Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Anno nuovo ma appuntamento con le recensioni che non ci abbandona di certo. Iniziamo l'anno con titoli di una certa rilevanza: Mononoke, Memories e Millennium Actress.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


Per saperne di più continuate a leggere.


8.0/10
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Mononoke è una serie del 2007 prodotta dalla Toei Animation e magistralmente diretta da Kenji Nakamura, regista di "Ayakashi: japanese classic horror". Quest'opera è considerabile infatti come una sorta di spin-off degli ultimi tre episodi di Ayakashi (intitolati: “Bake Neko”), un insieme di vicende parallele strutturate sulla medesima ambientazione e concentrate attorno all'enigmatica figura del farmacista (Kusuriuri), impegnato in un misterioso viaggio.

Mononoke è una di quelle serie che attirano immediatamente l'attenzione per la loro realizzazione tecnica e grafica. Questa infatti si discosta decisamente dai canoni tipici dell'animazione moderna per cercare invece un'identità e originalità proprie, traendo ampiamente ispirazione dalle stampe giapponesi tradizionali, sia per quanto riguarda gli ambienti sia per la ricchezza dei dettagli e delle decorazioni, elementi che impreziosiscono il tutto andando a comporre un incredibile e stupefacente mosaico di colori e figure, le quali sembrano come dipinte su pergamena. Si percepisce una palpabile atmosfera dal sapore “antico” che contribuisce al fascino esotico e misterioso che avvolge l'intera opera.
Senza timore alcuno la si può definire un'opera sperimentale, che interseca uno stile narrativo graffiante e travolgente, avvalorato e arricchito da una repertorio musicale d'eccezione, con una maniacale cura per i dettagli, rintracciabile persino nella realizzazione delle gocce di pioggia e dei fiocchi di neve.
Un'altra apprezzabile caratteristica si può rilevare circa la fattura del charachter design, spesso volutamente esagerato e caricaturale, in modo tale da evidenziare con efficacia le emozioni e le peculiarità caratteriali dei personaggi. Notevole anche il riferimento al teatro giapponese tradizionale, enfatizzato dall'aprirsi e chiudersi delle porte, tanto che sembra di assistere a una rappresentazione teatrale.

L'opera si struttura su cicli autoconclusivi di due o tre episodi l'uno, per un totale di cinque racconti.
Come già accennato in precedenza, la serie si concentra nel narrare le vicende di un enigmatico personaggio di cui poco si conosce, nemmeno il nome. Fin dal primo episodio viene svelato che si tratta di un “farmacista”, intento nel suo peregrinare per il mondo alla ricerca di sovrannaturali e pericolose creature denominate "mononoke". Esse nascono dal rancore, dai rimpianti, dall'odio e dalla disperazione delle persone, trascendono il mondo reale e portano distruzione ovunque si rechino, in cerca della loro vendetta; per questo si rende necessario purificarle. Arduo è perseguire tale fine, poiché occorrono tre indispensabili informazioni in merito a questi spiriti per poterli sopraffare: se ne deve conoscere “forma”, “verità” e “rimpianto”. In questo modo viene offerto uno spunto per sviscerare a fondo i personaggi dei vari racconti, in particolare si rivela importante ricostruire il passato e la vicenda psicologica che soggiace alla genesi del mononoke, elementi imprescindibili al fine del suo annientamento. Espediente piuttosto brillante, dunque, per infondere all'opera una notevole profondità e suggestività, merito anche del contributo offerto dalla sceneggiatura, incisiva ma illuminante, oltre che dal tono piuttosto tragico delle varie vicessitudini raccontate.

Fondamentale è la regia, capace di dosare perfettamente i silenzi, i momenti di stasi e di azione, forgiando in questo modo una perfetta atmosfera di tensione e d'insostenibile attesa per la manifestazione degli eventi. Ogni scena è un tassello che va a comporre e a chiarire la verità dell'oscuro orrore che si cela nei più reconditi anfratti dell'animo umano.
Il linguaggio visivo del regista non esita a impreziosire il tutto con elementi metaforici e simbolici di grande stile, conferendo in tal modo una maggiore suggestività ed espressività alla narrazione; è encomiabile anche la teatralità dei momenti dedicati al combattimento, coinvolgenti e sbalorditivi.

Per concludere, rintengo che Mononoke sia un'ottima serie dalle venature horror, che si distingue però anche per una forte componente psicologica e tragica. Un lavoro impreziosito da una regia azzimata e da un apparato estetico assai suggestivo. Non posso non invitare caldamente alla visione di questa serie così particolare e fuori dai normali schemi, non fatevi condizionare dalla sua estetica che, a prima vista, potrebbe fare storcere il naso a più di qualcuno. Mononoke rappresenta una ventata d'aria fresca nel mondo dell'animazione degli ultimi tempi, magari ci fossero più serie di questo tipo.



