Recensione
Your Name.
9.5/10
Recensione di Shu Zoldyck
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La recensione è scritta nel rispetto di chi non ha ancora visionato il film: pertanto, non sono state mosse considerazioni in merito agli eventi centrali del lungometraggio, ma ci si è limitati a cesellare la cornice del capolavoro che porta la firma di Makoto Shinkai, sperando di stimolare in taluni la visione del suddetto prodotto.
Di recente riproduzione nelle nostre sale cinematografiche è stato il lungometraggio d’animazione “Kimi no Na wa.”, lanciato nel nostro Paese con il mantenimento della traduzione inglese “Your Name.”. L’opera è stata scritta e diretta da Makoto Shinkai, regista già noto e apprezzato in Italia, se pur con riserve da parte di alcuni. A parere di chi scrive, “Your Name.” rappresenta il risultato più elaborato e raffinato che l’autore abbia sinora saputo regalarci, offrendo un prodotto dall’alto valore artistico, su più fronti; anzi, vi sarebbe da dire: su tutti i fronti. Ma andiamo con ordine.
La storia si sviluppa su un duplice intreccio: le vicende sono ordinate solo all’apparenza, giacché in un secondo momento, proprio al culmine del lungometraggio - il momento dal massimo tenore tragico ed espressivo - esse sconcertano lo spettatore, costringendolo altresì a tenere alta la concentrazione, pena la perdita di passaggi fondamentali per la comprensione dell’intera opera.
Il film inizia con un risveglio, quello di Mitsuha Miyamizu, giovane studentessa delle superiori che vive con la nonna e la sorella minore Yotsuha in una piccola cittadina, Itomori, la quale prende il nome dal lago (di Itomori, appunto) stante ai piedi del monte su cui sorge il paese. Mitsuha, immersa in un contesto ricco di tradizione e spiritualità, non è contenta della sua vita da “paesana” e sogna, dopo aver terminato gli studi scolastici, di trasferirsi a Tokyo, affascinata da un modo di rapportarsi al mondo totalmente altro rispetto a quello cui è abituata. È una ragazza solare e pacatamente timida, figlia dell’irreprensibile sindaco della città che, dalla morte della moglie, nonché madre di Mitsuha, si è allontanato dalla famiglia, guidata ora dalla nonna, curatrice, fra l’altro, del tempio di Itomori e tutrice della tradizione sapienziale e spirituale del luogo. Ben presto, Mitsuha si renderà conto di una situazione assurda nella quale è coinvolta: ella sogna la vita di qualcun altro, e i suoi gesti, le sue azioni, le sue decisioni prese nel sogno si ripercuotono direttamente nell’esistenza - del tutto autonoma rispetto alla sua - che ella, nel suo stesso sogno, conduce. Mitsuha sogna di vivere la vita di Taki Tachibana, studente di Tokyo che lavora part-time in un ristorante chiamato “Il Giardino delle Parole” (riferimento, questo, a un altro bel film di Shinkai). Anche Taki inizia inspiegabilmente a sognare la vita di Mitsuha, e i due si rendono vicendevolmente conto del fatto che i propri sogni portino clamorose ripercussioni sulla vita della rispettiva controparte. Hanno così inizio una serie di accadimenti che porteranno Mitsuha e Taki a essere l’uno nell’altro, inscindibilmente legati ma al contempo mai abbastanza vicini da potersi comunicare l’incolmabile affetto che fra di loro cresce sempre più. Una straordinaria dinamica spazio-temporale li separa quasi a tal punto da recidere quel legame, quei fili del loro esistere, talmente intrecciati, fra di loro, da non permettergli nemmeno, fuor dall’universo onirico, di conoscere il reciproco nome.
