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Giuria:
- Gualtiero Cannarsi, dialoghista e direttore di doppiaggio italiano dei film dello Studio Ghibli per Lucky Red, tra cui Si Alza il vento
- Kyon, redattore di AnimeClick.it
Premi:
- 1° - 2° - 3° classificato: BD/DVD italiano a scelta del vincitore tra titoli prodotti dallo Studio Ghibli + icona premio di AnimeClick.it Premio Poeta
A discrezione della giuria si valuterà l'assegnazione di ulteriori icone premio Premio Poeta a scritti non premiati ma ritenuti comunque meritevoli.
Regole inerenti la premiazione
I vincitori verranno infine contattati da noi per mettersi d'accordo per la scelta e la spedizione del premio.
Kiki dice 'salva d'un soffio". Siccome sta parlando di un'evenienza futura, non è "sono salva per un soffio", ma:
KIKI: "Lanciandomi a velocità massima, con quindici minuti sarò salva d'un soffio!"
Tipo: sono arrivata d'un soffio prima di te, tipo.
[per la cronaca, è uno dei miei tre film preferiti del regista ^^ ]
Una riflessione sulla fedeltà all'originale: quello di cui molti utenti si lamentano è fondamentalmente che il linguaggio utilizzato suona "strano" (e quindi "male") in italiano, ma non si pongono la domanda: in giapponese come suona? siamo sicuri che lì suoni "normale" (e quindi "bene")?
Prendo ad esempio la questione del ni-nii / secondo fratello: in anni passati a seguire anime in lingua originale, mai mi era capitato di sentire un'espressione del genere, al massimo si potevano notare suffissi bambineschi, quali le storpiature di -chan (-chin, -tan...), quindi *immagino* che così come per un italiano suoni strano il termine "secondo fratello" valga lo stesso per il pubblico giapponese che sente "ni-nii"! Di conseguenza l'effetto che il curatore dei dialoghi giapponesi ha scelto (uso un termine strano per stranire lo spettatore) è lo stesso identico effetto che il curatore dei dialoghi italiani è riuscito a rendere! Al contrario, se in Giappone fosse normalissimo l'uso del termine "ni-nii" (quindi senza alcun straniamento da parte del pubblico) allora effettivamente decidere di adattare con "secondo fratello" sarebbe stata a mio parere una scelta sbagliata.
Insomma, tutta questa manfrina per dire, che dal mio punto di vista, la resa dell'effetto che l'autore originale vuole creare consapevolmente viene ancora prima della fedeltà di un adattamento all'originale che adatta.
Shito, che ne pensi? Nel scegliere il termine ti sei basato anche su un ragionamento del genere oppure ti sei limitato ad assicurarti che in giapponese dicesse davvero così e a tradurre letteralmente?
Poi, già che ci sono, ho una domanda ipotetica: nel caso venga pronunciato un proverbio giapponese che tradotto letteralmente in italiano non avrebbe alcun senso, e di cui non esiste un proverbio italiano che abbia lo stesso *identico* significato, ma solo uno *simile*, tu come lo tradurresti?
PS:
Grazie delle risposte dettagliate che fornisci sempre; ora spero che non arrivino orde di troll come su pluschan...
Tutto il tuo ragionamento è sensato. Nel tuo ragionamento vedo parti del tutto obiettive (dati di fatto) e altre invece opinabili (scelte di gusto, sempre discutibili).
Cerco quindi di rispondere in maniera analitica e chiara. Partiamo dal particolare,ovvero il caso di "Ni-nii". Sì, come tu dici, è una cosa abbastanza inusitata in giapponese, da principio. Io come te non avevo mai sentito nulla di simile, ma non mi sono basato su questo mio giudizio personale: avrei peccato di sovra-considerazione della mia esperienza. Anche la traduttrice, bi-madrelingua, e sua madre giapponese non avevano mai sentito nulla di simile. Ma ancora non mi bastava. Per questo ho chiesto lumi direttamente allo staff Ghibli, che mi ha candidamente risposto "Ah, sì, quella cosa è proprio strana, abbiamo dovuto chiedere anche noi al regista Miyazaki". Al che, a questo punto, ho accettato che la cosa era strana e stramba anche nell'edizione originale per le orecchie del pubblico originale.
Ci sono altri casi analoghi. In Ponyo, con tutto che è un film per bambini, a un certo punto Fujimoto pronuncia una rapida frase di pseudo-biologia assai intricata. Chiedendo lumi a Ghibli, la risposta fu "ah sì, ma tanto nessun giapponese avrà capito una parola di quella battuta, stai tranquillo". Questo può ben accadere. Io indagai sino a scoprire la fonte testuale della battuta, ma questa è altra storia (e include un "errore terminologico intesto", ovvero "geni inferiori" invece di "geni recessivi").
In linea di massima l'opinione che esprimi è condivisibile. Tuttavia non dimenticare che noi italiani, vendendo un film giapponese (per quanto tradotto in italiano) scegliamo di vedere un film straniero. E' impossibile che esso suoni alle nostre orecchie (per quanto tradotto in italiano) "naturale" come suonava alle orecchie del pubblico originale. Semplicemente perché (benché tradotto in italiano) resta un film straniero. E in tutta onestà ti dico: se un film straniero tradotto in italiano ti suona "perfettamente italiano", inizia a preoccuparti: questa cosa può accadere solo rasando a zero la componente culturale intrinseca in ogni lingua. Una cosa è tradurre una lingua, così tu avrai un film giapponese IN italiano, una cosa è tradurre una lingua e una cultura, così tu avresti un film giapponese "italianizzato". La seconda opzione è, a mio giudizio, sempre indebita e ingiustificabile. Amare la diversità culturale non significa appiattirla: significa anzi preservarla e valorizzarla.
Infine, sui proverbi. E' un caso spinoso. I proverbi sono lingua molto strutturata in cui forma linguistica e contenuto semantico si fondono. In genere, trovo sia assai poco credibile sentire un personaggio straniero pronunciare un proverbio italiano. Ovvero, se un personaggio giapponese parla italiano nel doppiaggio, io so e inconsciamente intendo che "dentro alla realtà narrativa" lui sta parlando in giapponese, solo che io lo "sento" in italiano a causa di uno specchio trasparente immaginario chiamato "traduzione". Ma se a un certo punto il personaggio giapponese se ne viene fuori con cose "troppo italiane" a livello culturale, come citazioni di elementi reali (canzoni, artisti contemporanei, celebrità locali) o di proverbi, mi viene da pensare: come mai un giapponese conosce queste cose italiane? Il "simbolismo" della traduzione salta, e con esso salta la "sospensione di incredulità" di un giapponese che parla (fittizziamente) italiano.
Ovviamente, se il film è ambientato in Italia (Porco Rosso, Gunslinger Girl) il problema non sussiste, ma tu troveresti mai credibile -che so- sentire Ashitaka l'emishi che dice "can che abbaia non morde"?
Ritengo sarebbe del tutto fuori luogo, letteralmente.
(sperando di essere riuscito a rendermi chiaro, ancora ringrazio per le interessanti richieste di opinione)
Tornando invece al ni-nii:
"Per questo ho chiesto lumi direttamente allo staff Ghibli, che mi ha candidamente risposto "Ah, sì, quella cosa è proprio strana"
Esattamente quel che volevo dire: se è strano in giapponese, allora DEVE essere strano anche in italiano.
Ma questo è un caso più fortunato, si sarebbe potuto invece verificare un caso peggiore, in cui l'effetto non corrisponda, cioè un termine che suona normale in originale mentre suona strano nel tradotto. Nel caso in esempio, se per un giapponese fosse normale "numerare" i fratelli (ichi-nii, ni-nii, san-nii, eccetera), allora personalmente avrei sacrificato la traduzione più letterale "secondo fratello" con una più normale, in modo da rispettare il volere dell'autore nel non voler creare nel pubblico un effetto straniante.
