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Per chi scrive non è stato affatto facile recensire Neon Genesis Evangelion. È ciò che succede quando un’opera complessa e stratificata ti lascia il segno. È stato difficoltoso darne pure una minima descrizione perché è un vero compendio della cultura umana, ne illustra la storia in maniera profonda ed esaustiva pur non essendo pedante né onnicomprensivo.

Ciò che s’interiorizza dopo avere visto per la prima volta quest’anime non è così semplice, non è univoco, non affiora alla riflessione chiaro e semplice come se fosse la cosa più scontata. La visione di ogni episodio arricchisce, ma lancia anche allo spettatore interrogativi martellanti che lo spronano a fermarsi un attimo a riflettere nel trantran della modernità. Non si tratterà di certo di una riflessione pacata, ma di pensieri convulsi e febbricitanti.
Il retroterra di Neon Genesis Evangelion è talmente vasto da andare perfino al di là di chi ne è l’autore. Hideaki Anno - l’autore, appunto - ha concepito una mole immensa di senso, ha riflettuto sull’essenza dell’uomo e ha superato se stesso dando vita a un’opera monumentale, sfaccettata, inafferrabile nell’impossibilità di definirla e di darne un’interpretazione perfettamente univoca.

Attraverso il ricorrere continuo di accenti della tradizione cabalistica, biblica e cristiana si dispiega l’esplorazione delle radici della cultura umana. Sono numerosi i simboli che ci accompagnano dal primo episodio, ma essi verranno impercettibilmente arricchiti di attributi puntata dopo puntata. Tutto ciò che può sembrare casuale in realtà non lo è, cosicché spesso ci si trova di fronte alla necessità di dovere rallentare la normale velocità di riproduzione dei fotogrammi per riuscire ad afferrare ciò che sta sotto e che sfugge all’occhio nudo, pur attento. Perché l’apparato su cui è strutturato Evangelion è talmente perfetto da comunicare sempre di più man mano che l’impalcatura concettuale viene decostruita nelle sue unità minime, in un movimento semantico inversamente proporzionale all’immediatezza visiva del simbolo.
Frasi accennate o lievi riferimenti non fanno che colmare lo spettatore d’interrogativi che lo porteranno al dubbio totale dopo la visione dell’intera opera.

L’originalità di Anno nel concepire un’opera di tali proporzioni consiste nel fatto che non si tratta di un monolite, ma di una nebulosa costituita da più frammenti. Ci si trova di fronte ad assaggi di trama, di antefatti, di post-fatti che formano un intrigo affascinante, che lo spettatore tenta di ricomporre in un quadro finale. Alla fine esce fuori un’immagine che potrebbe essere altro, la riflessione sulla condizione dell’uomo dà adito a esiti molteplici, spesso discordanti.
Se ci si chiede cosa siano gli Eva, alla prima potrebbero tranquillamente sembrare degli enormi robottoni. D’altronde la struttura narrativa si fonda proprio su questo espediente: illude lo spettatore di una facile individuazione dell’etichetta di genere cui assegnare l’anime, per poi smentirlo quando meno se lo aspetta. Allora gli Eva non saranno dei semplici robottoni, così come i misteriosi Angeli non saranno affatto dei “mostri-nemici” che attaccano la Terra.

Tutto non è così semplice. La verità non è mai data una volta per tutte, perché non ce n’è una sola. È una visione che percorre sotterranea tutto l’anime, condizionando lo sviluppo della psicologia dei personaggi. L’identità dei protagonisti non è unica, esistono tante identità a seconda di coloro con cui si trovano a interagire. Lo stesso mondo non è che una rappresentazione del proprio io, rappresentazione che muta in base alle sensazioni e agli stati d’animo di quest’ultimo.
Echi pirandelliani sono innestati su un’esplorazione scandagliata e realistica della psicologia umana. Le parole di Anno sono esemplificative: <i>“È strano che Evangelion abbia avuto un tale successo – tutti i personaggi sono così malati!”</i>. Ed è proprio la malattia del vivere ciò che il regista indaga. Interrogativi celati percorrono la coscienza dei protagonisti fino ad affiorare assieme alla dura consapevolezza che vivere è dolore, anche se alleviato da intensi momenti di gioia.

