Negli ultimi anni il mercato dei media sembra andare verso una sorta di stagnazione, in cui remake, reboot e remastered nel caso videoludico si susseguono senza sosta, quasi come se mancassero nuove e interessanti idee o persino avere paura di proporle al grande pubblico. Concentrandoci maggiormente sul nostro settore, l’avanzare della tecnologia sembra essere stato un pretesto per scavare nei ricordi, approfittando dell’effetto nostalgia; se abbiamo avuto casi eclatanti come Resident Evil 2 e Final Fantasy VII, con una rivisitazione quasi totale dei titoli originali, maggiori sono le riproposizioni uno a uno di vecchie glorie, a volte semplicemente ri-masterizzate. A fronte di questo tipo di mercato ve ne è uno che sembra essere diventato di nicchia, in cui i titoli proposti somigliano quasi a dei test per valutare in presa diretta la reazione del pubblico. Il caso più emblematico è sicuramente Death Stranding di Hideo Kojima, un’opera ambiziosa quanto criptica, sia narrativamente che sul fronte gameplay. Da qui alle reazioni negative del pubblico rispetto alle scelte di uno sviluppatore il passo è breve e gli esempi sono innumerevoli, come ad esempio le variazioni sul finale di Mass Effect 3 da parte di Bioware.
Prima di arrivare alle reazioni però, vi è una lunga strada da percorrere che normalmente ha inizio ben prima che un titolo venga presentato. La nostra cultura è ormai pregna di quell'hype (aspettativa) in grado di far cambiare valutazioni su un’opera in maniera drastica. Molto spesso è colpa del pubblico, in grado di esaltarsi alla vista di qualche frame di un trailer ma, alle volte, avviene l’esatto contrario: storiche sono ormai le presentazioni di Killzone 2, Watch Dogs e No man’s Sky, capaci di fomentare il pubblico con demo tecniche fuori da ogni logica di mercato ma ben lontani da quanto poi mostrato realmente, in fase di vendita. In questo caso, come dimostrato sia da Guerrilla che da Ubisoft, lo sviluppo di un prodotto può essere influenzato anche dalle aspettative delle stesse software house, soprattutto quando ci si ritrova in mezzo a un salto tecnologico tra due generazioni di console. Inutile ricordare le incessanti critiche arrivate da ogni dove, con recensioni negative a cascata da parte dell’utenza ─ anche se per dovere di cronaca, Killzone 2 si dimostrò comunque un eccellente FPS.
Quello che sembra mancare dunque è il giusto equilibrio di rapporto tra il pubblico e il proponente, un rapporto labile che però, negli ultimi anni ha visto dei salti di qualità soprattutto nella comunicazione, come dimostra molto spesso Capcom, con presentazioni chiare e senza fronzoli. Insomma, non tutto il male viene per nuocere e le esperienze citate poc'anzi sono servite quasi a educare il pubblico, in cui l’esempio “Watch Dogs” salta ormai costantemente all'occhio in ogni chat a ogni nuova presentazione. Ma quando l’aspettativa è esacerbata da un percorso e abitudine alla qualità, cosa avviene?
Quello che sembra mancare dunque è il giusto equilibrio di rapporto tra il pubblico e il proponente, un rapporto labile che però, negli ultimi anni ha visto dei salti di qualità soprattutto nella comunicazione, come dimostra molto spesso Capcom, con presentazioni chiare e senza fronzoli. Insomma, non tutto il male viene per nuocere e le esperienze citate poc'anzi sono servite quasi a educare il pubblico, in cui l’esempio “Watch Dogs” salta ormai costantemente all'occhio in ogni chat a ogni nuova presentazione. Ma quando l’aspettativa è esacerbata da un percorso e abitudine alla qualità, cosa avviene?
Il 2012, oltre che essere ricordato per la profezia Maya, è ricordato come uno degli anni di svolta nella comunicazione videoludica, avanzando prepotentemente i problemi e il potere che l’utenza può avere sugli autori. È un caso ancora in voga tuttora, con uno Star Wars: Episodio IX in grado di stravolgere quanto raccontato prima solo per rispondere alle critiche sull'episodio precedente. Ma il 2012 appunto, era l’anno della conclusione di una delle trilogie più importanti nel panorama videoludico: Mass Effect.