Per i proverbi giapponesi, la mia opzione preferita è sempre quella di tradurli fedelmente e adattarli con forme verbali e sintattiche che facciano subito una "frase da proverbio". Con la corretta recitazione (didascalica, un po' "staccata"), l'effetto sarà "ah, sarà un proverbio giapponese". Che credo sia sempre l'opzione migliore, anche perché in effetti due proverbi perfettamente coincidenti in due lingue diverse non li ho mai trovati. ^^;
Torno comunque a sottolineare il fatto che avere la pretesta/speranza/aspirazione che un'opera straniera tradotta "suoni naturale" nella lingua tradotta tanto quanto nella sua originale è però comunque indebito.
Proprio facendo una valutazione di ampio respiro, a mio avviso le scelte di adattamento sono state in grado di trasmettere l'atmosfera dell'epoca e del contesto storico, e, come ho apprezzato il film, allo stesso modo ho gradito molto il modo in cui lo stesso è stato 'reso' in italiano.
Dato che anche il vecchio adattamento italiano di Kiki è opera tua, non ti dispiacerà affatto sapere che nel complesso a me piaceva moltissimo il vecchio adattamento... Ma perché hai ritenuto necessari così tanti cambiamenti?
Comunque mi fa piacere di aver semplicemente sentito male quella frase per via della velocità con cui è stata pronunciata, perché mi pareva un errore di forma troppo grosso, anche se commesso da una ragazzina di 13 anni che non poteva certo avuto troppi anni di scuola alle spalle (e che soprattutto non aveva avuto una professoressa d'italiano severa e pignola come quella che avevo io alle medie )!
http://www.studioghibli.org/forum/viewtopic.php?f=21&t=3672
sono certo che apprezzerai il livello di evoluzione sia nell'ambito della precisione, sia nell'ambito stilistico (maggiore "idomaticità" italiana).
Ti invito a leggere anche le "somme" che cerco di tirare in coda all'analisi puntuale sui dati. Posso dirti che lo stesso varrebbe per i due copioni di Kiki (ma ancora: mi riprometto di condurre una analoga analisi puntuale). E varrebbe ancora di più, perché Kiki fu proprio il proprio il primissimo copione che scrissi per un film Ghibli.
Di base c'è che per tutti noi, io non faccio eccezione, molta parte del "gusto" viene dall'affezione, ovvero dall'abitudine. Vale per tutto: lo voci, i cibi, i sapori, i dialoghi di un film. A "scardinare" la propria abitudine effettiva si fa una fatica del diavolo. E' una forma di autocritica del proprio affetto, ed è dura. Voglio dire, ci sono cose molto molto obiettive: prendi la voce di Haku. IN originale è un bimbo tredicenne, e con una voce molto molto "leggera", quasi bianca. Nella prima edizione italiana aveva il vocione di un giovane uomo, e questo è un fatto. La nuova edizione italiana ha ridato alla voce di Haku la sua età, e se ci fai cso questo combacia anche col disegno: SI VEDE che Chihiro e Haku sono coetanei! Eppure, l'abitudine, l'affezione, in molti casi può farci ancora "preferire" quello che pure la logica e l'obiettività ci fanno vedere come errato.
Se ti piace Sen to Chihiro, se comprerai il BluRay della nuova edizione, ti invito magari a fare un onesto gioco. Guarda un paio di volte il film saltando tra giapponese e italiano (ovviamente il giapponese è l'originale ed è meglio, non si discute). Poi prova a risentire il vecchio doppiaggio, e sono certo che "sentirai" che è "un altro film", proprio come atmosfere, come sensazioni. Sarebbe un buon esperimento percettivo.
Purtroppo invece per Laputa potrò leggere ciò che troverò nel link che mi hai dato senza poter fare un confronto diretto nell'ascolto, dato che di Laputa ho potuto apprezzare soltanto il nuovo adattamento, avendo io scoperto la mia passione per i film Ghibli troppo tardi, quando le vecchie versioni erano quasi tutte sparite dalla circolazione.
Sono certissima che con un Haku doppiato da un bambino Sen to Chihiro (uno dei miei Ghibli preferiti, nonché il Ghibli che mi ha fatto decidere di recuperare tutti i film di questo studio cinematografico, quando, un giorno ormai lontano, fui attratta da un DVD allegato a TV Sorrisi e canzoni che non potei fare a meno di acquistare e che poi ho visto non so più quante volte) sembrerà un film completamente diverso, però sinceramente nel primo doppiaggio italiano la sua voce troppo adulta non solo non mi è più sembrata strana dopo aver scoperto la sua vera identità, ma avevo creduto che fosse stata una scelta voluta: il corpo di tredicenne di Haku era una sorta di involucro esterno, ma il suo animo era quello dello spirito del fiume, un fiume esistente da chissà quanti anni, e perciò quella voce mi dava la giusta impressione della solennità adatta ad uno spirito, adulta ma non così tanto da stonare eccessivamente con un corpo così giovane.
Ovviamente la nuova voce mi incuriosisce molto, ma dovrò aspettare per sentirla, dato che non riesco mai a conciliare gli impegni con la così limitata programmazione cinematografica dei Ghibli.
Ho provato ad ascoltare il doppiatore in un altro suo personaggio, Hugo Cabret, ma so bene che non è la stessa cosa!
Ho letto con grande attenzione i tuoi interventi sul tema della traduzione. Mi permetto di fare alcune considerazioni di carattere generale, premettendo soltanto che apprezzato l'effetto finale di resa di Kaze Tachinu, così come avvenuto per l'edizione home video di Mononoke-hime, proprio per la restituzione di un mondo lasciato esistere nella sua differenza ma presentato alla nostra esperienza di spettatori.
Arrivando al tema generale, penso che il problema della traduzione sia proprio, sempre, quello della differenza. Tradurre è rendere la differenza rispettando l'alterità.
Ciò significa che un avvicinamento "gentile" al testo non può fare di una frase idiomatica l'occasione per un innesto semantico o per una libera associazione di idee. Il testo in questo caso è l'esperienza di qualcosa d'altro, e se nella lingua d'origine produce spaesamento o familiarità o ricalca un registro linguistico legato da fili inestricabili a una tradizione culturale lontana... beh, tutto questo farà parte dello sforzo di 'rispecchiamento' del traduttore. Ovvio che il traduttore o adattatore, ricevendo questa proiezione di significanti e di significati, non risponderà
come un automa linguistico. Lo sforzo di 'contenimento' del proprio retaggio culturale, al fine di non cancellare la differenza dell'altro, è semmai il problema del traduttore.
Traduttore che si sforzerà di non far diventare il testo suo, ma di lasciare parlare l'altro attraverso la propria opera.
Questo comporta il rischio di apparire a volte 'estranei al proprio contesto', di apparire stranianti al proprio pubblico in quanto si rende conto di una 'estraneità'.
Non si tratta semplicemente di parlare la lingua dell'altro: nella traduzione si fa parlare la lingua dell'altro nella propria. Non avendo la fortuna, ad esempio, di un medium iconografico come i pittogrammi, non riusciremo mai a "parlare cinese nella nostra lingua", parafrasando un noto psicanalista. Ma bisognerà sfruttare la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra ricchezza, per riuscire a tollerare di farci 'poveri', umili e accoglienti rispetto alla ricchezza dell'altro, per non depauperarla al solo scopo di ostentare la nostra stessa dovizia di termini e significati e riferimenti. Perciò apprezzo molto anche ciò che hai detto a proposito del lavoro su Kaguya-hime: Cipro non può significare niente per un abitante dell'Arcipelago prima del contatto con l'Occidente.
