Recensione
Quando c'era Marnie
6.0/10
Recensione di Kabutomaru
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Chi si aspettava con il ritiro di Miyazaki grandi cambiamenti all'interno dello Studio Ghibli può stare tranquillo, poiché il tutto prosegue all'insegna della tradizione che lo ha contraddistinto. Hiromasa Yonebayashi, dopo il discreto "Arrietty - Il mondo sotto il Pavimento" (sopravvalutato da critica e pubblico), ritorna quattro anni dopo con un nuovo film: "Quando C'era Marnie". La pellicola è giunta nei cinema italiani ad opera della solita Lucky Red, la quale confeziona per l'home video la solita doppia edizione sia in DVD che in Blu-Ray.
La storia è semplice: Anna, ragazzina di dodici anni malata d'asma, non ha amici e si sente sola. Per curare la sua malattia, ella viene inviata in un paesino sperduto di campagna, sperando che l'aria locale possa farle bene. In questo posto Anna incontrerà una strana ragazzina della sua età dai capelli biondi di nome Marnie. Sembra che in passato abbia già incontrato la ragazza, ma quando? Nonostante le molte domande, alla fine Anna stringerà amicizia con Marnie, cercando di scoprire di più sul suo passato.
Come in "Arrietty", abbiamo una storia veramente scarna: mai mente umana avrebbe potuto creare qualcosa di più semplicistico. I personaggi rappresentano i classici stereotipi 'ghibliani' (anche se manca la figura maschile) e una sceneggiatura eccessivamente didascalica si prefigge di spiegare tutto tramite il racconto diegetico finale, così arrivando a distruggere ogni alone di mistero intorno alla vicenda.
Tutta la pellicola gioca sul rapporto tra le due protagoniste; Anna è una ragazzina triste, cinica e solitaria che si sente fuori dal cerchio (e conseguentemente dal sistema), mentre Marnie è tutto l'esatto opposto, vista la sua allegria e il suo essere ricolma di attenzioni (o almeno è ciò che crede Anna). La contrapposizione oltre che comportamentale è anche fisica: Anna ha capelli corti di colore scuro e veste con maglietta e pantalone, mentre Marnie è una ragazzina bionda che indossa sempre una vestaglia lunga dal color chiaro, la quale le conferisce un'aura di angelica femminilità.
Eppure gli elementi per osare erano ben disseminati all'interno della pellicola. Il legame di Anna con Marnie poteva essere visto come un percorso di maturazione sessuale da parte della prima verso un amore di stampo lesbico, vista la continua ricerca da parte sua dell'affetto di Marnie. Il tutto è giocato però all'insegna di un precario equilibrio onirico, in cui la protagonista sembra andare consciamente incontro, poiché probabilmente per la prima volta nella sua vita sembra aver ritrovato un posto all'interno del cerchio, il quale però non corrisponde a quello imposto dal sistema sociale, bensì quello in cui ci si sente individualmente realizzati.
Essendo Anna una discreta disegnatrice, di conseguenza è un'attenta osservatrice della realtà da un punto di vista "esterno" al sociale, dimostrando in tal modo di saper cogliere le sfumature del mondo in modo sensibile e accorto. Ma il conforto derivatole da ciò le risulta solo momentaneo, perché i suoi disegni non possono, né ella vuole, condividerli con altri; l'unica a cui concede tale facoltà è Marnie.
A questo punto Yonebayashi potrebbe uscirsene con un bello quanto intrigante escamotage psicanalitico degno di Freud, cioè fare di Marnie la proiezione della bambola di Anna vestita in modo uguale a lei e inquadrata nei flashback per ben tre volte, e invece, incapace di osare, il regista opta per una soluzione banale, poiché non sorretta da "prove" tangibili disseminate nel corso della narrazione; il montaggio della pellicola non consente di far tornare il tutto, mostrando di avere i cronici problemi che affliggono film del genere, come ad esempio "Fight Club" di Fincher.
Se la sceneggiatura risulta alquanto fallace, la regia, seppur non eccezionale, ci si sente di promuoverla, vista la capacità di riuscire a realizzare due sequenze di ottimo spessore tecnico, delle quali vale la pena rammentare la scena del ricordo di Anna sui coniugi Okiwa, messa in scena con l'uso della soggettiva preceduta da una dissolvenza di Marnie, che conferisce alla sequenza un'impronta psicanalitica. Per il resto, ci si ritrova innanzi a una regia funzionale alla storia, con solite inquadrature atte a far risaltare l'abilità grafica dello Studio Ghibli, miste a primi piani per ritrarre la solitudine a sofferenza di Anna (seppur a un certo punto diventano sovrabbondanti).
