Recensione
Michiko e Hatchin
9.0/10
Spesso mi diverto a stroncare anime e manga che la vulgata spaccia per capolavori mentre invece sono solo la moda del momento, nell'attesa che il tempo faccia il suo dovere e releghi queste sole clamorose al loro vero posto, il dimenticatoio. Stavolta invece mi prendo la responsabilità di riscoprire un anime ingiustamente sottovalutato, ma che invece io trovo un piccolo capolavoro.
"Michiko e Hatchin" è una serie di 22 episodi del 2008, prodotta dalla Manglobe, che parla delle avventure di Hatchiko, una bambina orfana sfruttata a mai dire dalla famiglia adottiva. Il suo sogno è fuggire da quella prigione senza sbarre e un giorno, nella maniera più rocambolesca possibile, questo diventerà realtà. Infatti verrà rapita dalla galeotta evasa dal carcere Michiko Malandro. Dopo che Michiko avrà scoperto che la piccola è la figlia del suo ex compagno Hiroshi Moreno, partiranno alla sua ricerca per tutto il paese.
Vedendo quest'anime non si può fare a meno di ritornare con la memoria a un illustrissimo predecessore, "Cowboy Bebop". Gli elementi in comune sono moltissimi: un'elevatissima cura dei dettagli visivi, un taglio estremamente cinematografico dell'opera e la presenza di citazioni a impreziosire il tutto - come non notare che uno dei protagonisti, Satoshi Batista, somiglia moltissimo al gangter di City of God, Zè Pequeno?. Troviamo personaggi cinici e controversi, e una colonna sonora splendida, di Shinichiro Watanabe, che, se in Cowboy Bebop era il regista, qui è il produttore della colonna sonora realizzata dall'artista brasiliano Kassin.
Tuttavia c'è una differenza sostanziale tra i due anime, ed è secondo me il motivo per cui "Michiko e Hatchin" non ha avuto tutto l'enorme seguito dell'anime del 1998. "Cowboy Bebop" è una serie ironica venata di tristezza; "Michiko e Hatchin" invece è una serie triste venata di ironia. D'altronde come potrebbe essere altrimenti? Per quanto il racconto sia picaresco e gustosamente sempre sopra le righe, l'ambiente in cui si muovono i personaggi e le loro vicende sono decisamente drammatici. Michiko è cresciuta in un orfanotrofio dove la direttrice vendeva i bambini per mettere su un po' di soldi. Per lei la strada della delinquenza non è stata una scelta, era proprio l'unico mestiere possibile da intraprendere uscita dall'istituto. Hatchin invece è la figlia adottiva di un pastore evangelista che l'ha presa con sé solo per intascare il sussidio statale e risparmiare i soldi della colf. Attorno a loro si muovono criminali da strapazzo, gang di bambini, prostitute, improvvisati guaritori, veggenti da quattro soldi e per quanto l'aura attorno a questi caratteri non sia mai di vittimismo o denuncia, ma sia esagerata e miticizzante, rimane sempre l'amaro in bocca quando li si vede muovere in scena. Senza poi contare lo sfondo in cui si dipana la trama.
Il luogo dove è ambientato "Michiko e Hatchin" è un non precisato paese dell'America Latina, ma dove tutto riconduce a credere di essere in Brasile. Essendo però la serie prima di tutto una cronaca di poveri diavoli, certo non vedremo bellezze in topless, carnevali o favolose spiagge. Spesso e volentieri vedremo le nostre eroine ospiti in squallidi hotel, perse fra i vicoli di sporche favelas, bloccate in qualche villaggio polveroso dell'altopiano. Insomma, non si poteva introdurre simili argomenti e ambientazioni senza un uso sapiente del ritmo di narrazione, che certo non poteva essere quello sincopato di "Cowboy Bebop". Qui tutto è molto più lento e dilatato, e, anche se non mancano i momenti di azione matta e disperata, sono decisamente di più i momenti riflessivi e malinconici, cosa che lo rende molto meno fruibile. Anzi, a dire la verità, è proprio questo l'unico difetto dell'anime, ovvero che certe volte tira troppo la corda alla narrazione e diventa inutilmente lento. Si ha l'impressione che certi episodi siano stati messi solo come puro riempitivo e che alcuni di quegli stessi filler abbiano ben poco da offrire allo spettatore in termini di sviluppo della trama o d'intrattenimento in sé.