Le motivazioni personali di ogni protagonista s’intrecciano fino a formare una matassa di io e di perché difficile da districare, se non impossibile. Il copione che ognuno recita è uno dei tanti possibili, la scena può cambiare in base alla verità che si possiede, la libertà di agire è limitata dallo stesso attore.
Rei, colei che verrà sempre sostituita, che non ha il diritto di serbare ricordi, di chiedersi chi in fondo sia veramente, si sforza di trovare un passato dentro di sé che vorrebbe le appartenesse, ma che non può rivendicare. Asuka, demolita dall’incertezza del proprio valore, vacilla nel momento in cui non può più dimostrare a coloro che la osservano e a se stessa chi è e quanto può fare. E infine Shinji, consunto dalla paura di non essere apprezzato fino in fondo e dalla paura dell’abbandono. La forma dell’essere dei protagonisti è “pirandellianamente” scissa dalla sostanza, dalla vita. Il senso del dovere viene esplorato in tutte le sue possibili origini fino a dispiegare i meandri delle ragioni inconsce che possono spingere un ragazzo di tredici anni a pilotare un Eva.

Sono poche le parole che possono uscire dall’intricato covo di sentimenti e di sensazioni provocati dalla visione di quest’opera.
Il regista è riuscito a rendere per immagini un pensiero labirintico, creativo, sperimentando un linguaggio visivo che ha segnato la storia dell’animazione.
Tutto s’innesta sull’interrogativo martellante che concerne i rapporti tra Dio e Uomo, una preoccupazione universale e onnipresente: cos’è l’Uomo e cos’è Dio. Lo sviluppo delle vicende non farà altro che accrescere la voglia di risposta, darà soluzioni possibili, ma mai una verità certa e definitiva. La realtà cognitiva è pur sempre prodotto di una rappresentazione imperfetta e incompleta.

Queste subliminali ponderazioni sono illustrate con l’ausilio di una tecnica registica inedita e con un continuo uso di flashback e di situazioni esordienti “in medias res”, che proiettano lo spettatore in un dato per scontato all’interno del quale si raccapezzerà soltanto con lo scorrere degli episodi.
La grandezza della regia si fa sentire nella gestione sapiente delle musiche, facendosi forte per esse dell’uso dell’espediente del contrappunto, costante in tutta la serie. Così, per esempio, momenti intensamente drammatici si articolano sulle note giubilanti dell’“Inno alla Gioia” di Beethoven. Il risultato è una tragicità ancora più straziante e beffarda, che irretisce lo spettatore per lo shock causato dal forte contrasto.

Evangelion non è opera per tutti. Ad alcuni potrebbe sembrare sonnolenta, ad altri inutilmente cervellotica e riflessiva. Non è neanche alla portata di tutti: non la prenda in considerazione chi soffre di carenza di attenzione e di pazienza. Se ci si aspetta azione e combattimenti episodio dopo episodio è meglio dedicarsi ad altro. Se non si apprezza il flusso di coscienza è meglio non considerarla. Evangelion è un'opera che sboccia episodio dopo episodio, è un ritratto che moltiplica in maniera esponenziale le linee di cui è composto per poi tramortire chi si è immedesimato in esso come primo protagonista – in quanto uomo – con una consapevolezza devastante e forte: la consapevolezza sull’essere e sull’io.
Il progetto per il perfezionamento dell’uomo è partito prima di tutto da chi ha cercato di tradurlo e di ritrarlo nella sua complessità irriducibile a un’unica descrizione.
Neon Genesis Evangelion è un’opera prettamente antropologica, un’epitome esaustiva e allo stesso tempo lapidaria, perché fondata sulla potenza comunicativa del simbolo, il prodotto archetipico della cultura umana.