9.0/10
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Tre episodi, tre stili nel disegnare e raccontare una storia. Tre diverse visioni di un futuro futuribile, un presente possibile, un immaginario e funambolico mondo di guerra. Memories. Ricordi.

Il primo episodio si aggrappa all'anima, ambientato in uno spazio profondo dove quattro astronauti addetti al recupero di rifiuti spaziali rispondono a un SOS. Il cimitero di navi che trovano dove sono diretti non li spaventa, lasciandoli proseguire nella loro ricerca... di cosa? Dei ricordi, di quelle memorie che si sono depositate in questo posto sperduto nello spazio. Sarà la loro una scoperta dei loro ricordi, di ciò che hanno lasciato, il tutto in un crescendo di azioni e fotogrammi, il tutto immerso in questo spazio infinito e silenzioso che emerge anche negli spazi più angusti di quella strana stazione che ha inviato l'SOS. Il finale è quasi "kubrickiano", da "2001: Odissea nello Spazio": una perla, un capolavoro che lascia senza parole. Meraviglioso.

Imparagonabile è il secondo episodio, assurdo e canzonatorio, dove un povero impiegato si trova a essere inconsapevole causa di un disastro incredibile: preoccupante analisi di un disastro solo immaginario ma possibile, dove l'inefficienza dei dirigenti di una ditta farmaceutica, i segreti tenuti tali, l'intervento dell'esercito, tutto trama per fermare una forza naturale (anzi, artificiale) distruttiva oltre ogni immaginazione. Il tutto per consegnare un plico di "memorie" a chi quei documenti li avrebbe sfruttati a crisi cessata.

Il terzo episodio è un altro capolavoro di possibilità umane: un futuro in cui il mondo è in perenne guerra, dove i bambini studiano come sparare con il cannone, ma soprattutto come meglio colpire il nemico. Città iper-armate, mobili, subiscono danni e perdite. Eppure non si vedono, si spara eseguendo ordini, e si producono altri proiettili per sparare ancora: a chi, non si sa; perché, non si sa. Si è in guerra, si spara per proteggere una patria senza terra, un mondo senza piante, dove il piccolo protagonista è un membro integrato e integrante della società. Si spara dalle 9 alle 17, poi si stacca, si torna a casa, dalla famiglia sicura grazie al fuoco amico. E nella memoria solo i colpi di cannone.

"Memories" è davvero un film interessante e ben fatto, non tutto degno di quello che è, e resta il mio pezzo preferito, il primo episodio, ma è decisamente gradevole, sicuramente degno d'essere visto e vissuto fino in fondo.



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“Stupore e tremori”: con questa espressione i Giapponesi dettano la condotta che deve adottare il comune mortale quando gli viene concesso l'onore di ritrovarsi al cospetto dell'Imperatore, in segno di rispetto nei confronti della sua persona. È più o meno con questo spirito che ho deciso di avvicinarmi alle opere del compianto Satoshi Kon, iniziando, appunto, da questo titolo.
Difficile dire cosa sia andato storto, fatto sta che ho come avuto l'impressione che la scintilla sia scoccata senza però giungere a destinazione. Non mi resta che provare a estirpare dalla mia bocca il tipico sapore amarognolo dell'occasione perduta, cosa non facile ma che mi sento in dovere di fare in nome di tutto il buono che anche un palato ancora grezzo come il mio ha saputo individuare in quest'opera. “<i>E vorrei anche vedere!</i>”, potrebbe a questo punto soggiungere qualche estimatore di Kon, colto nell'atto di scrostare la terra umidiccia dalla lama della sua ascia di guerra.
Ciò detto, tuttavia, affermare che <i>Millennium Actress</i> non mi sia piaciuto sarebbe inesatto: direi piuttosto che non mi è piaciuto nel modo in cui mi aspettavo che mi sarebbe piaciuto - che è molto diverso. Ma procediamo con ordine.