Forse però la serie televisiva lunga non era la giusta collocazione per un anime così maturo. Vedendolo pensavo spesso che con un numero minore di episodi a disposizione quest'anime sarebbe diventato praticamente perfetto, o meglio ancora, un film cinematografico avrebbe permesso alla trama di spiccare definitivamente il volo.
Per il resto "Michiko e Hatchin" è un signor anime che nonostante la facciata ironica e scanzonata mi ha teneramente commossa. Il rapporto filiale che si viene a creare tra le due protagoniste è una delle cose meglio scritte e autentiche che io abbia mai visto. Non ci sono melensaggini o facili ricorsi a tutti gli stereotipi narrativi del caso. Hatchin non è affatto la solita orfanella dei meisaku in odor di santità: è indisponente, dispettosa, testarda oltre ogni limite del buon senso. Michiko poi è il pessimo elemento per eccellenza. Veste in maniera a dir poco discinta, fuma e beve senza ritegno davanti alla bambina, è sboccata, non esita ad alzare le mani sulla sua piccola compagna di viaggio per tenerla a bada, se deve ottenere qualcosa sa bene che fa sempre prima a rubarla. Tuttavia Hatchin ha trovato in Michiko la madre che non ha mai avuto e Michiko ha trovato in Hatchin l'anima che in tanti anni di crimini non le era mai servita a nulla, finché il fortissimo rapporto che tra le due nascerà troverà il miglior compimento possibile nel meraviglioso e toccante finale.
Dal punto di vita tecnico "Michiko e Hatchin" non ha nulla da farsi rimproverare: sfondi reali maniacalmente trasposti su disegno, animazioni perfette, un character design particolarissimo e al tempo stesso evocativo e accattivante, nonché estremamente "cool". Menzione speciale va alle musiche, molto sofisticate e particolari.
Assolutamente da riscoprire.
"Michiko e Hatchin" è una serie di 22 episodi del 2008, prodotta dalla Manglobe, che parla delle avventure di Hatchiko, una bambina orfana sfruttata a mai dire dalla famiglia adottiva. Il suo sogno è fuggire da quella prigione senza sbarre e un giorno, nella maniera più rocambolesca possibile, questo diventerà realtà. Infatti verrà rapita dalla galeotta evasa dal carcere Michiko Malandro. Dopo che Michiko avrà scoperto che la piccola è la figlia del suo ex compagno Hiroshi Moreno, partiranno alla sua ricerca per tutto il paese.
Vedendo quest'anime non si può fare a meno di ritornare con la memoria a un illustrissimo predecessore, "Cowboy Bebop". Gli elementi in comune sono moltissimi: un'elevatissima cura dei dettagli visivi, un taglio estremamente cinematografico dell'opera e la presenza di citazioni a impreziosire il tutto - come non notare che uno dei protagonisti, Satoshi Batista, somiglia moltissimo al gangter di City of God, Zè Pequeno?. Troviamo personaggi cinici e controversi, e una colonna sonora splendida, di Shinichiro Watanabe, che, se in Cowboy Bebop era il regista, qui è il produttore della colonna sonora realizzata dall'artista brasiliano Kassin.