Dopo un secondo capitolo aspramente criticato per il brusco cambio di rotta, passando da una marcata componente RPG a una maggiore ricerca d’azione, Mass Effect 3 aveva l’onere di concludere degnamente una storia ─ o storie ─ che avevano incollato sugli schermi milioni di appassionati, in grado finalmente di vivere in prima persona l’epopea di una space opera d’altri tempi. E quello che avvenne… beh, fu un disatro: il titolo ebbe una serie di problemi legati a gameplay ma soprattutto narrativi, culminati nei finali che tanto hanno fatto discutere nei mesi successivi. Questi, vennero appunto aspramente criticati e il rumore generato non fu indifferente alle orecchie di Bioware. La software house canadese corse ai ripari, presentando un DLC gratuito denominato Extended Cut, in grado di riscrivere parzialmente i finali e mettendo una pezza su alcuni buchi narrativi. Se alcuni lodarono il tentativo, considerandolo come una sorta di vicinanza agli aficionados da parte degli sviluppatori, altri lanciarono un dibattito che stiamo affrontando oggi: qual è il limite da non varcare nella stesura di un’opera? È giusto che il rispetto per i fan debba poter influenzare le scelte funzionali e stilistiche di un prodotto?
Rispetto alle altre arti, quella videoludica è qualcosa che si protrae nel tempo, grazie a continui aggiornamenti e/o espansioni. I prodotti da essa generati dunque, non smettono mai di far parlare il pubblico, salvo casi particolari ─ Anthem, che rientrerebbe tranquillamente nel discorso. Quanto accaduto con Mass Effect 3 è qualcosa che mina pesantemente la credibilità degli sviluppatori, nonché la dignità dell’intero sistema videoludico in quanto tale: come può un prodotto definirsi tale se può subire variazioni in corso, stravolto da utenti che semplicemente non sono a conoscenza ─ per la grande maggior parte ─ dei vari equilibri da tenere in considerazione per la stesura di un’opera?
Da quel giorno, segnato come punto di non ritorno, qualcosa sembra essere cambiato e nonostante un po’ tutti siamo passati da Game of Thrones, il rischio di un cambio in corso d’opera sembra scongiurato per sempre.
Ma esiste anche qualcuno che di tutto questo, semplicemente se ne frega.
Dopo un secondo capitolo aspramente criticato per il brusco cambio di rotta, passando da una marcata componente RPG a una maggiore ricerca d’azione, Mass Effect 3 aveva l’onere di concludere degnamente una storia ─ o storie ─ che avevano incollato sugli schermi milioni di appassionati, in grado finalmente di vivere in prima persona l’epopea di una space opera d’altri tempi. E quello che avvenne… beh, fu un disatro: il titolo ebbe una serie di problemi legati a gameplay ma soprattutto narrativi, culminati nei finali che tanto hanno fatto discutere nei mesi successivi. Questi, vennero appunto aspramente criticati e il rumore generato non fu indifferente alle orecchie di Bioware. La software house canadese corse ai ripari, presentando un DLC gratuito denominato Extended Cut, in grado di riscrivere parzialmente i finali e mettendo una pezza su alcuni buchi narrativi. Se alcuni lodarono il tentativo, considerandolo come una sorta di vicinanza agli aficionados da parte degli sviluppatori, altri lanciarono un dibattito che stiamo affrontando oggi: qual è il limite da non varcare nella stesura di un’opera? È giusto che il rispetto per i fan debba poter influenzare le scelte funzionali e stilistiche di un prodotto?
Rispetto alle altre arti, quella videoludica è qualcosa che si protrae nel tempo, grazie a continui aggiornamenti e/o espansioni. I prodotti da essa generati dunque, non smettono mai di far parlare il pubblico, salvo casi particolari ─ Anthem, che rientrerebbe tranquillamente nel discorso. Quanto accaduto con Mass Effect 3 è qualcosa che mina pesantemente la credibilità degli sviluppatori, nonché la dignità dell’intero sistema videoludico in quanto tale: come può un prodotto definirsi tale se può subire variazioni in corso, stravolto da utenti che semplicemente non sono a conoscenza ─ per la grande maggior parte ─ dei vari equilibri da tenere in considerazione per la stesura di un’opera?
Da quel giorno, segnato come punto di non ritorno, qualcosa sembra essere cambiato e nonostante un po’ tutti siamo passati da Game of Thrones, il rischio di un cambio in corso d’opera sembra scongiurato per sempre.
Ma esiste anche qualcuno che di tutto questo, semplicemente se ne frega.