Per festeggiare il settantesimo anniversario della fondazione dello studio cinematografico presso il quale lavora, Genya Tachibana decide di realizzare un documentario su Chiyoko Fujiwara, attrice fra le più brillanti del cinema nipponico del dopoguerra. Da trent'anni la donna conduce una vita da reclusa nell'eremo dove ha deciso di trascorrere il resto dei suoi giorni dopo l'addio ai riflettori, avvenuto quando era ancora all'apice della carriera; ciononostante il mito della sua bellezza e bravura è ben lungi dallo sfiorire, soprattutto nel cuore di Genya, che la venera fin dai tempi del suo apprendistato nell'illustre casa di produzione. Oltretutto ha qualcosa da consegnarle, ossia una vecchia chiave a cui non immagina neppure quanto la vecchia diva sia legata. Il suo legittimo proprietario è un giovane pittore che Chiyoko, all'epoca ancora una ragazzina, aveva aiutato a sfuggire alla repressione di matrice fascista che caratterizzò i primissimi anni del periodo Shōwa (1926-1989); non potendo tenerla con sé, il ragazzo l'aveva incaricata di custodirla fino al loro incontro successivo, impegno a cui la giovane, follemente innamorata di lui, tenne fede fino a quando la chiave andò perduta. La sua decisione di diventare attrice è da imputarsi proprio alla speranza che lui la vedesse sullo schermo e, riconoscendola, provasse a mettersi in contatto con lei, cosa che non accadde mai. Adesso la donna è pronta ad affrontare quella parte del suo passato che aveva deciso di dimenticare, aprendo completamente il proprio cuore a un sempre più commosso Genya.

Sarò sincera: ho sempre nutrito un'istintiva insofferenza verso questo genere di storie e nei confronti dei <i>memoir</i> generale. Questo, tuttavia, non significa che sia solita precludermi la visione o la lettura di determinate opere soltanto per questo motivo: credo di avere già oltrepassato l'età in cui potevo ancora permettermi di giudicare un libro dalla sua copertina senza passare per una persona superficiale. Nella fattispecie negarmi la visione di un film di Kon -il mio <i>primo</i> Kon- per una simile sciocchezza mi sembrava doppiamente delittuoso. Il risultato? Un arrosto senza arte né parte, circondato da fitte ed elaborate volute di fumo, certamente molto belle a vedersi, ma non altrettanto nutrienti. E di questo mi dispiaccio profondamente, perché il comparto tecnico è davvero di tutto rispetto: grazie alla perizia di Kon, infatti, lo spettatore si ritrova ben presto coinvolto assieme a Genya e a Kyōji, il suo collaboratore, nel turbine dei ricordi della Chiyoko, un caleidoscopio di fatti ed emozioni in cui realtà e finzione si confondono di continuo grazie alla prepotenza del sentimento da lei provato per il giovane rivoluzionario. Ogni cosa, nei film che si ritrova a interpretare nel corso della sua carriera, le parla di quell'amore disgraziato che le ha cambiato la vita.

Attraverso le eroine e cui Chiyoko presta corpo, cuore e voce, la vediamo trascendere i confini del tempo e dello spazio in una corsa disperata contro il fato inclemente, una corsa di cui forse, in cuor suo, conosce già l'esito. Ciononostante Chiyoko fa di tutto per rimanere fedele a se stessa e all'amato, proprio come Genya rimane fedele al sentimento che prova per lei e che troverà nell'onirica ricostruzione degli eventi salienti della vita della donna un terreno assai fertile. Non importa in che epoca e in quali vesti, lui sarà sempre lì a immolarsi per permetterle di sopravvivere e di continuare a rincorrere il suo sogno.
Per il personaggio di Chiyoko il regista si è ispirato a due grandi attrici giapponesi, Setstuko Hara e Hideko Takamine. La prima, nata con il nome di Masae Aida e soprannominata “La vergine eterna”, fu attiva dal 1935 al 1963, anno in cui si ritirò improvvisamente senza mai più concedere un'intervista o una fotografia; la seconda debuttò nel 1929 a soli cinque anni e concluse la sua carriera esattamente cinquant'anni dopo, lasciando i riflettori per dedicarsi alla scrittura di saggi molto apprezzati per la loro arguzia.

Cosa posso dire? Probabilmente mi aspettavo più cinema e meno sogni, un lungometraggio in cui forma e sostanza fossero più bilanciati. In particolare mi ha delusa la profonda staticità di Chiyoko, la cui corsa verso il suo sogno d'amore mi è sembrata più una successione di timidi salti sul posto che altro. In questo Genya le fa compagnia per buona parte del film, per poi riuscire a trovare la forza di spiccare un balzo tale da permettergli di raggiungere in maniera concreta l'oggetto della sua incrollabile ammirazione. Inutile dire che a farne le spese è la trama, a parer mio scandalosamente inconsistente per un prodotto così ricco di potenziale.
Per questi motivi il mio voto è un 7 sofferto, con la speranza di un lieto fine per i miei prossimi “incontri ravvicinati” con un maestro che, al di là di questa cocente delusione, ho ancora ragione di ritenere più che degno di stupore e tremori.