaro allo spettatore come il particolare concerto tra regia e sceneggiatura di quest’opera lo voglia deliberatamente provocare, sfidando le convinzioni e i luoghi comuni cui è abituato, per portarlo ad una riflessione sul topos che intende mettere alla luce: la famiglia. Ma questo aspetto lo analizzeremo più avanti.
Protagonisti di questa assurda storia sono i membri della famiglia Yomota, i quali, una domenica mattina, uguale a tante altre, si troveranno innanzi a un fatto che sconvolgerà la loro quotidiana tranquillità e che porterà le loro vicende verso tragici lidi: l’arrivo a casa loro di Maroko, una sedicente parente proveniente dal futuro.
La narrazione è strutturata seguendo uno schema affine a quello della rappresentazione teatrale, ciò lo si arguisce in modo chiaro e diretto da diversi dettagli con cui vengono rappresentati i personaggi e con cui vengono composti gli ambienti in cui essi si muovono: in primis i personaggi stessi hanno le fattezze di una marionetta, evidenti sono le giunture legnose degli arti e l'innaturale sproporzione di piedi e mani. Altro elemento fondamentale che conferisce all'atmosfera la sensazione di trovarsi su un palcoscenico è la staticità dei luoghi ove si svolge la storia, i quali sembrano vere e proprie scenografie fisse in cui i le comparse si muovono adottando una gestualità e una recitazione tipica degli attori di teatro. Inoltre, le figure che non hanno scena in un dato momento rimangono come ferme, in attesa del loro turno, mentre gli altri commedianti recitano la propria parte, sottolineati da un insieme di luci tipicamente teatrali e connotate da un grande impatto scenico.
Gosenzosama, tuttavia, non si limita a proporre una tragicommedia che si svolge rincorrendo i canoni tipici della rappresentazione teatrale, ma si spinge ben oltre, sconfinando pesantemente nel metateatro e nella metafora. Fin dagli esordi, infatti, la serie assume la veste di una commedia dell’assurdo, la storia vira ben presto verso lidi irrazionali, insensati e vuoti, essendo dominata da un caos eccentricamente consapevole e disturbante che, in un primo momento, spiazza completamente. Così, i teatranti fanno letteralmente e brutalmente a pezzi la quarta parete: si rivolgono direttamente verso il pubblico, facendo intendere allo spettatore, attraverso i loro dialoghi e monologhi, come essi siano perfettamente consapevoli di essere parte di una sceneggiatura scritta da qualcuno, delle marionette di un plot alquanto scadente, leitmotiv con il quale la sceneggiatura gioca continuamente, rimarcando la natura fittizia e assurda del tutto in modo costante durante l’intero svolgersi delle puntate.
Il ritmo della narrazione, a dispetto della classica lentezza di Oshii, è in realtà molto movimentato, si crea così una dicotomia stridente tra le scenografie lapidarie e immote e la frenesia delle scene che prendono vita al loro interno, rendendoli due elementi che si trovano in perenne conflitto. La sceneggiatura consiste prevalentemente in eterni monologhi o dialoghi che assumono le forme più disparate e imprevedibili, quali ad esempio la parodia dell'arringa di un processo, un fantomatico dibattito di logica, una romantica canzone. Si tratta di momenti densi di concetti e di riflessioni importanti, la cui serietà, tuttavia, viene di continuo contaminata e repentinamente interrotta da un umorismo ed ironia a tratti insensati e demenziali, che conferiscono all'opera il sapore di un’eccentrica parodia. Tuttavia, si tratta di un linguaggio funzionale e ricercato appositamente per donare un’atmosfera assurda e irreale alle scene, adatto al tono falsamente scanzonato dell’opera in questione, che non tradisce mai il suo animo più profondo nemmeno nei momenti di allegra ilarità, “riconducendo ogni scena ad un’amara riflessione”. L’esempio più calzante di questa dicotomia tra serietà e leggerezza lo rintracciamo, principalmente, in un espediente narrativo che ha incontrato il mio gusto e che ho trovato addirittura geniale: ognuna delle puntate si apre con una sorta di parodistico documentario che analizza gli aspetti comportamentali, relativi alla famiglia, di alcuni uccelli, portandoli metaforicamente in analogia con il comportamento umano e, in particolare, con ciò che accade nella relativa puntata. Questi siparietti che fanno da incipit a ogni OVA (a parte l’ultimo) sono per l’appunto conditi con una sana vena di umorismo e di ilarità che li rende godibili e quasi scanzonati, nonostante la loro profondità metaforica.