Di “Kimi no Na Wa.” stupisce positivamente la coerenza interna della storia, mai scontata né banale, povera di cliché - ormai dilaganti nel genere - e ricca invece di contenuti connotanti una realtà che non smette di affascinare e suggestionare. Makoto Shinkai riesce pienamente in questo gesto di suggestione, offrendoci, con la cittadina di Itomori, uno scorcio magico, incantato, bucolico: un idillio che si sottrae alle effusioni virulente di surmodernità che - nelle relative forme di sovrabbondanza e di stra-significanza, le quali troppo spesso si palesano - ammorbano e annichiliscono l’identità di un popolo. E al tempo stesso, è proprio in quella Tokyo, sfrenata e iper-globalizzata - fluida, direbbe il compianto Zygmunt Bauman - che vive Taki; metropoli in cui, del resto, conta di vivere un giorno anche la stessa Mitsuha. Proprio lì, v’è spazio per i grandi sentimenti scaturiti dalla potenza di due vite che dirompono l’una sull’altra, che irrompono l’una sull’altra con grande intensità; intensità, questa, che il film di Shinkai riesce a rendere pienamente: l’intensità con cui Taki tenta disperatamente di ricordare, durante la veglia, il nome di Mitsuha, così impresso dentro di lui ma al contempo così sfuggente, sfuggente quanto la parusia stessa del suo desiderio. Il simbolismo che si cela dietro a questo ultimo lungometraggio del regista giapponese è molto forte: emblematici sono gli elementi spirituali evocati a Itomori - il santuario, le cerimonie rituali in onore delle divinità, i torii -, ma decisivi risultano anche altri simboli, caratterizzanti per intero la vicenda di Mitsuha e Taki. Anzitutto, il “kumihimo”, una tecnica tradizionale di intreccio dei fili, molto usata dalla nonna di Mitsuha a Itomori. Non a caso, infatti, Mitsuha donerà a Taki, durante il loro primo, brevissimo, incontro, un braccialetto realizzato proprio tramite la tecnica di intreccio dei fili; intreccio, questo, fortemente simbolico, indicante il grandioso legame che si cela tra le vite dei due protagonisti. In secondo luogo, e sebbene possa apparire meno importante, degna di nota è sicuramente la metafora del treno, che quantifica la distanza sussistente tra i personaggi, appartenenti quasi a due mondi diversi. Questa distanza, che è differenza, diventa, nei momenti in cui i due si scorgono sfuggevolmente proprio sul treno, prossimità, ma sempre nel continuo consolidarsi di un effettivo fulgido scarto, apparentemente incolmabile, fra i due.
Sceneggiatura e dialoghi sono scritti in maniera praticamente impeccabile. I personaggi divengono sempre più intimi fra loro, e così accade anche nei confronti dello spettatore, il quale viene totalmente catapultato nella vicenda - complici anche le fascinose rappresentazioni grafiche che collocano chi guarda nella prospettiva di sospendere il giudizio sulla realtà e darsi in maniera compiuta allo spettacolo scenico cui assiste. Makoto Shinkai ci mette di fronte a personalità carismatiche, animate da ardore e passione, volontà di vita e auspici per l’avvenire; l’ambientazione entro cui gli eventi si svolgono è una immensa dimensione onirica e fortemente spirituale, nella quale rimane difficile tracciare i confini tra “sogno” e “reale”, tra virtuale ed effettuale, tra desiderio e realizzazione. La piacevole e ideale colonna sonora contribuisce a plasmare tutti questi elementi, sicché il prodotto finale risulta essere un connubio artistico notevolissimo, il quale, garantito dallo scrivente, al cinema si fa meraviglioso tripudio di colori e di atmosfere speciali che solo il miglior Makoto Shinkai poteva evocare.
Una nota finale riguardo all’edizione italiana, distribuita da Nexo Digital ed elaborata da Dynit; essa è di pregevole qualità. Il doppiaggio risulta essere notevole: le voci che i nostri doppiatori hanno prestato ai personaggi sono più che azzeccate, soprattutto in ruoli delicati come quelli di Mitsuha e di Taki, dove essi devono avere tonalità vocali talvolta maggiormente maschili, talvolta maggiormente femminili.
Concludendo, è indubbio che l’opera di Makoto Shinkai possa offrirci numerosi spunti ermeneutici, ma un interrogativo riecheggia, soave più fra gli altri: “Qual è l’importanza d’un nome?”
Tale straordinario dispositivo linguistico con cui fissiamo semanticamente individui nel mondo, per noi, spesso, può voler significare e simboleggiare ben più rispetto al “mero” atto di nominazione. E questo Mitsuha e Taki ce lo insegnano bene: per loro il nome è l’immagine di un incontro, è l’evocazione di una presenza, è il ridestarsi di un ricordo, vivo ma languido; per Mitsuha e Taki, il nome è la laconica affermazione d’un ascoso, penetrante amore.