Tuttavia c'è una differenza sostanziale tra i due anime, ed è secondo me il motivo per cui "Michiko e Hatchin" non ha avuto tutto l'enorme seguito dell'anime del 1998. "Cowboy Bebop" è una serie ironica venata di tristezza; "Michiko e Hatchin" invece è una serie triste venata di ironia. D'altronde come potrebbe essere altrimenti? Per quanto il racconto sia picaresco e gustosamente sempre sopra le righe, l'ambiente in cui si muovono i personaggi e le loro vicende sono decisamente drammatici. Michiko è cresciuta in un orfanotrofio dove la direttrice vendeva i bambini per mettere su un po' di soldi. Per lei la strada della delinquenza non è stata una scelta, era proprio l'unico mestiere possibile da intraprendere uscita dall'istituto. Hatchin invece è la figlia adottiva di un pastore evangelista che l'ha presa con sé solo per intascare il sussidio statale e risparmiare i soldi della colf. Attorno a loro si muovono criminali da strapazzo, gang di bambini, prostitute, improvvisati guaritori, veggenti da quattro soldi e per quanto l'aura attorno a questi caratteri non sia mai di vittimismo o denuncia, ma sia esagerata e miticizzante, rimane sempre l'amaro in bocca quando li si vede muovere in scena. Senza poi contare lo sfondo in cui si dipana la trama.
Il luogo dove è ambientato "Michiko e Hatchin" è un non precisato paese dell'America Latina, ma dove tutto riconduce a credere di essere in Brasile. Essendo però la serie prima di tutto una cronaca di poveri diavoli, certo non vedremo bellezze in topless, carnevali o favolose spiagge. Spesso e volentieri vedremo le nostre eroine ospiti in squallidi hotel, perse fra i vicoli di sporche favelas, bloccate in qualche villaggio polveroso dell'altopiano. Insomma, non si poteva introdurre simili argomenti e ambientazioni senza un uso sapiente del ritmo di narrazione, che certo non poteva essere quello sincopato di "Cowboy Bebop". Qui tutto è molto più lento e dilatato, e, anche se non mancano i momenti di azione matta e disperata, sono decisamente di più i momenti riflessivi e malinconici, cosa che lo rende molto meno fruibile. Anzi, a dire la verità, è proprio questo l'unico difetto dell'anime, ovvero che certe volte tira troppo la corda alla narrazione e diventa inutilmente lento. Si ha l'impressione che certi episodi siano stati messi solo come puro riempitivo e che alcuni di quegli stessi filler abbiano ben poco da offrire allo spettatore in termini di sviluppo della trama o d'intrattenimento in sé.
Forse però la serie televisiva lunga non era la giusta collocazione per un anime così maturo. Vedendolo pensavo spesso che con un numero minore di episodi a disposizione quest'anime sarebbe diventato praticamente perfetto, o meglio ancora, un film cinematografico avrebbe permesso alla trama di spiccare definitivamente il volo.
Per il resto "Michiko e Hatchin" è un signor anime che nonostante la facciata ironica e scanzonata mi ha teneramente commossa. Il rapporto filiale che si viene a creare tra le due protagoniste è una delle cose meglio scritte e autentiche che io abbia mai visto. Non ci sono melensaggini o facili ricorsi a tutti gli stereotipi narrativi del caso. Hatchin non è affatto la solita orfanella dei meisaku in odor di santità: è indisponente, dispettosa, testarda oltre ogni limite del buon senso. Michiko poi è il pessimo elemento per eccellenza. Veste in maniera a dir poco discinta, fuma e beve senza ritegno davanti alla bambina, è sboccata, non esita ad alzare le mani sulla sua piccola compagna di viaggio per tenerla a bada, se deve ottenere qualcosa sa bene che fa sempre prima a rubarla. Tuttavia Hatchin ha trovato in Michiko la madre che non ha mai avuto e Michiko ha trovato in Hatchin l'anima che in tanti anni di crimini non le era mai servita a nulla, finché il fortissimo rapporto che tra le due nascerà troverà il miglior compimento possibile nel meraviglioso e toccante finale.
Dal punto di vita tecnico "Michiko e Hatchin" non ha nulla da farsi rimproverare: sfondi reali maniacalmente trasposti su disegno, animazioni perfette, un character design particolarissimo e al tempo stesso evocativo e accattivante, nonché estremamente "cool". Menzione speciale va alle musiche, molto sofisticate e particolari.
Assolutamente da riscoprire.