Il tutto è accompagnato da un'eccellente fotografia crepuscolare, con dei colori caldo-decadenti, atti a simboleggiare lo stato d'animo della protagonista, per poi farsi più luminosa e chiara solo nel finale. La messa in scena, più che giapponese, è tipicamente europea, poiché il paesaggio di campagna sembra essere proprio dell'entroterra inglese, mentre la villa di Marnie è immersa in un posto simile alle Highland Scozzesi.
In sostanza, con sommo rammarico ci si ritrova innanzi a un filmetto capace di sprecare l'interessante soggetto per colpa di una sceneggiatura scricchiolante, la quale si dimostra poco accorta nel trattare bene gli infiniti temi che sembravano permeare la pellicola (amore lesbico, solitudine, malattia, visione della realtà etc.), preferendo il solito cliché del drammone tipico delle produzioni Ghibli extra Miyazaki e Takahata, a cui si conferisce un risalto fin troppo esagerato, finendo poi con lo sciogliere la vicenda con soluzioni accomodanti all'acqua di rose.
Si nota un'evoluzione verso terreni più ottimistici sulla poetica del "legame" da parte del regista, poiché, se in "Arrietty" l'unione durava poco e veniva recisa amaramente nel finale, qua invece il legame con Marnie serve a farne nascere probabilmente uno nuovo (anche se ciò significa far integrare Anna nel sistema, e ciò risulta inaccettabile). Da sottolineare perlomeno un'atmosfera differente da quella solita dei lungometraggi di tale studio, a favore di un'estetica leggermente più "deprimente" e "cupa", anche se la potenza delle immagini (che, per la riuscita di un film, le si deve rendere "autosufficienti"), viene offuscata da una didascalica quanto inutile spiegazione finale.
Il problema delle opere Ghibli non soggette alla regia dei fondatori (fa eccezione "I sospiri del mio cuore") è il loro essere delle pellicole incapaci di osare, poiché puntano solo a scimmiottare in modo depotenziato sia Miyazaki che Takahata; per questo motivo non deve stupire la loro tiepida accoglienza ai botteghini né la loro scarsa qualità artistica, vista l'incapacità delle nuove leve di emanciparsi da un certo modo di fare, a favore di nuove vie nella strada della sperimentazione animata.
La storia è semplice: Anna, ragazzina di dodici anni malata d'asma, non ha amici e si sente sola. Per curare la sua malattia, ella viene inviata in un paesino sperduto di campagna, sperando che l'aria locale possa farle bene. In questo posto Anna incontrerà una strana ragazzina della sua età dai capelli biondi di nome Marnie. Sembra che in passato abbia già incontrato la ragazza, ma quando? Nonostante le molte domande, alla fine Anna stringerà amicizia con Marnie, cercando di scoprire di più sul suo passato.
Come in "Arrietty", abbiamo una storia veramente scarna: mai mente umana avrebbe potuto creare qualcosa di più semplicistico. I personaggi rappresentano i classici stereotipi 'ghibliani' (anche se manca la figura maschile) e una sceneggiatura eccessivamente didascalica si prefigge di spiegare tutto tramite il racconto diegetico finale, così arrivando a distruggere ogni alone di mistero intorno alla vicenda.
Tutta la pellicola gioca sul rapporto tra le due protagoniste; Anna è una ragazzina triste, cinica e solitaria che si sente fuori dal cerchio (e conseguentemente dal sistema), mentre Marnie è tutto l'esatto opposto, vista la sua allegria e il suo essere ricolma di attenzioni (o almeno è ciò che crede Anna). La contrapposizione oltre che comportamentale è anche fisica: Anna ha capelli corti di colore scuro e veste con maglietta e pantalone, mentre Marnie è una ragazzina bionda che indossa sempre una vestaglia lunga dal color chiaro, la quale le conferisce un'aura di angelica femminilità.