E lo sforzo di far significare qualcosa viene prima dei significanti scelti. Un lavoro difficile, per chi lavora proprio con i signficanti linguistici, far prevalere lo spirito sull'ossessione per la forma.
Il valore simbolico delle parole non può essere un calco dell'originale né veicolare qualcosa di presente, ossia la soggettività del traduttore. Piuttosto, dare spazio a qualcosa di assente e restituircelo, per quanto possibile, sotto forma di impressione linguistica, di evocazione, e perché mai, anche di ricordo o di sogno. Perciò, significa qualcosa anche ciò di cui, inevitabilmente, non si comprende il rimando: qualcosa che non c'è ma che viene, semplicemente, espressa.
Ecco perché amo, nel frontespizio di un libro, leggere "a cura di". Tradurre un'opera è prima di tutto questione di averne cura.
Quando ci si trova davanti ad un'opera che utilizza, tra le altre cose, il linguaggio come mezzo espressivo, è come se fossimo all'interno di un 'gioco', con proprie regole linguistiche.
In un lavoro artistico, per sua natura 'gioco', il linguaggio (o il colore, il gesto, la melodia) non si trova 'al naturale', ma è una rappresentazione di sé stesso, così come l'opera nella sua totalità è la rappresentazione di un mondo.
Nell'opera il linguaggio è messo in scena, funziona come un gioco.
Chi di noi, da piccolo, non ha inventato un gioco con regole tutte nostre, o non ha adattato le misure delle porte giocando a calcio, o l'altezza della rete da pallavolo...
Quando ho sentito l'espressione "secondo fratello", sono rimasto ovviamente stranito. Ho cercato lumi sui vocabolari; poi, più fantasiosamente, ho cercato di immaginarmi una situazione familiare giapponese dei primi decenni del secolo scorso. E mi è venuto in mente il titolo di un romanzo della Ginzburg, 'Lessico famigliare'. E ho pensato al fatto che ogni cultura ha dentro di sé più lingue, ha tanti 'idioletti' quanti sono gli ambienti e i rapporti di parentela, di vicinato, di amicizia, di intimità. Se il 'lessico familiare' di Miyazaki, le sue regole del gioco, comprendono un 'ni-nii', va bene.
Lo straniamento è uno dei modi in cui un narratore ci sorprende giocando - o si fa sorprendere a giocare. Un'espressione o una parola 'strambe', eccentriche, inusuali sono una specie di meraviglia, o almeno una finestra sulle possibilità del linguaggio, quando da semplice mezzo di comunicazione diventa un fine espressivo. Se non avessi sentito dire "secondo fratello", non avrei fatto caso all'unicità di questo binomio. Miyazaki ha puntato l'indice verso qualcosa di 'strano', persino buffo; l'ha fatto giocando col linguaggio e sul linguaggio.
Se il linguaggio è qualcosa di cui ci dimentichiamo nell'adoperarlo, il suo uso 'anomalo' ci fa soffermare sulla sua possibilità di stupirci: "Possiamo dirlo anche così? Possiamo usarlo anche così? Che strano".
Forse anche questo fa parte dell'immedesimazione del traduttore con un certo linguaggio in uso in una certa storia, della sua capacità di empatia col testo, o del suo mettersi in gioco
Ho un dubbio su una delle regole del contest indetto dal sito.
Nelle regole qui esposte: http://www.animeclick.it/news/40064-si-alza-il-vento-lancia-in-volo-la-tua-recensione viene richiesto "- A inizio recensione è necessario specificare brevemente l'intenzione di partecipare al contest."
Con inizio recensione, s'intende il primo rigo assoluto?
Oppure è possibile rendere chiaramente esplicito l'intento di partecipare, amalgamandolo all'elaborato scritto?
Sempre nelle battute iniziali, per dire, nel mio caso, verso i 3/4 della prima pagina di word?
Ho già inviato una mail alla redazione due giorni fa, tuttavia scrivo anche qui perché avrei una certa urgenza di saperlo.
Grazie,
Carlo.
[Moderatore - Ti consiglio di inserire in testa alla recensione una frase che indica che vuoi partecipare al contest - Becar]
Curioso che ora invochi uno "scrittore o scrittrice", perché sai, secondo i maggiori dizionari "pulzella" è un termine con connotazione proprio "letteraria", e significa ovviamernte "giovane donna nubile, illibata". Nel film rende quindi precisamente il termine "otome", che significa appunto "fanciulla vergine, ancora da maritare", e ha anc'esso una connotazione letteraria, antica. Appare per esempio letteratura giapponese in tal veste: celebri le otto vergini "ya-otome" che dovevano andare in sacrificio a Yamata no Orochi - dal Kojiki.
Per di più, nel film è usato *esclusivamente* da un anziano emishi - popolazione pressoché mitologica anch'essa, che Miyasazi ha fantasizzato esistere ancora in un remoto villaggio di sopravvissuti in epoca Muromachi, quando in realtà erano scomparsi probabilmente da più di 600 anni (in epoca Yayoi). Anche questo per enfatizzare l'opportunità di una caratterizzazione linguistica antica, quasi mitologica.
Quindi, cos'hai contro "pulzelle"? Fammi indovinare: "non ti piace"?
Ah beh, certo.
se poi devo tornare indietro con il tasto per riascoltare i dialoghi, e non sono sordo, e capire esattamente ciò ch ei personaggi dicono, significa che non hai fatto un buon servizio al pubblico. mononoke così. già meglio kaze tachinu. ne convengo
Quello che invece ho faticato un po' a digerire, per pura questione di gusto personale, è "il dio bestia". Lo so che gli si addice per il suo aspetto inquietante (ed anche per certi suoi comportamenti inquietanti, dato che poteva ridare la vita ma anche succhiarla via dalle varie creature), ma "dio della foresta" mi piaceva molto, perché mi pareva che conferisse a quell'essere un certo fascino!
Comunque vorrei sapere quando potrò commentare anche l'adattamento di Si alza il vento: passerà ancora molto tempo prima dell'uscita in DVD?
Oggi l'editor di Animeclick che risponde al nickname di Kyon, che mi aveva chiesto la collaborazione per questo concorso, mi ha inviato il link con le recensioni da valutare.
Vorrei scusarmi preventivamente con tutti i partecipanti per il ritardo con cui riuscirò a espletare questo compito. Sono al momento molto molto impegnato (sommerso) con il lavoro per "La storia della Principessa Splendente", ma soprattutto trovo sempre molto difficile giudicare gli scritti di chicchessia. Anche quando devo valutare gli esami finali della scuola professionale di traduzione e adattamento con cui collaboro, per me è sempre una cosa difficile. Si potrà dire "ma questo in fondo è solo un concorsino sul web", ma non sono in grado di prendere una cosa come "giudicare l'opera altrui" con leggerezza. Anzi, ho visto che molti degli elaborati sono lunghi e documentati, mi sarà necessario leggerli tutti con attenzione! ^^;
Mi scuso quindi ancora una volta con tutti i partecipanti per il ritardo che di certo causerò.
-Gualtiero
Io trovo che i tuoi dialoghi abbiano moltissimo criterio. E potrebbero raggiungere una qualità per il prodotto eccezionalmente rara, tanta è la scrupolosità e l'impegno.
Una delle basi ideologiche su cui lavori però, penso faccia vacillare tutto il tuo lavoro, ed è proprio un'eccessivo zelo nel voler trasporre una cultura straniera (la cultura giapponese) rispettandola in ogni minimo dettaglio creando un linguaggio codificato.
Non è sbagliata la massima fedeltà, non è sbagliato attenersi alla cultura.
È sbagliato creare un codice.