Quel qualcuno è Hideo Kojima ─ ma citiamo anche Hidetaka Miyazaki ─ capace di portare le proprie idee indipendentemente dalle possibili reazioni del pubblico. Qui entra in scena anche l’enorme peso autoriale del papà di Metal Gear e prima di affrontare il caso Death Stranding, partiamo proprio da qui. Un piccolo esempio della sua autorevolezza avvenne alla presentazione di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, dove l’immensa campagna di marketing portò a pensare che Snake sarebbe stato il protagonista dell’opera. Sappiamo tutti com'è andata, con Raiden che assunse il ruolo di star del secondo episodio.
Se la parola più usata per descrivere il caso è stata la “borisiana” genio, nei confronti di Kojima, inutile dire come i tempi siano cambiati. Fosse accaduto oggi, probabilmente si sarebbe gridato allo scandalo, se non addirittura alla truffa. Il 2002 era ben altra epoca.
Death Strandig dunque, è l’ultima opera di Kojima e ovviamente ha fatto parlare di sé in tutte le salse: essenzialmente è il gameplay stesso a esser stato preso di mira, spesso descritto come noioso, monotono senza prendere completamente in considerazione la poetica di cui l’opera è intrisa. Proprio Death Stranding riesce a darci la chiave per comprendere forse la rottura avvenuta tra pubblico e sviluppatori: l’estrapolazione.
Prendendo in considerazione gli studi e ragionamenti del filosofo francese Henri Bergson, il problema che si è venuto a creare è appunto l’estrapolazione dal contesto, in questi casi il gameplay di Death Stranding o i finali di Mass Effect 3. Ma proprio la loro estrapolazione non fa altro che cancellare la “storia” del singolo elemento, che non vive più in funzione dell’opera stessa ma in funzione di sé e per sé, senza veicolare appieno il suo messaggio. Quello che succede, in poche parole, è che il pubblico non è in grado o non ha volontà di valutare un percorso in grado di giustificare le scelte intraprese, spesso culmine di anni di lavoro.
È chiaro che i casi presi in esame, se presi singolarmente, abbiano più o meno delle lacune ma se si è in grado di fare un passo indietro, approfittando della visione d’insieme, ci si accorge magari di qualcos'altro:
i finali di Mass Effect probabilmente restituiscono un giusto compromesso tra quanto narrato e le scelte del videogiocatore e il gameplay di Death Stranding è esso stesso narrativa, capace di raccontare più di quanto mostrate dalle ─ lunghissime ─ cutscene. Sia chiaro, questo è un problema che hanno molto spesso anche i recensori: l’analisi di un’opera sovente estrapola sub-consciamente alcuni elementi, possano essi essere musica, animazioni e molto altro. Che si fa dunque? Un bel respiro e ci si allena allo spirito critico: se molti sviluppatori hanno paura di fallire nel proporre nuove idee è anche colpa nostra, capaci di puntare il dito su un singolo elemento piuttosto che analizzare l’intero prodotto. Certo, molti addetti ai lavori si adagiano su quanto avviene nel mercato odierno ma quella signori, è tutta un’altra storia.
Se la parola più usata per descrivere il caso è stata la “borisiana” genio, nei confronti di Kojima, inutile dire come i tempi siano cambiati. Fosse accaduto oggi, probabilmente si sarebbe gridato allo scandalo, se non addirittura alla truffa. Il 2002 era ben altra epoca.
Death Strandig dunque, è l’ultima opera di Kojima e ovviamente ha fatto parlare di sé in tutte le salse: essenzialmente è il gameplay stesso a esser stato preso di mira, spesso descritto come noioso, monotono senza prendere completamente in considerazione la poetica di cui l’opera è intrisa. Proprio Death Stranding riesce a darci la chiave per comprendere forse la rottura avvenuta tra pubblico e sviluppatori: l’estrapolazione.
Prendendo in considerazione gli studi e ragionamenti del filosofo francese Henri Bergson, il problema che si è venuto a creare è appunto l’estrapolazione dal contesto, in questi casi il gameplay di Death Stranding o i finali di Mass Effect 3. Ma proprio la loro estrapolazione non fa altro che cancellare la “storia” del singolo elemento, che non vive più in funzione dell’opera stessa ma in funzione di sé e per sé, senza veicolare appieno il suo messaggio. Quello che succede, in poche parole, è che il pubblico non è in grado o non ha volontà di valutare un percorso in grado di giustificare le scelte intraprese, spesso culmine di anni di lavoro.
