Ci sono cose che sono universali: cambiano leggermente da un continente all'altro ma le possiamo ritrovare un po' dappertutto. È il caso dei cantastorie: se qui in Europa cantavano le gesta degli eroi, altrove narravano aiutandosi con immagini disegnate.
In Giappone questa arte è conosciuta con il nome di Kamishibai (da kami = carta e shibai = dramma, gioco, teatro) e trae la sua origine nei templi buddisti del Giappone del XII secolo.
I monaci infatti si servivano di rotoli detti emakimono su cui erano riprodotte storie sulla vita e le opere del Buddha; in questo modo potevano insegnare i precetti della religione anche alla popolazione che era principalmente analfabeta.
Con il tempo gli stili si sono evoluti e il Kamishibai con il suo "gaito kamishibai", cioè il narratore, ebbe il suo momento di massimo splendore tra le due guerre mondiali. Era il periodo della Grande Depressione degli anni '30 e moltissimi disoccupati cercavano un modo per sopravvivere. Gli artisti che erano rimasti senza lavoro, iniziarono a dipingere quadri colorati e a portarli nelle aree urbane più popolose, per intrattenere i bambini e chiunque avesse voluto ascoltarli.
L'idea piacque così tanto che alcuni artisti si dedicarono solamente a disegnare, noleggiando le loro opere ad altri narratori che iniziarono a girare per la città in bicicletta in modo da coprire più zone e fare così più affari. Nacque così il kamishibaiya: annunciava il suo arrivo sbattendo uno contro l'altro gli hyoshigi, due bastoncini di legno con cui dava anche enfasi al racconto. Dopo aver venduto le caramelle che permettevano di ottenere un posto in prima fila (e che erano la fonte di guadagno dei narratori), il gaito kamishibaya montava il butai, un piccolo teatrino di legno e iniziava a raccontare.
Ovviamente le storie erano composte da tanti episodi: in questo modo chi voleva conoscere il proseguio doveva tornare il giorno dopo e comprare altre caramelle per poter vedere bene i quadretti. Così i narratori si assicuravano una fonte di guadagno quasi stabile.
Alcuni genitori non erano contenti della natura a volte audace delle storie, quindi spesso vietavano ai loro figli di uscire quando arrivava il kamishibaiya. Anche il governo non sempre vedeva di buon occhio questa forma di intrattenimento, ma ne capiva il potere e quindi quando il Giappone entrò nella seconda guerra mondiale, il governo produsse il proprio kamishibai nazionalistico, con piloti kamikaze e altre rappresentazioni eroiche, da usare come propaganda.
Il successo fu travolgente: in quegli anni in tutto il Giappone si contavano oltre 50.000 kamishibaiya. Nel 1933 nella sola Tokyo ce n’erano 2.500: ognuno di loro si fermava per la strada anche dieci volte al giorno radunando più di trenta bambini per volta. Il rione di Arakawa era considerato la loro città di origine: la reputazione della zona come "mucchio di immondizia di Tokyo" ne fece un terreno fertile per i narratori. "Ogon Batto" ("Pipistrello d'oro"), uno dei kamishibaiya più popolari dell'epoca era proprio nato da queste parti.
A guadagnarci non erano solo i narratori: esisteva infatti la figura del Kashimoto, una sorta di manager che si occupava di tutti gli aspetti organizzativi, dal procurare le caramelle a noleggiare le biciclette a commissionare agli artisti la realizzazione delle storie. Inoltre i kashimoto residenti in zone diverse della città si accordavano per scambiarsi le storie in modo che i narratori avessero un repertorio più vasto possibile.
Purtroppo il kamishibai dovette soccombere all'arrivo della televisione negli anni '50 e '60, anche se era talmente popolare in quel periodo che i bambini giapponesi soprannominarono subito il televisore "denki Kamishibai", cioè "Kamishibai elettrico".
E al giorno d'oggi? Sebbene in numero limitato, una nuova generazione di kamishibaiya sta lavorando per mantenere viva la tradizione e diffonderla a un pubblico si spera sempre più ampio. Si esibiscono in asili nido, scuole materne, biblioteche, case per anziani, giardini zoologici e guadagnano non più vendendo caramelle ma venendo pagati direttamente da chi richiede la loro presenza.
Una storia di un kamishibai è generalmente composta da 8 a 16 disegni, inseriti in una cornice di legno che ha le sembianze di un teatro e che è montata sul retro di una bicicletta. I fogli sono estratti uno ad uno man mano che la storia avanza. Il narratore legge il testo scritto sul retro dei disegni e sottolinea i punti importanti con suoni o battute. Sta alle capacità recitative del kamishibaiya affascinare il pubblico e tenerlo sulla corda.
Ne esistono poi anche delle versioni prodotte da case editrici: la Doshinsha è una delle poche che ne stampa circa trenta ogni anno e li vende a scuole materne, asili nido e biblioteche. Fondata nel 1957, è in realtà nata da un gruppo formato 10 anni prima con l'obiettivo di riabilitare la reputazione del Kamishibai dopo la guerra.