Ma veniamo ora ai contenuti di “Gosenzosama Banbanzai”, si può intraprenderne l’esegesi cominciando dal titolo stesso dell’opera, che indica in modo chiaro quale sarà il tema al centro delle speculazioni dei personaggi: la famiglia. Mamoru Oshii procede, nello scandire il ritmo degli episodi, ad una profonda analisi dell’istituzione familiare compiendone simultaneamente, tuttavia, anche una progressiva e ineluttabile decostruzione. Nel primo episodio si esordisce con una rappresentazione noiosamente quotidiana e convenzionale del nucleo familiare tradizionale fino ad arrivare, nell’ultima puntata, alla sua graduale e completa distruzione, annientandone i presupposti e financo il senso più profondo. Questa decostruzione della famiglia tradizionale avviene da un incontro/scontro tra due modelli culturali completamente diversi tra loro: la cultura tradizionale giapponese, appartenente al passato, e quella moderna, improntata sui canoni occidentali e americani. I due modelli non potrebbero essere più diversi e antitetici, non a caso il fattore di disturbo che porterà al declino della famiglia (e cioè Maroko) proviene proprio “dal futuro”. È lei l’elemento anarchico, che illude i personaggi con una promessa di libertà e di felicità: ognuno di essi la vede in modo diverso, interpretandola attraverso le proprie lenti come un fine da inseguire e che lo renderà libero dalla noia del quotidiano, spettro e tomba della famiglia tradizionale. Infatti, tutta la serie sarà costellata da abbondanti, se non anche assillanti, riferimenti al consumismo americano, vessillo della decadenza del costume. Ad esempio, uno dei personaggi (Bunmei) suona una canzone triste su una spiaggia costellata di lattine di Coca-Cola, che vengono trascinate dalle onde, ma da menzionare anche la mazza da baseball che Inumaru ha comprato, oltre che i continui riferimenti alla Kodak e ad altri costrutti del capitalismo occidentale.
Un altro strumento che viene parallelamente utilizzato per smontare, pezzo per pezzo, l’istituzione familiare è la natura ambigua della realtà, e del linguaggio. L’opera infatti si avvolge in un intenso manto di relativismo, spesso nei dialoghi si mostra come si possa ribaltare la percezione di una situazione forzando la logica e capovolgendo a piacimento i concetti a seconda del punto di vista che si adotta, piegando le parole. Il linguaggio diventa non solo uno strumento, ma un ontologico filtro attraverso il quale noi creiamo e plasmiamo la realtà. I legami di sangue, e la relativa struttura familiare che orbita attorno ad essi, sono solo una finzione, una convenzione fittizia che risulta però funzionale alla società, di cui ne costituisce la base fondante. Si tratta di una narrazione della società di cui noi siamo (appunto, come i personaggi di Gosenzosama) marionette, attori che indossano una maschera, assuefatti ad un mito la cui base è troppo solida, nel nostro immaginario, per esser messa in discussione. La base che ci porta a credere e a dare valore ai legami di sangue è, infatti, sostanzialmente fideistica, nessuno d’altronde ha assistito alla propria nascita. Ma qual è realmente, quindi, il valore dei legami familiari laddove essi si rivelano come meri concetti frutto del linguaggio? Di una convenzione umana? Riducendo la famiglia ad una mera questione di semantica la famiglia si rompe, i loro membri riacquistano l’anelito alla libertà e al libero arbitrio il cui corollario è una ineluttabile adesione al feroce individualismo così diffuso nella società capitalistica occidentale. Individualismo che si pone in rotta di collisione con la concezione, diametralmente opposta, data dalla famiglia tradizionale giapponese, che vede il gruppo familiare dotato di maggiore importanza rispetto al singolo individuo. Infatti, spesso Maroko incarna questi due antitetici ideali. Lei è sì l’anarchia occidentale, ma che si ammanta, per nascondersi, dello spirito di sacrificio nipponico, fingendo di essere la perfetta donna di casa che si strugge per i suoi antenati, cui attribuisce un valore immensamente superiore al proprio.
In conclusione Gosenzosama Banbanzai è un’opera molto particolare e sperimentale che potrebbe facilmente non piacere ad un pubblico generalista, legato a determinati canoni e pretese. Tuttavia, costituisce un’espressione di quella piccola componente dell’animazione giapponese che si propone di essere un “qualcosa di più”, e in questo ci riesce egregiamente. Gosenzosama offre infatti un’analisi estremamente interessante che si coniuga ad un modo espressivo fortemente peculiare e originale, tanto che difficilmente se ne può trovare uno simile. Pertanto, lo consiglio fortemente, in primis, agli appassionati di Oshii, e secondariamente anche a tutti coloro che vogliano mettersi in gioco e provare a seguire qualcosa di diverso dal solito, ma che può offrire veramente tanto.
La recensione è succosa e l'opera mi ispira parecchio.
Ciò che colpisce ancora oggi è non tanto il trovarsi davanti a un prodotto animato che ricorda una messinscena teatrale, quanto più la sua capacità di restituire allo spettatore sensazioni incredibilmente reali grazie ad una completa consapevolezza da parte dell'autore di quegli specifici metodi narrativi. Fa quasi impressione per la sua accuratezza, poteva mettere dei tubi parlanti al posto dei personaggi, il risultato sarebbe stato lo stesso.
Complimenti, Oni, per la puntuale disamina
Analisi eccellente!
Comunque sperimentale sì, ma non così tanto, c'è di peggio.
Vabbè non esageriamo. Ci sarebbero anche Flcl, kenshin e logh.
Erm, sei tu ad esagerare, Gosenzosama è nettamente superiore a questi, oltre ad essere uno degli anime più originali di sempre.
Giudizio inamovibile per quanto mi riguarda.
Beh sono contento che qualcuno di incuriosito ci sia stato, Gosenzosama purtroppo non se lo calcola nessuno proprio.
@franzelion
Franz, secondo il mio gusto Gosenzosama è di una spanna sopra a quasi tutto, tanto che facilmente potrebbe essere uno dei miei Oshii preferiti. Ma è il mio gusto quindi comprendo che ce ne si possa discostare e, anzi, posso capire che magari si preferisca altro. Comunque, a parte questo, in realtà ho scritto che è tra le più sperimentali tra le sue opere, e non in assoluto. Anche se, in ogni modo, mi viene in mente molto poco che sia così originale e pensato in modo così elegante e intelligente.
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