È chiaro che i casi presi in esame, se presi singolarmente, abbiano più o meno delle lacune ma se si è in grado di fare un passo indietro, approfittando della visione d’insieme, ci si accorge magari di qualcos'altro:
i finali di Mass Effect probabilmente restituiscono un giusto compromesso tra quanto narrato e le scelte del videogiocatore e il gameplay di Death Stranding è esso stesso narrativa, capace di raccontare più di quanto mostrate dalle ─ lunghissime ─ cutscene. Sia chiaro, questo è un problema che hanno molto spesso anche i recensori: l’analisi di un’opera sovente estrapola sub-consciamente alcuni elementi, possano essi essere musica, animazioni e molto altro. Che si fa dunque? Un bel respiro e ci si allena allo spirito critico: se molti sviluppatori hanno paura di fallire nel proporre nuove idee è anche colpa nostra, capaci di puntare il dito su un singolo elemento piuttosto che analizzare l’intero prodotto. Certo, molti addetti ai lavori si adagiano su quanto avviene nel mercato odierno ma quella signori, è tutta un’altra storia.
Se uno guarda veramente il mercato attuale dei videogiochi può ben vedere che è più florido, originale e vasto di quanto sia mai stato.. e basta farsi un giro su steam per vederlo. Sono solo i titoli AAA delle major videoludiche ad essere in crisi.. e questo accade proprio per l'agguerrita concorrenza stessa proposta dal mercato, non per un distacco tra creatori e pubblico.
Esempi come Hellblade, Hollow Knight, Pillars of Eternity, Plague Tale e molti altri, sono riusciti a dimostrare come piccoli studio siano riusciti a creare quelle esperienze memorabili di gioco richieste dai fan, con il lavoro di poche persone aiutate da una comunità di appassionati che li aiutano condividendo finanze/esperienza per rendere il proprio gioco il miglior gioco possibile. E questo da una parte permette di creare veramente dei titoloni a basso budget, dall'altra mette una pesantissima aspettativa su chi il budget ce l'ha invece molto più alto (i suddetti titoli AAA) che ora sono costretti a fare meglio del meglio.. cosa che molto spesso non riescono a fare per via di metodi di produzione ancora troppo legati allo sviluppo interno che aiuto esterno che non certo ne favoriscono il lavoro e ad un margine di guadagno che certamente non favorisce l'empatia della comunità (d'altronde se vuoi far pagare un gioco 60-70 euro al consumatore è poi difficile che questo ti dia una mano per sistemarlo se ci sono errori.. al massimo si rivolgerà a te giustamente incaxxato per i soldi spesi per cui non si sente soddisfatto). Il modello di produzione originale sta quindi andando completamente in crisi ed i grandi produttori dapprima hanno provato a cercar rifugio nei propri brand più famosi, poi provato un po' di sano marketing selvaggio e solo successivamente hanno iniziato a creare nuove IP, sperimentando a tutto tondo mettendo in gioco la propria autorialità, come già stavano facendo gli studi meno blasonati, e parlando con l'utenza per assestare il tiro.
Non c'è quindi nessun distacco tra creatori e pubblico, bensì è il contrario ed in questo momento creatori e pubblico sono in uno dei momenti in cui sono più vicini in assoluto. La discrepanza nasce dal fatto che creatori e pubblico sono ovviamente eterogenei per cui ciò che può piacere ad alcuni può non piacere a tutti, per cui più si va nello sperimentale più le critiche possono fioccare.. ma questo fa parte del gioco. Con la varietà di proposte presenti sul mercato ormai l'utenza sta diventando sempre più esperta nel capire cosa vuole e come lo vuole.. frammentandosi e rendendo molto più difficile creare quei titoli mainstream adatti a tutti a cui puntano normalmente le case produttrici con i loro titoli AAA e rendendo difficile l'effettivo giudizio su quale sia un vero difetto di un opera e quale sia invece solo una questione di gusto che può essere bypassata. Ma anche questo fa parte del gioco e sta al produttore distinguere questa sottile differenza, così come accade nel mondo dei serial televisivi, e rendere la propria produzione vincente. Nessuna scissione quindi, ma solo un bel po' di sana competizione in più per tutti.