Essendo stato spesso usato come mezzo di propaganda militare, c'era una generazione intera che lo vedeva come un brutto retaggio del passato. Doshinsha perciò decise di crearne una nuova versione che avrebbe avuto un'influenza educativa positiva sui bambini.
Si sono così create due scuole di pensiero: il kamishibai educativo, progettato in modo tale che chiunque possa leggere le storie e far arrivare correttamente il messaggio ai bambini, im modo uniforme e standardizzato e il kamishibai di strada con storie più "ribelli", piene di supereroi fantastici, esseri soprannaturali e anche violenza grafica e che variano moltissimo in base alla personalità individuale del narratore.
L'uso del Kamishibai, tuttavia, non si limita solo all'istruzione o all'intrattenimento. Alcune aziende lo usano al posto di PowerPoint quando devono fare presentazioni o dare delle istruzioni sul posto di lavoro, mentre altri credono che possa essere uno strumento efficace in alcune forme di assistenza sanitaria, come ad esempio nei casi di demenza senile. Il kamishibai può essere usato per entrare in contatto con persone che altrimenti sarebbero irraggiungibili.
Con la pandemia anche questo settore è stato colpito, in quanto forma di intrattenimento che porta ad assembramento, ma per fortuna esiste YouTube: alcuni si sono "riciclati" sul canale perché è fondamentale in questi tempi di incertezza e ridotto contatto umano incoraggiarsi e rassicurarsi a vicenda.
Con il kamishibai si può inviare un messaggio ed è quello che hanno fatto anche gli ARASHI, celeberrima band giapponese che ha pubblicato diversi video in cui raccontano fiabe classiche come ad esempio "I tre porcellini"
Nel documentario ARASHI'S Diary -Voyage disponibile su Netflix, nell'episodio 9 intitolato "Aprile 2020" ci raccontano proprio come durante i mesi di lockdown totale volessero fare qualcosa per i loro fan. Hanno deciso per questa forma d'arte perché aveva un duplice scopo: intrattenere i bambini e concedere così ai loro genitori qualche minuto di pausa per tirare il fiato, sapendo che i loro figli stavano guardando qualcosa di adatto a loro.
Fonte consultata:
TheJapanTimes
In Giappone questa arte è conosciuta con il nome di Kamishibai (da kami = carta e shibai = dramma, gioco, teatro) e trae la sua origine nei templi buddisti del Giappone del XII secolo.
I monaci infatti si servivano di rotoli detti emakimono su cui erano riprodotte storie sulla vita e le opere del Buddha; in questo modo potevano insegnare i precetti della religione anche alla popolazione che era principalmente analfabeta.
Con il tempo gli stili si sono evoluti e il Kamishibai con il suo "gaito kamishibai", cioè il narratore, ebbe il suo momento di massimo splendore tra le due guerre mondiali. Era il periodo della Grande Depressione degli anni '30 e moltissimi disoccupati cercavano un modo per sopravvivere. Gli artisti che erano rimasti senza lavoro, iniziarono a dipingere quadri colorati e a portarli nelle aree urbane più popolose, per intrattenere i bambini e chiunque avesse voluto ascoltarli.
L'idea piacque così tanto che alcuni artisti si dedicarono solamente a disegnare, noleggiando le loro opere ad altri narratori che iniziarono a girare per la città in bicicletta in modo da coprire più zone e fare così più affari. Nacque così il kamishibaiya: annunciava il suo arrivo sbattendo uno contro l'altro gli hyoshigi, due bastoncini di legno con cui dava anche enfasi al racconto. Dopo aver venduto le caramelle che permettevano di ottenere un posto in prima fila (e che erano la fonte di guadagno dei narratori), il gaito kamishibaya montava il butai, un piccolo teatrino di legno e iniziava a raccontare.
Ovviamente le storie erano composte da tanti episodi: in questo modo chi voleva conoscere il proseguio doveva tornare il giorno dopo e comprare altre caramelle per poter vedere bene i quadretti. Così i narratori si assicuravano una fonte di guadagno quasi stabile.
Alcuni genitori non erano contenti della natura a volte audace delle storie, quindi spesso vietavano ai loro figli di uscire quando arrivava il kamishibaiya. Anche il governo non sempre vedeva di buon occhio questa forma di intrattenimento, ma ne capiva il potere e quindi quando il Giappone entrò nella seconda guerra mondiale, il governo produsse il proprio kamishibai nazionalistico, con piloti kamikaze e altre rappresentazioni eroiche, da usare come propaganda.
Il successo fu travolgente: in quegli anni in tutto il Giappone si contavano oltre 50.000 kamishibaiya. Nel 1933 nella sola Tokyo ce n’erano 2.500: ognuno di loro si fermava per la strada anche dieci volte al giorno radunando più di trenta bambini per volta. Il rione di Arakawa era considerato la loro città di origine: la reputazione della zona come "mucchio di immondizia di Tokyo" ne fece un terreno fertile per i narratori. "Ogon Batto" ("Pipistrello d'oro"), uno dei kamishibaiya più popolari dell'epoca era proprio nato da queste parti.
