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"God's Child" rientra perfettamente in quel disturbante sottogenere che personalmente amo definire "horror nichilista giapponese", sottogenere del quale "Midori shoujo Tsubaki" e "Litchi Hikari Club" sono un valido esempio di degni rappresentanti. Siamo di fronte alla provocatoria messa in scena della vita di un Gesù Cristo perfettamente antitetico all'originale; un serial killer psicopatico nato da delle feci in una latrina, quanto mai freddo, inquietante, cinico, sadico, lussurioso, ma allo stesso tempo lucido, consapevole di compiere le più grandi aberrazioni e raccapriccianti crudeltà che l'uomo sia in grado di concepire.

La storia è breve, la narrazione avviene in prima persona. Il "Figlio di Dio" - o "Signore delle Mosche", a giudicare da alcune tavole e da certi parallelismi esoterici che si leggono tra le righe - descrive minuziosamente i suoi pensieri, il fatto che ami uccidere senza alcuna connessione causale, senza alcun coinvolgimento emotivo, il suo essere schifato dalla società e dalla mediocrità che ne deriva. - Per essere integrati bisogna essere nella media in tutto - direbbe il "Figlio di Dio". Se si è intelligenti, diversi, stupidi, in un modo troppo poco uniforme agli standard imposti dal senso comune, si diventa istantaneamente emarginati. Vale comunque la legge del più forte: nella società/scuola frequentata dal "Figlio di Dio", il più debole viene messo sotto i piedi, distrutto, esattamente come accade nel regno animale - mi sentivo circondato da porci e scimmie - egli ammette in uno dei suoi lucidi deliri di onnipotenza. Gli autori del manga hanno calcato molto la mano sulla critica alla società e all'indifferenza sui generis: quando il "Figlio di Dio" e i suoi discepoli si mettono ad uccidere barboni e persone a caso per la strada, la gente continua a camminare facendo finta di non vedere, di non sentire.

I disegni, assimilabili ad una sorta di inquietante cubismo a tinte orrorifiche, contribuiscono a rendere il tutto ancora più malato e morboso. L'erogazione dello schifo e del mal di vivere avviene istantaneamente; la conturbante e raccapricciante carica anomala del manga colpisce direttamente l'inconscio del lettore. Un vero e proprio incubo ad occhi aperti.

La morale finale è sempre la stessa, comune alla maggior parte di questo tipo di opere: puro e semplice nichilismo. Perdita dei valori, dell'identità, dei punti di rifermento, della bellezza, della sostanza. Il finale inoltre parla chiaro, svelando, attraverso le parole del protagonista, la metafora del manga ed un possibile eterno ritorno del male. Male assimilabile alla fredda consapevolezza del caos e dell'insensatezza del tutto, non male in senso convenzionale, dettato dalle leggi scritte dall'uomo e dalle sue società/istituzioni. La morbosa e delirante follia del "Figlio di Dio" è la metafora a tinte forti dell'uomo il quale ha perso ogni certezza; dell'uomo consapevole dell'insensatezza più totale delle cose e dell'alienazione che implica la ricerca di saldi punti di riferimento in una realtà la quale pare solamente una grande illusione fine a sé stessa, oppure un meccanismo la cui complessità va oltre ogni umana comprensione.