Di recente riproduzione nelle nostre sale cinematografiche è stato il lungometraggio d’animazione “Kimi no Na wa.”, lanciato nel nostro Paese con il mantenimento della traduzione inglese “Your Name.”. L’opera è stata scritta e diretta da Makoto Shinkai, regista già noto e apprezzato in Italia, se pur con riserve da parte di alcuni. A parere di chi scrive, “Your Name.” rappresenta il risultato più elaborato e raffinato che l’autore abbia sinora saputo regalarci, offrendo un prodotto dall’alto valore artistico, su più fronti; anzi, vi sarebbe da dire: su tutti i fronti. Ma andiamo con ordine.
La storia si sviluppa su un duplice intreccio: le vicende sono ordinate solo all’apparenza, giacché in un secondo momento, proprio al culmine del lungometraggio - il momento dal massimo tenore tragico ed espressivo - esse sconcertano lo spettatore, costringendolo altresì a tenere alta la concentrazione, pena la perdita di passaggi fondamentali per la comprensione dell’intera opera.
Il film inizia con un risveglio, quello di Mitsuha Miyamizu, giovane studentessa delle superiori che vive con la nonna e la sorella minore Yotsuha in una piccola cittadina, Itomori, la quale prende il nome dal lago (di Itomori, appunto) stante ai piedi del monte su cui sorge il paese. Mitsuha, immersa in un contesto ricco di tradizione e spiritualità, non è contenta della sua vita da “paesana” e sogna, dopo aver terminato gli studi scolastici, di trasferirsi a Tokyo, affascinata da un modo di rapportarsi al mondo totalmente altro rispetto a quello cui è abituata. È una ragazza solare e pacatamente timida, figlia dell’irreprensibile sindaco della città che, dalla morte della moglie, nonché madre di Mitsuha, si è allontanato dalla famiglia, guidata ora dalla nonna, curatrice, fra l’altro, del tempio di Itomori e tutrice della tradizione sapienziale e spirituale del luogo. Ben presto, Mitsuha si renderà conto di una situazione assurda nella quale è coinvolta: ella sogna la vita di qualcun altro, e i suoi gesti, le sue azioni, le sue decisioni prese nel sogno si ripercuotono direttamente nell’esistenza - del tutto autonoma rispetto alla sua - che ella, nel suo stesso sogno, conduce. Mitsuha sogna di vivere la vita di Taki Tachibana, studente di Tokyo che lavora part-time in un ristorante chiamato “Il Giardino delle Parole” (riferimento, questo, a un altro bel film di Shinkai). Anche Taki inizia inspiegabilmente a sognare la vita di Mitsuha, e i due si rendono vicendevolmente conto del fatto che i propri sogni portino clamorose ripercussioni sulla vita della rispettiva controparte. Hanno così inizio una serie di accadimenti che porteranno Mitsuha e Taki a essere l’uno nell’altro, inscindibilmente legati ma al contempo mai abbastanza vicini da potersi comunicare l’incolmabile affetto che fra di loro cresce sempre più. Una straordinaria dinamica spazio-temporale li separa quasi a tal punto da recidere quel legame, quei fili del loro esistere, talmente intrecciati, fra di loro, da non permettergli nemmeno, fuor dall’universo onirico, di conoscere il reciproco nome.