Parlando per estremismi: il passo immediatamente successivo alle tue teorie è quello di mantenere la medesima forma grammaticale originale. Quindi "Kore wa nan desu ka" diventa "Questo cosa essere?".
Perché non mantenere le forme grammaticali originali? Perché in italiano non si fa così.
Esattamente. In italiano non si fa così. E potrei recriminarti che in italiano non si usano certi termini nello stesso modo in cui si usano in giapponese.
Per esempio: perché tutte le volte che c'è "Yappari" lo traduci usando "E infatti"? Yappari non significa solo quello, può essere tradotto in innumerevoli modi a seconda della circostanza; è limitativo, soggettivo e fuorviante tradurlo sempre allo stesso modo facendo capire allo spettatore che ogni volta che sente dire "E infatti" in originale dicano "Yappari".
Ricordo di aver adorato il lavoro svolto per "Abenobashi". All'epoca probabilmente il tuo lavoro aveva basi teoriche molto meno solide e consolidate di adesso, ad ogni modo pensavo che certe scelte fossero volute per creare un gergo da quartiere di persone tutte influenzate l'un l'altra nel lessico, di un microcosmo ristretto ed informale; mi era piaciuto. Ho poi notato che in TUTTI i tuoi lavori valevano delle regole ben precise. Lo trovo alienante perché crea una lingua che non esiste e che non è giapponese proprio per il semplice fatto che non lo è.
È italiano.
Posso dirti che la mia "codificazione" linguistica sussiste piuttosto all'interno di un singolo testo (copione), poiché ogni opera è comunque un microcosmo. Potrei fare molti esempi di lemmi coerentemente coordinati all'interno di un copione, ma poi resi con altro in altri copioni. Inoltre, per quanto il mio tentativo di fedeltà culturale sia di certo assai feroce, non mi permetto mai di violare le norme di grammatica e morfosintassi italiana (produrrei così un testo sgrammaticato in italiano, cosa che non faccio), nonché il corretto uso di termini nella loro semantica italiana. Questo è ciò che afferisce alla correttezza linguistica in tutti i suoi comparti, e sono istanze oggettive. Per questo dico che non esiste una traduzione "letterale": si tratta solo di uno spauracchio da scuola dell'obbligo. Esistono traduzioni corrette o scorrette (sgrammaticate) nella loro lingua d'arrivo, tutto qui. Ed esistono traduzioni più o meno precise, fedeli sul testo d'origine - ciò non dovendo comunque inficiale la *correttezza* di resa in uscita. Ma se invece si parla di "usualità", "suonar bene" e similari, queste sono istanze soggettive. Quindi da non prendersi a referente assoluto. Se i più autorevoli dizionari non riportano una parola come "ant.", "lett." o simili, allora assumerò che è un termine di italiano standard e corrente. Non posso essere io a decretare il contrario, a mio gusto. Forse ti sorprenderà, ma nello svolgere il mio lavoro non so se io consulti più il dizionari giapponesi o quelli italiani. Credo in effetti i secondi.
Esempi:
- Perché quasi ogni volta che si presenta la particella "Ne?" di fine frase traduci con il perfetto corrispondente "Eh?". In giapponese è un conto, è usatissimo, come dire ciao, allo stesso modo in cui in inglese è usatissimo dire "don't you?". In italiano è usato, ma non così tanto, se abusato in maniera massiccia denota una peculiarità del lessico abbastanza unica nel suo genere. Per dire, "Perbacco" è una parola usata, ma non abusata. Se tutti i personaggi di un film dicessero "Perbacco" farebbe un effetto strano, sembrerebbe un microcosmo estremamente unico nel suo genere. Lo stesso accade abusando della particella "Eh?" che può essere tranquillamente sostituita con "Vero? Giusto? Dico bene? Sì? No? Sì o no? Sbaglio? Ho ragione? Non ho ragione? ecc." per rendere i discorsi più fluidi.
- Perché, appunto, allo stesso modo quasi ogni volta che si presenta la parola "Yappari" traduci con "E infatti?". Nemmeno questa specie di locuzione è particolarmente usata in italiano. Sì, è usata, ma se in un film la pronunciano 5 personaggi diversi in 20 frasi il loro lessico viene notevolmente appiattito, risulta poi lampante che tutti i dialoghi dei personaggi siano stati scritti da una persona sola, facendo crollare il teatrino e distogliendo dall'immedesimazione nell'opera.
- Perchè l'uso di tutte quelle forme passivanti e impersonali? Esempi da Porco Rosso:
"Al più presto si dovrà fare una revisione."
"Per chi rimanesse esclusa sarebbe spiacevole, no?"
"Apposta avevamo chiesto se bisognasse portarle via tutte...!"
"A stare a divertirvi da queste parti finirete per farvi rapire in compagnia!"
"Il canto si ascolta in silenzio."
Questa non è che l'eredità di una troppa fedeltà alla sfumatura della forma originale giapponese. Ho capito che è importante essere fedeli, e lo condivido. Ma l'italiano ha forme diverse dal giapponese, e soprattutto una differenza nella prassi d'uso e nel consolidamento di una frequenza d'uso. Una cosa che non ha deciso nessuno, l'ha deciso la gente nel corso dei secoli per abitudine. Per lo stesso discorso, nei tuoi dialoghi ricorre costantemente la forma della "Post-spiegazione" di una proposizione, propria del parlato giapponese. Altri esempi da Porco Rosso:
"Presto venite! CHE c'è tanto da fare, insomma!"
"Solo per un pochino, eh! CHE in effetti non potreste mica."
"Ma cosa c'è questa sera? CHE si sono riuniti tutti i grand'uomini."
"E così gliel'ho spiegato. CHE mi sono sposata con piloti di idrovolanti per tre volte."
"Marco, ti ringrazio. DI restarmi sempre accanto."
"Non pensare di strapparla. CHE è l'unica e sola foto rimasta
del tempo in cui eri un essere umano, Marco."
Tu dirai: "In originale è così, quindi devo mantenere la forma." No. Perché nel giapponese certi modi di dire sono peculiari, se riprodotti in italiano i discorsi non fanno che diventare petulanti, pedanti, leziosi, ripetitivi dove non serve ed alienanti.
I tuoi dialoghi sarebbero PERFETTI per dei sottotitoli, così una persona che conosce il giapponese ma ha ancora delle difficoltà riuscirebbe a seguire il parlato e a capire ciò che non capisce leggendo la traduzione a schermo. Ma in un doppiaggio il processo è diverso, va rivolto a italiani che devono trovare la stessa empatia del pubblico d'origine.
Shito caro: me ne infischio se otome ha connotazione arcaica e letteraria.
mononoke adattato da uno scrittore o una scrittrice italiana forse avrebbe avuto un altro sapore. non voglio pensare a kaguyahime. davvero. tipo: sarà come essere nel paese dei balocchi per te. Tipo.
Cannarsi almeno, fortunatamente, lavora in simbiosi con una venerazione nei confronti dell'originale da un punto di vista formale e tecnico.
Uno scrittore non ha nessuna marcia in più che potrebbe avere un qualsiasi bravo sceneggiatore o etimologo nello riscrivere i dialoghi italiani di un film di Miyazaki (o di qualunque film in generale).
Senza dubbio questo è uno dei dialoghi più piacevoli ch'io abbia mai condotto sulle logiche del mio operato.
Saibankan: tutti i fatti che esponi direi che sono veritieri. Il punto è che tu valuti quei fatti negativamente, mentre per me sono solo il giusto e l'ovvio.
Provo a spiegarmi: finché una traduzione produce un testo corretto nella lingua d'arrivo, più questo testo mostra la sua provenienza linguistica originale, meglio è. Una traduzione NON deve 'occultare' la propria matrice, anzi: la deve conservare quanto più possibile.