Eppure gli elementi per osare erano ben disseminati all'interno della pellicola. Il legame di Anna con Marnie poteva essere visto come un percorso di maturazione sessuale da parte della prima verso un amore di stampo lesbico, vista la continua ricerca da parte sua dell'affetto di Marnie. Il tutto è giocato però all'insegna di un precario equilibrio onirico, in cui la protagonista sembra andare consciamente incontro, poiché probabilmente per la prima volta nella sua vita sembra aver ritrovato un posto all'interno del cerchio, il quale però non corrisponde a quello imposto dal sistema sociale, bensì quello in cui ci si sente individualmente realizzati.
Essendo Anna una discreta disegnatrice, di conseguenza è un'attenta osservatrice della realtà da un punto di vista "esterno" al sociale, dimostrando in tal modo di saper cogliere le sfumature del mondo in modo sensibile e accorto. Ma il conforto derivatole da ciò le risulta solo momentaneo, perché i suoi disegni non possono, né ella vuole, condividerli con altri; l'unica a cui concede tale facoltà è Marnie.
A questo punto Yonebayashi potrebbe uscirsene con un bello quanto intrigante escamotage psicanalitico degno di Freud, cioè fare di Marnie la proiezione della bambola di Anna vestita in modo uguale a lei e inquadrata nei flashback per ben tre volte, e invece, incapace di osare, il regista opta per una soluzione banale, poiché non sorretta da "prove" tangibili disseminate nel corso della narrazione; il montaggio della pellicola non consente di far tornare il tutto, mostrando di avere i cronici problemi che affliggono film del genere, come ad esempio "Fight Club" di Fincher.
Se la sceneggiatura risulta alquanto fallace, la regia, seppur non eccezionale, ci si sente di promuoverla, vista la capacità di riuscire a realizzare due sequenze di ottimo spessore tecnico, delle quali vale la pena rammentare la scena del ricordo di Anna sui coniugi Okiwa, messa in scena con l'uso della soggettiva preceduta da una dissolvenza di Marnie, che conferisce alla sequenza un'impronta psicanalitica. Per il resto, ci si ritrova innanzi a una regia funzionale alla storia, con solite inquadrature atte a far risaltare l'abilità grafica dello Studio Ghibli, miste a primi piani per ritrarre la solitudine a sofferenza di Anna (seppur a un certo punto diventano sovrabbondanti).
Il tutto è accompagnato da un'eccellente fotografia crepuscolare, con dei colori caldo-decadenti, atti a simboleggiare lo stato d'animo della protagonista, per poi farsi più luminosa e chiara solo nel finale. La messa in scena, più che giapponese, è tipicamente europea, poiché il paesaggio di campagna sembra essere proprio dell'entroterra inglese, mentre la villa di Marnie è immersa in un posto simile alle Highland Scozzesi.
In sostanza, con sommo rammarico ci si ritrova innanzi a un filmetto capace di sprecare l'interessante soggetto per colpa di una sceneggiatura scricchiolante, la quale si dimostra poco accorta nel trattare bene gli infiniti temi che sembravano permeare la pellicola (amore lesbico, solitudine, malattia, visione della realtà etc.), preferendo il solito cliché del drammone tipico delle produzioni Ghibli extra Miyazaki e Takahata, a cui si conferisce un risalto fin troppo esagerato, finendo poi con lo sciogliere la vicenda con soluzioni accomodanti all'acqua di rose.
Si nota un'evoluzione verso terreni più ottimistici sulla poetica del "legame" da parte del regista, poiché, se in "Arrietty" l'unione durava poco e veniva recisa amaramente nel finale, qua invece il legame con Marnie serve a farne nascere probabilmente uno nuovo (anche se ciò significa far integrare Anna nel sistema, e ciò risulta inaccettabile). Da sottolineare perlomeno un'atmosfera differente da quella solita dei lungometraggi di tale studio, a favore di un'estetica leggermente più "deprimente" e "cupa", anche se la potenza delle immagini (che, per la riuscita di un film, le si deve rendere "autosufficienti"), viene offuscata da una didascalica quanto inutile spiegazione finale.
Il problema delle opere Ghibli non soggette alla regia dei fondatori (fa eccezione "I sospiri del mio cuore") è il loro essere delle pellicole incapaci di osare, poiché puntano solo a scimmiottare in modo depotenziato sia Miyazaki che Takahata; per questo motivo non deve stupire la loro tiepida accoglienza ai botteghini né la loro scarsa qualità artistica, vista l'incapacità delle nuove leve di emanciparsi da un certo modo di fare, a favore di nuove vie nella strada della sperimentazione animata.