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“Arakawa Under the Bridge” non è un capolavoro. Non è un'opera che rivoluzionerà per sempre l'animazione giapponese: non inventa nulla di nuovo e non è piena di dettagli che si notano soltanto dopo ripetute visioni. Assolutamente no.
“Arakawa Under the Bridge” non è un capolavoro. Ma non è nemmeno una schifezza immonda. E' un'opera onesta, che non si prende troppo sul serio, con un comparto tecnico che svolge bene il suo sporco lavoro e, tra una gag e l'altra, c'è anche un buon messaggio di fondo. Tutte queste cose non sono per niente scontate. Ma guardiamole nei dettagli.

“Non essere mai in debito con nessuno”. Questo è il motto dell'Ichinomiya, grandissima azienda a conduzione familiare. Il protagonista dell'anime è Kou, figlio del magnate dell'impresa. Siccome un giorno spetterà a lui assumere la guida della compagnia, per tutta la sua vita ha sempre osservato fervidamente l'adagio di casa. Ma, si dice, la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni, e lo stesso si può dire di ciò che capita al povero Kou. Per colpa di uno scherzo degenerato, infatti, il giovane rischia di annegare e viene salvato da una ragazza, Nino, che abita tra le rive del fiume Arakawa.
Per quanto la situazione sia drammatica è comunque un'infrazione al comandamento, e per questo il nostro è disposto a tutto per sdebitarsi. All'apparenza Nino non sembra avere niente che desideri. Sollecitata da Kou, però, arriva a una decisione: vorrebbe che quest'ultimo diventasse il suo fidanzato.
Il ragazzo accetta volentieri, tanta è l'urgenza di riparare al danno. A mente fredda, però, i nodi vengono al pettine: tanto per cominciare il nostro dovrà lasciare la sua comoda vita alle spalle per trasferirsi sotto al ponte. Dopodiché dovrà fare la conoscenza con gli altri abitanti del fiume, compito piuttosto difficile perché si tratta di gente quantomeno eccentrica, per non dir di peggio. Tanto per farvi qualche esempio: il “sindaco” è un kappa che dà nomi strani a tutti quelli che vivono sotto il ponte; il “cappellano” è un omaccione con un passato di veterano di guerra, si fa chiamare Sister e distribuisce - tra una minaccia e l'altra - dolcetti a tutti; un compassato uomo d'affari ha abbandonato moglie e figli solamente per tracciare linee bianche su cui camminare; la stessa Nino, poi, crede di venire dal pianeta Venere. Sdebitarsi è quindi un compito più complesso del previsto per il nostro Kou.

Questa è la sinossi di “Arakawa under the Bridge”: una trama simpatica, a suo modo originale, ma con un grande difetto di fondo: che in realtà non è una trama. Infatti tutto quello che si ottiene è una miscela disomogenea e non molto organizzata di varie situazioni, con l'antefatto sopraccitato come unico collante. La struttura stessa degli episodi non aiuta: non sono - come di norma negli anime - un blocco compatto narrante una sola storia, bensì sono suddivisi in tanti piccoli blocchi narrativi. A volte questi pezzi hanno un filo conduttore che li unisce, ma capita anche che non sia così, spiazzando lo spettatore. Di certo quest'ultimo non si annoia: se per disgrazia non dovesse apprezzare un blocco può sempre sperare in quello successivo, senza contare che è senza dubbio un metodo piuttosto originale, a cui una volta abituatisi non è nemmeno così male. Personalmente, però, avrei preferito un assetto più canonico, perché così si pone ancora di più l'accento sulla disomogeneità della trama principale.

Essendo “Arakawa” una serie fondata principalmente sulle gag (ne riparleremo più tardi) non è un grande problema, ma come mai nessuno obietta alla decisione di Kou di trasferirsi, o quantomeno non si chiede le ragioni di una simile mossa? In alcuni episodi successivi, a dire il vero, c'è una risposta al quesito, ma quest'ultima serve soltanto per aprire altri interrogativi.
Altro giro, altra domanda, su cui poggia tutta l'impalcatura della trama: perché Nino vuole che Kou diventi il suo fidanzato? Lei, si scopre in seguito, non sa nemmeno in cosa consista avere una relazione, e i corteggiatori non le mancano di certo. Perché ha scelto proprio lui, quindi?
Per quanto riguarda le gag non dovete aspettarvi raffinata ironia inglese, ma nemmeno robaccia simile ai nostri cinepanettoni. Direi che l'ironia di “Arakawa” sia in mezzo a queste due categorie: nella sua semplicità, però, funziona alla perfezione. Probabilmente è proprio questo che ha fatto avere alla serie tutto quel successo: i personaggi sono uno più pazzo dell'altro, e le loro reciproche follie si scontrano e s'incontrano dando vita a situazioni le une più assurde delle altre. Ovviamente non si può parlare di verosimiglianza o realismo, ma dubito fortemente che qualcuno scelga di guardarsi questo anime aspettandosi chissà quale verità assoluta o colpo di scena.

Anche per questo nell'introduzione ho detto che “Arakawa” è una serie onesta: a differenza di altre opere non ha nessuna pretesa se non quella d'intrattenere lo spettatore. E l'obiettivo è centrato in pieno. La presenza di tanti momenti leggeri, però, non pregiudica l'introspezione psicologica, qui a dei livelli più che dignitosi. Com'è ovvio, chi ne beneficia di più sono i due protagonisti, Kou e Nino. Il primo, nonostante si attacchi con tutte le sue forze al suo passato tranquillo (e anche un filino noioso), non riuscirà a evitare di essere contagiato dalla follia sotto il ponte Arakawa, e nel corso degli episodi si affezionerà alla sua “fidanzata” e agli altri abitanti. D'altro canto la ragazza imparerà tante cose stando con Kou, e nel corso della serie i due svilupperanno dei sentimenti reciproci e una relazione stabile, anche se ovviamente a modo loro.
Anche altri personaggi, però, godono di una caratterizzazione buona: tra i secondari, ad esempio, spicca Takai Terumasa, un segretario di Kou che nutre una profonda venerazione per lui. In generale, comunque, tutto il cast ha un'introspezione psicologica molto buona: peccato soltanto che si sia dato più peso al lato comico delle vicende e non a quello più emozionale.

Il comparto tecnico è, come al solito oggigiorno, molto buono. Il character design di Nobuhiro Sugiyama non fa gridare al miracolo, ma è gradevole e funzionale alla storia. La fotografia è costituita da un'illuminazione dai toni accesi, ma che non danno fastidio all'occhio; la regia di Akiyuki Shinbo, poi, è particolare e sempre adatta alla sceneggiatura. Le musiche sono leggermente sottotono: pensate, non riesco a ricordarmene neanche una. Giudizio sospeso. L'opening “Venus to Jesus”, invece, me la ricordo: è una canzone molto orecchiabile, peccato soltanto per la voce inesistente della cantante; l'ending, al contrario, è perfettamente trascurabile.
Infine, il doppiaggio: ben fatto e molto azzeccato per tutti i personaggi. Tutti gli interpreti sono molto bravi, ma in particolare Maaya Sakamoto nel ruolo di Nino e Chiwa Saito nei panni della piccola Stella spiccano sugli altri per espressività e versatilità.
Nel caso non lo aveste capito, “Arakawa Under the Bridge” non è un capolavoro. Ma questo non significa che non sia un'opera da vedere.