Quindi, in primis, se un autore usa 10 volte la stessa parola, io sceglierà quale parola italiana sia più opportuna per renderla (e potrei avere una ristretta tavolozza di possibilità), ma poi dovrò sforzarmi di mantenere per dieci volte quella stessa parola. In casi estremi non sarà possibile, ma di norma se due o dieci o venti parole sono uguali nell'originale, così dovrebbe essere nella traduzione. Per contro, se si usano dieci sinonimi, dieci sinonimi italiani dovrebbero usarsi. Anche in questo caso, a volte è difficile, o impossibile, ma la logica di base e il tentativo (diremo: la tendenza) restano.
Quindi, benché "yappari" si possa tradurre in molti modi (ed è una bugia davvero pessima, ma facciamo finta di sì), èuna sola parola. E' sempre quella. Ho il DOVERE di renderla sempre nello stesso modo.
Perché il giapponese è così, e io non sto scrivendo italiano, sto scrivendo "giapponese tradotto in italiano".
Quindi, sì: nei miei adattamenti DA GIAPPONESE troverai anche molte concessive preposte alla principale. Perché il giapponese è così. Perché i giapponesi parlano, ovvero pensano, così. E così deve restare in traduzione - ripeto: FINTANTO che la lingua d'arrivo resti CORRETTA.
Non la "cifra stilistica di Gualtiero" che rilevi nei miei adattamenti. E' la "cifra stilistica del fatto che l'originale è giapponese". Il fatto che tu l'associ a me invece che al giapponese per sé è la prova di qualcosa di molto triste: che tutti gli altri traduttori 'italianizzano' il giapponese al punto che una loro traduzione da giapponese, inglese o russo risulterebbe in un italiano identico. questo è male, è sbagliato, è insensato, e quindi io lo dirò anche "brutto".
Ma se traducessi un'opera inglese, credo che tu troveresti un italiano tutto diverso da quello che trovi nei miei adattamenti da giapponese. Poi però, se tu leggessi dieci mie traduzioni dall'inglese, cominceresti a trovarvi un comune denominatore. E questo non discenderebbe da una mia volontà, ma dal fatto che il loro originale linguistico sarebbe comune.
Essenzialmente, quando si opera una traduzione, ci sono vari 'strati' di connotazione linguistica.
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LINGUA DI PROVENIENZA
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VARIAZIONI DI QUELLA
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CARATTERIZZAZIONI
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E' un'ordine ontologico. Se tu prendi, che so, Mononoke e Kki, in comune hanno che sono opere scritte in giapponese. Questo è il primo strato, e causerà (DEVE causare, o diremo che qualcosa è andato storto) un apparentamento della resa linguistica. Sotto di questo strato, sono animazioni di un medesimo autore che usa sempre una lingua molto pulita, non gergale, diciamo strandard - come base. E infatti nessuno dei due film suona come Abenobashi, in italiano. Sotto ancora, in Mononoke ci sono caratterizzazioni auliche e anticheggianti (non su tutti i personaggi), in Kiki no. E infatti Kiki ripete come una campagnola "waaaaaah, stupendo!", non dice "qual mostra di somma beltà", come dicono invece in Kaguya-Hime.
Essenzialmente, sono molto felice che tu abbia elaborato ciò che mi imputi, perché è ciò che io intendo come giusto, come bene, ed è ciò che faticosamente intendo fare.
Sì, si era capito che a te di questi film non importa nulla. A te, infatti, importa solo di te stesso e dei tuoi personalissimi gusti, svincolati da ogni logico o sensato criterio. Tu vuoi solo il tuo personale sollazzo, e vuoi che ogni cosa a te esterna -come l'opera altrui- sia asservita a quello. No, non si tratta di egoismo. La parola è: egocentrismo. Fino agli 8-12 anni sarebbe anche normale, ma ho come l'impressione che non sia il caso, eh?
Quando 8 anni fa facevo fansubbing la pensavo come te in merito a questo caso. Man mano che tentavo di applicarlo, riflettendoci, ho cambiato idea e ho iniziato a reputarlo sbagliato.
Il punto incriminato di fondo è proprio la logica di applicazione. Tu vuoi far assaporare tutta la cultura d'origine, a differenza del "metodo classico" (non per forza più giusto). Ma perché trasmettere in modo così predominante la cultura originale? Non ha senso nei rispetti del pubblico indirizzato.
Mi spiego: chi vuole DAVVERO fare i conti faccia a faccia con la cultura di un'opera se la DEVE vedere in originale. Non può ricorrere a sotterfugi e mezzucci indolenti come il doppiaggio per cavarsela e avere la botte piena e la moglie ubriaca. E in effetti, in genere, non lo fa, ricorre ai sottotitoli. A tutto c'è un bonus e un malus.
Il bonus del sottotitolo è che puoi assaporare tutta la cultura (e ribadisco, i tuoi dialoghi sono PERFETTI per dei sottotitoli, hanno una logica ideale), il malus è che devi perdere tempo a leggerli distraendoti lievemente dal film e che nel tuo cervello fluiscono contemporaneamente due lingue diverse che tentano di entrare in comunicazione. Al livello successivo uno si impara la lingua e basta, guarda il film senza sottotitoli o con i sottotitoli nella lingua originale per aiutarsi.
Il bonus del doppiaggio è proprio che puoi fruire del film in modo fluido e più rilassato, con molti meno processi mentali (la presenza di una lingua sola da elaborare già pulisce completamente il cervello). Il malus è che la cultura d'origine viene intaccata, vengono mutate le prestazioni originali degli attori e tutto viene italianizzato.
Non significa che è più ignorante. Io ritengo (idea mia) che un buon doppiaggio debba restituire allo spettatore le medesime sensazioni percepite dal pubblico di appartenenza. Questo pur mantenendo dei rispetti culturali, nel senso che se in un film americano citano David Letterman, in italiano non può diventare Fabio Fazio.
Non voglio avere neanche la presunzione di mutare le tue idee, penso però sia alquanto bislacco voler tentare di esaltare una cultura linguistica tramite l'uso di un'altra lingua in un doppiaggio parlato. È un controsenso per definizione. Il risultato non è né italiano né giapponese. È una linga aliena. Certo, ha le regole grammaticali italiane, ma ha un sapore tutto suo ed unico. È il Cannarsese.
"Io ritengo (idea mia) che un buon doppiaggio debba restituire allo spettatore le medesime sensazioni percepite dal pubblico di appartenenza."
Al contrario, ritengo che questa idea sia sbagliata, perché fallace a priori. Già sarebbe impossibile anche solo sapere come certe sensazioni di un'opera straniera vengano percepite dal pubblico straniero. Pensare di poter anche solo capire questo è una presunzione assurda. Pensare di poter "traslare l'effetto" è ancor più assurdo.
No. Un film giapponese è un film giapponese, un film francese è un film francese, un film inglese è un film inglese. Se un italiano si pone dinanzi a ciascuno di essi, dico in forma doppiata, si ricordi che non sono film italiani, non lo saranno e non dovrebbero sembrarlo. Ancora: se così fosse, chiaramente grande violenza sarebbe stata perpetrata sull'opera.
Un film è un'opera audiovisiva, non testovisiva. Il bonus del doppiaggio è poter fruire un'opera audiovisiva straniera nell'unicum audio e video inteso dall'autore suo. Se il doppiaggio è fedele. E non vale solo per il testo: vale anche per il modo di leggere quel testo, di recitarlo. Molte volte dico agli attori "sì, sembra strano dire una cosa così, ma devi dirla come se invece fosse la cosa più normale del mondo", perché per il personaggio è normale. Vale per i tecnicismi degli ingegneri in Kaze Tachinu come per il padre di Shizuku che dice "scusa" invece di "grazie" (?) quando a tavola gli danno una ciotola di riso che aveva chiesto. Non si tratta solo di fargli dire "scusa2, si tratta di farglielo dire con un tono di normalità, di usalità, che un italiano non avrebbe mai.