A guadagnarci non erano solo i narratori: esisteva infatti la figura del Kashimoto, una sorta di manager che si occupava di tutti gli aspetti organizzativi, dal procurare le caramelle a noleggiare le biciclette a commissionare agli artisti la realizzazione delle storie. Inoltre i kashimoto residenti in zone diverse della città si accordavano per scambiarsi le storie in modo che i narratori avessero un repertorio più vasto possibile.
Purtroppo il kamishibai dovette soccombere all'arrivo della televisione negli anni '50 e '60, anche se era talmente popolare in quel periodo che i bambini giapponesi soprannominarono subito il televisore "denki Kamishibai", cioè "Kamishibai elettrico".
E al giorno d'oggi? Sebbene in numero limitato, una nuova generazione di kamishibaiya sta lavorando per mantenere viva la tradizione e diffonderla a un pubblico si spera sempre più ampio. Si esibiscono in asili nido, scuole materne, biblioteche, case per anziani, giardini zoologici e guadagnano non più vendendo caramelle ma venendo pagati direttamente da chi richiede la loro presenza.
Una storia di un kamishibai è generalmente composta da 8 a 16 disegni, inseriti in una cornice di legno che ha le sembianze di un teatro e che è montata sul retro di una bicicletta. I fogli sono estratti uno ad uno man mano che la storia avanza. Il narratore legge il testo scritto sul retro dei disegni e sottolinea i punti importanti con suoni o battute. Sta alle capacità recitative del kamishibaiya affascinare il pubblico e tenerlo sulla corda.
Ne esistono poi anche delle versioni prodotte da case editrici: la Doshinsha è una delle poche che ne stampa circa trenta ogni anno e li vende a scuole materne, asili nido e biblioteche. Fondata nel 1957, è in realtà nata da un gruppo formato 10 anni prima con l'obiettivo di riabilitare la reputazione del Kamishibai dopo la guerra.
Essendo stato spesso usato come mezzo di propaganda militare, c'era una generazione intera che lo vedeva come un brutto retaggio del passato. Doshinsha perciò decise di crearne una nuova versione che avrebbe avuto un'influenza educativa positiva sui bambini.
Si sono così create due scuole di pensiero: il kamishibai educativo, progettato in modo tale che chiunque possa leggere le storie e far arrivare correttamente il messaggio ai bambini, im modo uniforme e standardizzato e il kamishibai di strada con storie più "ribelli", piene di supereroi fantastici, esseri soprannaturali e anche violenza grafica e che variano moltissimo in base alla personalità individuale del narratore.
L'uso del Kamishibai, tuttavia, non si limita solo all'istruzione o all'intrattenimento. Alcune aziende lo usano al posto di PowerPoint quando devono fare presentazioni o dare delle istruzioni sul posto di lavoro, mentre altri credono che possa essere uno strumento efficace in alcune forme di assistenza sanitaria, come ad esempio nei casi di demenza senile. Il kamishibai può essere usato per entrare in contatto con persone che altrimenti sarebbero irraggiungibili.
Con la pandemia anche questo settore è stato colpito, in quanto forma di intrattenimento che porta ad assembramento, ma per fortuna esiste YouTube: alcuni si sono "riciclati" sul canale perché è fondamentale in questi tempi di incertezza e ridotto contatto umano incoraggiarsi e rassicurarsi a vicenda.
Con il kamishibai si può inviare un messaggio ed è quello che hanno fatto anche gli ARASHI, celeberrima band giapponese che ha pubblicato diversi video in cui raccontano fiabe classiche come ad esempio "I tre porcellini"
Nel documentario ARASHI'S Diary -Voyage disponibile su Netflix, nell'episodio 9 intitolato "Aprile 2020" ci raccontano proprio come durante i mesi di lockdown totale volessero fare qualcosa per i loro fan. Hanno deciso per questa forma d'arte perché aveva un duplice scopo: intrattenere i bambini e concedere così ai loro genitori qualche minuto di pausa per tirare il fiato, sapendo che i loro figli stavano guardando qualcosa di adatto a loro.
Fonte consultata:
TheJapanTimes
Quella reale deve essere ancora più coinvolgente
Se non ricordo male ci sono diversi mangaka storici che hanno lavorato come disegnatori per i kamishibai come per esempio Shigeru Mizuki.
Ogni tanto si vedeva questo tipo di tradizione negli anime/manga di una volta.
Da noi al Sud c'era una tradizione di cantastorie più o meno nello stesso periodo che raccontavano spesso l'epica di Orlando.
Se non sbaglio la storia di Ogon Batto ha ispirato anche il manga/anime Fantaman.
Col senno di poi, una delle esperienze più memorabili vissute in Giappone.
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