Ciao; la tua analisi è assolutamente condivisibile ma questo articolo è apertamente incentrato sul mercato tripla A, che come ben sai è il settore che smuove il mercato. Il mondo indie si muove su binari paralleli ma, salvo qualche raro caso, vive di regole tutte sue. Il tuo è comunque un altro punto di vista interessante anche se, converrai con me, le più grandi produzioni faticano a proporre qualcosa di nuovo. Non l'ho scritto nell'articolo, ma Death Stranding rappresenta uno spartiacque arrivato nel momento giusto (a cavallo fra le generazioni) e spero sarà in grado di far emergere maggiore autorialità anche nelle grandi produzioni, che rappresenta anche il fulcro dell'articolo.
E tutto il discorso fatto in precedenza verte esattamente su questo. Non è che la saga di Witcher sia nata da un grosso studio (ma solo da un grosso distributore che lo ha ben pubblicizzato), eppure possiamo tutti essere concordi che sia una delle produzioni che hanno più condizionato l'ultimo decennio e che ora tutti aspettino le prossime produzioni dello studio polacco che l'ha generata. Dire che siano i titoli tripla A a smuovere il mercato secondo me è inesatto, sono sempre state le produzioni dei piccoli studi ad innovarlo e farlo smuovere, soprattutto se pompate a dovere dal proprio distributore, non certo quelle grosse. Anche in questo caso niente è cambiato. Quelle grosse influenzano il mero lato economico.. ed ormai lo fanno più per il potere pubblicitario della casa madre o brand che per altro.
Parlare di Kojima come se fosse un esponente qualunque della produzione tripla A secondo me è parimenti sbagliato: nel momento in cui si è allontanato dall'ovile Konami è andato anche lui a far parte dei "piccoli", anche se il suo nome ovviamente non gli permette di tenere un basso profilo e gli ha permesso di strappare fin da subito un nuovo contratto con Sony. Quindi sì Death Stranding fa parte formalmente dei titoli tripla A per il budget impiegatoci su, ma certamente non si può dire che ne sia un esponente caratteristico data la sua origine. Prima di parlare quindi di innovazione di mercato o distanza consumatori/produttori ce n'è di acqua che passa i ponti (visto che i titoli AAA vendono oggi come allora). DT per ora è la classica eccezione autoriale alla regola, mentre invece sono tutti gli esempi che ti ho fatto sopra quelli che dimostrano la vera fonte della attuale e futura innovazione di mercato visto che ben rendono quanto il mercato regolare stia venendo influenzato sempre più da quello indie di altà qualità (non a caso Microsoft ha fatto compagna acquisti mangiandosi molti studi indipendenti provenienti da tale settore).
Mi fa piacere confrontarmi, ma l'articolo (cercando di non essere troppo prolisso) analizza un percorso prendendo in esami due casi limite in senso opposto. Come scritto, è chiaro che nel corso degli anni il pubblico sia maturato, segnando anche alcuni grossi esempi ma poi si va oltre. Questo articolo non è un'analisi della globalità del mercato videoludico e nemmeno un'analisi della totalità del pubblico ma una piccola analisi di questo fenomeno, dandone una spiegazione che non è necessariamente la realtà dei fatti ma che può rappresentare anche una delle componenti. È chiaro che il mercato indie sia generalmente più creativo e più libero, è chiaro che l'online è attualmente una grossa fetta di mercato ma l'articolo non verte su questo. Non dico nemmeno che la totalità del pubblico si comporta alla stessa maniera. L'analisi da te fatta può essere più o meno condivisibile ma forse, se mi permetto, un po' troppo frettolosa. Dire ad esempio che chi lavora bene guadagna e viceversa è un'inesattezza così come i giochi che vendono sono sempre quelli di qualità. Purtroppo (o per fortuna, dipende dai punti di vista) il mondo è pieno di casi in cui non basta la qualità intrinseca di un titolo a rendere il prodotto vendibile; entrano in scena numerosissimi fattori, come il valore del brand, posizionamento ecc. Il mercato è in costante evoluzione e i vari passi falsi sono serviti a renderlo quello che è oggi, dove ad esempio un Control non è riuscito a sbancare il lunario (anche per colpa di Remedy stessa, sia chiaro).
In ogni caso, mi fa piacere davvero discutere di tutto ciò e non mancherò di approfondire altri temi in futuro.
P.S. Nessuno ha inserito Kojima o Miyazaki nel calderone degli sviluppatori qualunque, anzi.
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