Insisto: si traduce e adatta una lingua straniera, non una cultura straniera. Quella deve essere preservata nell'opera straniera. Che resta e deve restare tale anche se doppiata.
Se questo comporta un uso estensivo -ma sempre corretto- della lingua italiana in lessico, morfosintassi e quant'altro: ben venga. Se questo comporta l'uso di frasi "inusuali" in italiano (ammesso che una cosa come l'usualità possa essere men che soggettivamente misurata): oh beh. Non importa. Non fa nulla.
Invero si iniziano a teorizzare simili logiche, si parla di "traduzione straniante" - credo. Ma non mi importa dell'accademia. ^^
So che il Fennec del Principino dice tre volte di fila "bien sur" e che in italiano dice tre cose diverse, e lo odio, e lo odio perché saranno ben fattacci di Antoine de Saint-Exupery se il suo volpino debba dire tre volte la stessa cosa o meno, e non di un borioso traduttore che come uno scolaretto delle elementari ripete la lezione della maestra: "Quando scrivi il temino, evita le ripetizioni di parole, che sono BRUTTE".
Eh, certo.
Ma parliamo della codifica.
Supponiamo che debba codificare la parola "Baka" scegliendo "Stupido". Escluderò quindi tutti gli altri innumerevoli sinonimi evitando di inserire parole differenti ogni qualvolta venga pronunciato "Baka"? I giapponesi per molte parole non hanno nemmeno tanti sinonimi quanti ne abbiamo noi, ed è anche probabile che per qualche loro parola abbiano più sinonimi dell'italiano. Noi usiamo certe parole con una data frequenza. Loro usano certe parole con un'altra frequenza. E scegliere una traduzione non dipende solo dalla parola in sé e per sé, dipende anche da come viene pronunciata, paradossalmente potrebbe esserci un "Baka" pronunciato più alla "Idiota" e un Baka pronunciato più alla "Rimbambito". Questo perché "Baka", di base, non raccoglie niente che possa avere una parola italiana specifica.
In un adattamento amatoriale che ho fatto dall'inglese veniva pronunciata ricorrentemene, riferita ad un personaggio, la parola "Moron". Ho deciso di tradurlo con "Idiota", perché aveva il suono più simile all'originale. Potevo anche mettere "Coglio***ne", ma non bisognava scadere in una volgarità inesistente. In altre frasi, molto vicine cronologicamente, veniva pronunciato "Idiot", ma dal momento che "Idiota" era diventata una parola specifica per quel personaggio, ho deciso di mantenere il fatto che non si fosse ricorso allo stesso registro linguistico e ho quindi tradotto "Idiot" con "Imbecille". In frasi dal contesto distante o molto differente dello stesso testo, tuttavia, dove c'era "Idiot" ho tradotto sempre "Idiota" dove potevo, questo perché è la stessa parola con la stessa radice linguistica ed è giusto tradurla così (tendenzialmente). Ovviamente tra il testo inglese e quello italiano ci sarà uno squilibrio tra l'uso di "moron - idiot" e "idiota - imbecille", ma che importanza ha? Quel che conta delle parole è il loro suono a seconda delle circostanze e il significato che c'è dietro, tutto il loro sapore.
Per "Yappari" tu probabilmente hai deciso di scegliere "E infatti" perché, nel caso di un labiale evidente, soprattutto nel caso di un film cinematografico, potresti ricorrere alla codifica rimanendo in sinc e sbrogliandoti quindi un'ulteriore preoccupazione con un termine "pratico". Ma questa è una parola di uso comunissimo, non è un termine molto particolare, una codifica comporta a mio avviso solo a un danno. Un italiano che sa il giapponese e sentirà dire frequentemente "Yappari" penserà "Yappari, sì sì, già già." Un italiano che sente alla stessa frequenza "E infatti" penserà "Perché dicono sempre e infatti? L'autore ha dei dialoghi strani."
Ritengo non ci sia nessun motivo per tramandare in modo così feroce una lingua in un DOPPIAGGIO. Il pubblico che ascolta i doppiaggi non lo vuole! Una persona che vuole assaporare una lingua la ascolta in originale, una persona che guarda i film doppiati vuole solo sentire un film nella sua lingua. Vuole che quella lingua funzioni esattamente come funziona in ogni altro caso.
Alla fine sei sempre tu che passi sopra a una *REALTA' DI FATTO* (A = A, =/= B, C, D), decidendo tu quando questa REALTA' DI FATTO abbia significato oppure no.
No, no, non ci siamo proprio.
Quando poi scrivi:
"I giapponesi per molte parole non hanno nemmeno tanti sinonimi quanti ne abbiamo noi, ed è anche probabile che per qualche loro parola abbiano più sinonimi dell'italiano."
Certo, e allora? Hai di nuovo scoperto che il giapponese non è l'italiano? ^^;
Sì, nessuna cosa è un'altra cosa. Ma se dobbiamo usare l'italiano per tradurre il giapponese, dovremo sforzarci di rendere le cose come sono state espresse in giapponese. Mi pare logico, ovvio, lampante.
Ovviamente, come ho premesso sin dal principio, ci saranno dei limiti. Ci saranno volte in cui una disambiguazione univocizzante dei termini sarà impossibile. Ma questa è la direttrice, la tendenza.
"Per "Yappari" tu probabilmente hai deciso di scegliere "E infatti" perché, nel caso di un labiale evidente"
Assolutamente no. Traduco "Yappari" con "e infatti" (in genere Yahari con "e difatti") perché a tutt'ora ritengo sia la traduzione migliore.
Tu hai mille idee che, sotto sotto, sono il tuo gusto. "Cosa ci sta meglio", e perché. Io non sono così. Io non voglio tradurre, per esempio, "Yappari" in "Come pensavo", perché "Come pensavo" ha materiale semantico, lessemico, che in Yappari non c'è. "Omotteta dori" si può dire anche in giapponese, e come vedi non è "Yappari", è "Omotteta dori" (e molte altre varianti). Quindi, no. Yappari è una cosa molto liquida, evanescente, dal contenuto semantico scarso o quasi nullo. E' quasi una particella che modifica l'aspetto verbale del verbo che seguirà (o che sarà omesso). Quindi, trovo che "E infatti" - detto in quel certo qualmodo, sia la resa migliore del caso.
Per la cronaca, alcuni traduttori professionali hanno trovato la soluzione geniale e, ringraziandomi, l'hanno adottata a loro volta estensivamente. ^^;
"Un italiano che sente alla stessa frequenza "E infatti" penserà "Perché dicono sempre e infatti? L'autore ha dei dialoghi strani.""
Questo italiano è stupido: la risposta -ovvia- è che i personaggi parlano "in italiano" a causa del doppiaggio, che è un simbolismo, ma in realtà il contenuto del loro frasare è giapponese. Del resto, salvo adattamenti Mediaset di vecchia data, se i personaggi si chiamano Ashitaka, Chihiro, Nahoko... è ben difficile che per cognome abbiano "Cesaroni", nevvero?
Come disse Tomino, dunque: credo che potrò tranquillamente morire portandomi l'odio di questo tipo di persona addosso. Principalmente, quando lavoro lo faccio per chi va a vedere un film straniero sapendo, ricordandosi, apprezzando che è straniero. Per chi volesse cose all'italiana, escono cinepanettoni ogni anno. Non c'è bisogno di italianizzare le opere che italiane non sono.
"Ritengo non ci sia nessun motivo per tramandare in modo così feroce una lingua in un DOPPIAGGIO."
Ritengo il contrario. Ho infatti espresso a più riprese i miei motivi per seguire ligiamente la condotta che seguo.