Di “Kimi no Na Wa.” stupisce positivamente la coerenza interna della storia, mai scontata né banale, povera di cliché - ormai dilaganti nel genere - e ricca invece di contenuti connotanti una realtà che non smette di affascinare e suggestionare. Makoto Shinkai riesce pienamente in questo gesto di suggestione, offrendoci, con la cittadina di Itomori, uno scorcio magico, incantato, bucolico: un idillio che si sottrae alle effusioni virulente di surmodernità che - nelle relative forme di sovrabbondanza e di stra-significanza, le quali troppo spesso si palesano - ammorbano e annichiliscono l’identità di un popolo. E al tempo stesso, è proprio in quella Tokyo, sfrenata e iper-globalizzata - fluida, direbbe il compianto Zygmunt Bauman - che vive Taki; metropoli in cui, del resto, conta di vivere un giorno anche la stessa Mitsuha. Proprio lì, v’è spazio per i grandi sentimenti scaturiti dalla potenza di due vite che dirompono l’una sull’altra, che irrompono l’una sull’altra con grande intensità; intensità, questa, che il film di Shinkai riesce a rendere pienamente: l’intensità con cui Taki tenta disperatamente di ricordare, durante la veglia, il nome di Mitsuha, così impresso dentro di lui ma al contempo così sfuggente, sfuggente quanto la parusia stessa del suo desiderio. Il simbolismo che si cela dietro a questo ultimo lungometraggio del regista giapponese è molto forte: emblematici sono gli elementi spirituali evocati a Itomori - il santuario, le cerimonie rituali in onore delle divinità, i torii -, ma decisivi risultano anche altri simboli, caratterizzanti per intero la vicenda di Mitsuha e Taki. Anzitutto, il “kumihimo”, una tecnica tradizionale di intreccio dei fili, molto usata dalla nonna di Mitsuha a Itomori. Non a caso, infatti, Mitsuha donerà a Taki, durante il loro primo, brevissimo, incontro, un braccialetto realizzato proprio tramite la tecnica di intreccio dei fili; intreccio, questo, fortemente simbolico, indicante il grandioso legame che si cela tra le vite dei due protagonisti. In secondo luogo, e sebbene possa apparire meno importante, degna di nota è sicuramente la metafora del treno, che quantifica la distanza sussistente tra i personaggi, appartenenti quasi a due mondi diversi. Questa distanza, che è differenza, diventa, nei momenti in cui i due si scorgono sfuggevolmente proprio sul treno, prossimità, ma sempre nel continuo consolidarsi di un effettivo fulgido scarto, apparentemente incolmabile, fra i due.
Sceneggiatura e dialoghi sono scritti in maniera praticamente impeccabile. I personaggi divengono sempre più intimi fra loro, e così accade anche nei confronti dello spettatore, il quale viene totalmente catapultato nella vicenda - complici anche le fascinose rappresentazioni grafiche che collocano chi guarda nella prospettiva di sospendere il giudizio sulla realtà e darsi in maniera compiuta allo spettacolo scenico cui assiste. Makoto Shinkai ci mette di fronte a personalità carismatiche, animate da ardore e passione, volontà di vita e auspici per l’avvenire; l’ambientazione entro cui gli eventi si svolgono è una immensa dimensione onirica e fortemente spirituale, nella quale rimane difficile tracciare i confini tra “sogno” e “reale”, tra virtuale ed effettuale, tra desiderio e realizzazione. La piacevole e ideale colonna sonora contribuisce a plasmare tutti questi elementi, sicché il prodotto finale risulta essere un connubio artistico notevolissimo, il quale, garantito dallo scrivente, al cinema si fa meraviglioso tripudio di colori e di atmosfere speciali che solo il miglior Makoto Shinkai poteva evocare.
Una nota finale riguardo all’edizione italiana, distribuita da Nexo Digital ed elaborata da Dynit; essa è di pregevole qualità. Il doppiaggio risulta essere notevole: le voci che i nostri doppiatori hanno prestato ai personaggi sono più che azzeccate, soprattutto in ruoli delicati come quelli di Mitsuha e di Taki, dove essi devono avere tonalità vocali talvolta maggiormente maschili, talvolta maggiormente femminili.
Concludendo, è indubbio che l’opera di Makoto Shinkai possa offrirci numerosi spunti ermeneutici, ma un interrogativo riecheggia, soave più fra gli altri: “Qual è l’importanza d’un nome?”
Tale straordinario dispositivo linguistico con cui fissiamo semanticamente individui nel mondo, per noi, spesso, può voler significare e simboleggiare ben più rispetto al “mero” atto di nominazione. E questo Mitsuha e Taki ce lo insegnano bene: per loro il nome è l’immagine di un incontro, è l’evocazione di una presenza, è il ridestarsi di un ricordo, vivo ma languido; per Mitsuha e Taki, il nome è la laconica affermazione d’un ascoso, penetrante amore.