"Il pubblico che ascolta i doppiaggi non lo vuole!"
Tu non sei "il pubblico". Neppure gli strilloni di internet sono "il pubblico". Come mai i detrattori si sopravvalutano sempre, identificandosi con la totalità del caso? Non è così. Gli strilloni sono solo le persone più rumorose. Ci sono molte persone che, più silenziosamente e delicatamente, gradiscono il mio lavoro proprio per come lo conduco, mi inviano mail di supporto e ringraziamento persino, oppure lo esprimono sui forum.
Se parli per te è molto interessante, ma non parlare per gli altri e per tutti. Non ha senso farlo.
"Una persona che vuole assaporare una lingua la ascolta in originale, una persona che guarda i film doppiati vuole solo sentire un film nella sua lingua. Vuole che quella lingua funzioni esattamente come funziona in ogni altro caso."
Non "una persona": TU. Sei TU che la pensi così. E va benone. Ma ancora, non moltiplicare il tuo ego trasmigrandolo nell'idea di una moltitudine ignota.
E in ogni caso, la mia condotta non è così finalizzata verso il pubblico. La mia opera è finalizzata alle opere stesse su cui lavoro, in primis. Io devo "rendere un buon servizio" all'opera, non al pubblico. Per me non esiste piaggeria nei confronti di una massa giustamente eterogenea di fruitori. Anche questo non avrebbe senso. C'è chi non sopporta dei termini (per lui) "troppo ricercati" e li chiama "aulici" (evidentemente non conoscendo neppure il significato di "aulico"), c'è chi non sopporta le dislocazioni -perché gli hanno spiegato da poco cosa siano- e mentre dice che non vanno bene usa lui stesso dislocazioni. C'è chi dice che i miei dialoghi "hanno la sintassi giapponese" senza chiaramente conoscerla. C'è chi critica i dialoghi dei film non avendoli mai sentiti, ma solo letti riportati (spesso male) da altri. C'è chi ha voglia di strillare e di sentirsi migliore di qualcun altro, soprattutto. Sia. In tutta onestà, non credo mi riguardi. Non intendo cambiare nessuno. Intendo solo adattare le cose su cui lavoro PER QUELLO CHE SONO, non per quello che chiccessia vorrebbe che fossero.
Tu pensi che il pubblico che non si sforzi di sottostare alla comprensione di una lingua e voglia vedersi un film in modo "pigro" e appiattito sia un pubblico per cui non valga la pena di indirizzare il film.
Ma dio mio, la gente guarda i film anche a prescindere dalla loro nazionalità. L'arte è una forma di comunicazione internazionale. Se in un film la valorizzazione culturale è un concetto portante è già un altro paio di maniche, ok, ci può stare. Ma in casi come Porco Rosso no, sono cose normali prese come normali. Chi l'ha fatto non ha pensato "chissà come può suonare questa cosa all'estero." ha fatto solo dei dialoghi quotidiani che il suo cervello gli permette di concepire.
La tua codifica è come pretendere di mostrare dei colori ad un daltonico. I test per i daltonici sono delle palline colorate che vanno a formare delle lettere o dei numeri sullo sfondo di altre palline colorate diversamente. Un daltonico non discerne certi colori, li vede alterati e non è quindi in grado di leggere tutte le lettere e tutti i numeri in quello sfondo. Per permetterglielo, bisogna utilizzare colori differenti e allora anche lui vedrà quello che vede una persona normale. Tu invece prendi, lasci le palline colorate come sono, e poi quando un daltonico dice "non vedo nessuna immagine!" gli rispondi "sì, stupido daltonico, questo film non è per te evidentemente. Comprati degli occhi nuovi. Non ho intenzione di abbassare questa preziosa immagine al tuo livello, sei tu che devi alzarti al suo."
Se vuoi valorizzare una cultura NON DOPPIARLA. Un doppiaggio si basa su un tradimento. Il doppiaggio è il male nei rispetti dell'originale. Il doppiaggio è fatto per le persone stupide, le persone pigre, le persone che della lingua originale se ne fregano. Vogliono solo il film come opera autoindipendente. Il doppiaggio è nato a questo scopo, rende fruibile i film agli ignoranti. Tu non fai le cose per un pubblico e capisco questo concetto, perché quando io personalmente faccio arte lo faccio allo stesso modo, lo faccio per me, non per un pubblico, così come tu doppi per l'esistenza dell'opera e non per chi deve guardarla. Ma un doppiaggio che non è rivolto a un pubblico che senso ha di esistere? È una contraddizione.
E in due lingue non funziona A = A / B = B, non è mica matematica.
Funziona piuttosto A = sjfhsjkh / B = qweqrt.
"sjfhsjkh" non vuol dire per forza "A", non vuol dire solo "A". "A" è un buon modo per esprimere il concetto di cosa "sjfhsjkh" voglia dire, ma ne ricalca una sola sfumatura. Ci sono altre parole che ne ricalcano altre sfumature e bisogna ponderare quando usare una determinata parola per sottolineare una sfumatura. Ad esempio "Moron" che vuol dire? Deriva dal greco "Moros" a sua volta derivante dal sanscrito "Murah", parola che in italiano è diventata obsoleta e ha perso dei corrispettivi. Quale delle mille parole che esprimono lo stesso concetto lo esprimono meglio? Boh, è soggettivo.
In giapponese le radici sono praticamente tutte diverse (salvo eccezioni), quindi creare una codifica è impossibile. Sarà una codifica soggettiva, come la tua. So che tenti di essere più oggettivo possibile, ma semplicemente non si può, arrivi ad un punto in cui devi "scegliere".
Bisogna distinguere fatti da opinioni. I primi sono obiettivi, valgono per tutti e sono quindi una "ragione forte", i secondi sono soggettivi, valgono per il singolo e sono quindi una "ragione debole".
No, non sono d'accordo con te. Ritengo che il modo in cui adatto per il doppiaggio sia l'unico modo per presentare degnamente un'opera straniera doppiata in italiano, e altresì l'unico modo per valorizzare una cultura straniera in sede di traduzione, adattamento e doppiaggio.
Capisco che tu non concordi. Ma i tuoi discorsi, alla fine, per quanto ben argomentati sfociano nella vaghezza del diversivo: "prima facevo così, ora non più, il pubblico vuole questo e quello..."
Tutte opinioni. Tutte chiacchiere.
Ragioni deboli.
Come uno chef francese che tenta di fare piatti francesi in un ristorante italiano in italia.
Che poi sia la MIA idea delle specifiche del doppiaggio, beh, che devo dire, non penso esistano delle tavole bibliche del doppiaggio. Magari ho torto! Ma è l'unico modo in cui suppongo si possa vedere il doppiaggio. Uno chef, per quanto francese, se cucina in un ristorante italiano deve fare dei piatti italiani richiesti nel menù. Tu, nelle vesti dello chef, ti attieni al menù ma cerchi di correggere le ricette per farle assomigliare ai piatti francesi. Che poi oh, si mangia lo stesso, ma la gente che va al ristorante non è che ne abbia l'aspettativa.
A me dispiace, perché lavori bene.
Penso sia però inevitabile voler entrare nel gusto personale ad un certo punto. Anche tu tenti, ti sforzi e tenti con tutto te stesso di fare un lavoro più oggettivo possibile, ma prima o poi anche tu sei costretto a scegliere tra più opzioni. Tenti di scegliere in base ad un'oggettività formale, linguistica, etimologica, deontologica, grammaticale, morfosintattica, culturale... ma non tutto è legato a un codice preciso e assoluto a cui tutti diranno "sì, questa è la scelta migliore." Molte volte la scelta la devi optare con la pancia.
Per esempio, in Porco Rosso, "Enjin-chan" l'hai tradotto "motoruccio".
Perché non "motorello"? Perché non "motoretto"? Perché non "motoruccino"? ("motorino" non lo chiedo nemmeno per ovvie ragioni).
Altro esempio, sempre da Porco Rosso. I pirati del cielo, trasportando le bambine nell'idrovolante, rispondono "So so" e "So da yo". Tu hai tradotto "Già, proprio così." - "Esattamente."
Perché non tradurre "So so" con "Già già"? Perché non tradurlo con "Eh, già"?
Perché non tradurre "So da yo" con "Proprio così" o "Già, esatto"?
Per esempio, io in questo caso avrei messo "Eh, già." - "Eh, già già." per replicare il fatto che "So da yo" non è che una forma molto più marcata e incisiva di "So so", più svogliata. E in entrambi i casi si fa ricorso alla parola "So". Nel tuo adattamento, invece, no.
Qual'è la tua spiegazione in termini oggettivi?
Perché non "motorello"? Perché non "motoretto"? Perché non "motoruccino"? ("motorino" non lo chiedo nemmeno per ovvie ragioni)."
Il ragionamento che ho fatto è: l'uso di -chan per un motore da parte di un aviatore è un vezzeggiativo diminutivo. Nella personalizzazione di un oggetto inanimato vi è affezione, indi la componente vezzeggiativa è preponderante. In talune aree d'Italia "motorello" è sinonimo di "motorino" (piccolo ciclomotore), quindi l'ho scartato. Motoretto idem (maschile del più comune "motoretta"). Motoruccino è una doppia suffizzione (morore -> motoruccio -> motoruccino) quindi da scartare per ridondanza indebita. Motoruccio mantiene chiara la personalizzazione vezzeggiativa dell'oggetto, quindi mi pareva e tuttora mi pare la cosa più sensata.
So che sembra impossibile, ma per ogni singola parola, costrutto, frase di ogni copione che scrivo c'è più o meno una simile -o maggiore- livello di valutazione.
Per le forme come 'sou sou' e 'sou da yo' hai ben detto nel mettere in luce la forma più volitiva della seconda su quella più svogliata/casuale della prima. Le scelte che ho optato mi sono sembrate le migliori nel caso, ma qui concordo che possa penetrare una piccola parte di gusto (sempre basandosi su quegli elementi obiettivi che hai sottolineato). Il punto non è illudersi che, al più basso livello, non vi sia scelta di gusto alcuna. Il punto è MINIMIZZARE l'ambito della "scelta di gusto" in favore dell'analisi obiettiva,
Non è un valore finito. E' un limite di tendenza, ecco.
È, a prescindere, un procedimento che implica una soggettività nelle scelte. Sono anch'io d'accordo sul fatto che vada limitata. Ma il tuo metodo è drastico! È molto umile ciò che fai, è timorosa venerazione allo stato puro. Ma è un'esagerazione che genera estraniamento, è un processo matematico che priva l'opera della sua umanità. Diventa una trascodifica per leggi scientifiche, per l'altro arbitrarie.
In effetti, io non intendo solo limitare la componente soggettiva (di gusto personale) nell'opera di adattamento. Come dicevo, io intendo *minimizzarla* = limite che tende a zero, conscio di non poter mai raggiungere/toccare l'asintoto. L'umanità dell'opera non deve essere la mia, io non devo aggiungere nessuna umanità all'opera di altro umano che è l'autore dell'opera. Il punto è proprio questo. Qualsiasi 'umanità', 'pancia' o come tu voglia dire io aggiungessi all'opera, sarebbe un'aggiunta indebita.
Ed è tutto effetto dei dialoghi, non della recitazione.
Comunque esistono sensazioni quasi oggettive. Come le parole. "Zozzo" per qualcuno potrà anche essere dolce, io che ne so? Però oggettivamente ha dei suoni duri, rozzi e taglienti come parola. Per certe sensazioni è più o meno lo stesso.
Ricevo il tuo commento, ma al tuo stesso modo altri amano proprio che "sembra proprio come l'originale" (un mio adattamento), solo che posso capire cosa dicono. Come vedi, esistono gusti e gusti. Se dici che l'originale ti suona familiare probabilmente conosci più di un po' di giapponese. E se conosci più di un giapponese, qualsiasi traduzione, adattamento o doppiaggio è inutile, insensato e indebito. ^^
L'originare, quello vero, è solo uno.
Ogni traduzione, adattamento o doppiaggio non è che un falso di servizio a valore assoluto nullo.
Ci sono troppi casi in cui non si può rispettare una codifica.
Supponiamo che io codifichi la particella di chiusura inglese "Is it?" con "Vero?"
Tuttavia, "Is it" cambia connotazione a seconda del suo uso. "Is that possible, is it?" Lo potrò tradurre con "È possibile, vero?"
Ma se ci fosse una frase come "Your destination's probably not going to come meet us here. Is it?" sarebbe più giusto tradurre con "La tua destinazione probabilmente non prevede che ci incontriamo qui. GIUSTO?" oppure "DICO BENE" o "SBAGLIO?" proprio perché è una domanda retorica. Mantenere la codifica "Vero" fuorvierebbe leggermente il senso della frase.
Oppure in un'altra frase "Really? That's what you think, is it?" tradurre con "Davvero? È questo quello che pensi, vero?" Crea una ripetizione inesitente. Oltre al fatto che pure questa è una domanda retorica, e per mantenerne il sarcasmo sarebbe più giusto tradurre con "Davvero? È questo quello che pensi, eh?"
Ho fatto esempi in inglese perché è una lingua con molti più punti di contatto con la nostra, ma per il giapponese vale lo stesso. Tradurre "Ne?" sempre con "Eh?" cambia il senso delle frasi, proprio perché "Ne?" non corrisponde alla perfezione a "Eh?" proprio come "Is it" non corrisponde alla perfezione a "Vero?"
Ed è proprio da questo che scaturisce una meccanicità e una "disumanità" alienante.
So bene che nella mia idea di traduzione ci sono dei limiti. Non è che la mia resa sia finalizzata a un formalismo assoluto e fine a sé stesso, non è così. Ovvero, per meglio dire, la mia idea (e pratica) di traduzione include da sempre l'esercizio ragionato di una limitazione del formalismo. De resto, al centro della mia traduzione è la semantoica, non la morfosintassi per sé. A dire il contraroi sono solo dei miei detrattori ciechi o accecati che di certo non hanno compreso cosa faccio e come lo faccio, e parlano vacuamente di "traduzione letterale" o "sintassi giapponese", un po' tutto a caso.
Per esempio rimanendo coerente con il tradurre "Ne?" con "Eh?" anche quando potrebbe avere una particella più confacente al senso della proposizione. O anche "Yappari" con "E infatti". Alla fin fine sono gli esempi ricorrenti più lampanti.
Perché tra il parallelismo degli usi diversi che vengono fatti per "Is it" e gli usi diversi che vengono fatti per "Ne?" e "Yappari" non ci sono poi molte differenze.
Sono fantasie o fandonie. Non dico strettamente tue, eh. Ma l'uso retorico del 'ne' è di certo troppo 'a basso livello' (contenuto semantico nullo) per potersi concordare/disambiguare. Quindi non l'ho MAI fatto. Quando è molto calcato lo rendo in genere come "vero?", quando è molto neutro non lo rendo proprio. La resa con "eh?" è solo una delle opzioni.
"Yappari" lo rendo quasi sempre con "e infatti" (rari i casi in cui preferisco altro) perché in genere mi appare sempre come la resa migliore, nel senso di più corretta *e* opportuna. A volte uso "Difatti". In rari casi ho usato "Tutto sommato, "Del resto", o persino "Alla fine" - se ben ricordo.
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