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La sensibilità di un artista sta nel riuscire a prendere l’ordinario e tramutarlo in straordinario, trattare tematiche delicate e difficili senza cadere nella banalità e senza mancare di tatto. È come incedere su una corda sospesa, il gioco sta nel portare avanti quell’equilibrio elegante, per quanto precario, fatto di immagini, suoni e impressioni fin dove l’artista ha intenzione di spingersi. Se l’estro è forte, il risultato può essere un’esperienza memorabile; se a guidare l’artista è invece pretensione, la caduta è una realtà pressoché inevitabile.
È una premessa doverosa, questa, per iniziare a parlare di “Colorful”, e in particolare di come “Colorful” si colloca nel contesto storico in cui è stato prodotto e all’interno del percorso artistico del suo autore, Keiichi Hara. Adattamento del romanzo omonimo di Eto Mori, la trasposizione animata di “Colorful” gode della reinterpretazione personale del regista, il quale, portando in primo piano certi aspetti, limandone altri, tenta di proporre un’opera adatta sia a un pubblico di bambini, col quale Hara si era rapportato fino ad allora, sia a un pubblico più maturo, in grado di cogliere fino in fondo le sfumature più cupe, celate dietro all’intreccio e ai personaggi del racconto. L’intenzione era proprio quella di creare uno stacco con la produzione rivolta a un target infantile - il suo lavoro di animatore per “Shin Chan” e “Doreamon” - ed evolvere la propria poetica verso un registro più maturo.

Protagonista di questa storia è un’anima peccatrice, rigettata contro la sua volontà nel ciclo infinito di vita, morte e resurrezione per espiare le proprie colpe e dimostrarsi meritevole di una nuova esistenza; l’anima, priva di memoria, deve vivere nel corpo di un mortale, tentando di ricordare la propria colpa e al contempo di rivelarsi adatta a reincarnarsi e intraprendere una nuova vita. Il corpo designato è quello del giovane Makoto, un ragazzo delle scuole medie sopravvissuto per miracolo dopo un tentativo di suicidio. Quello che l’aspetta è un viaggio alla scoperta del passato di Makoto e alla riscoperta del proprio io, tra le sofferenze e lo sconforto di una vita alienante che non le appartiene e le gioie fugaci e precarie che piano piano impara a riconoscere e apprezzare.
Lo stacco a cui si allude sta proprio nel modo in cui l’autore si pone nei confronti dell’opera e dei suoi personaggi. Lungi dal voler presentare una realtà e una società idealizzata, quale il modello giapponese si impone di essere, Hara ne mette a nudo il lato più crudo, ne esalta l’anaffettività e l’emarginazione dell’individuo, la necessità di un rapporto sincero col prossimo, il desiderio di sfuggire a questa realtà soffocante. Le numerose sequenze di vita familiare, su cui volutamente il regista decide di soffermarsi, e in particolar modo i pasti, fotografano perfettamente da un lato la volontà di trasmettere un messaggio tramite il realistico e il quotidiano, dall’altro dipingono direttamente il carattere e la personalità di ognuno. È un equilibrio delicato fatto di gesti, sguardi e sensazioni, prima che di dialoghi. È reale, è quotidiano. Ed è quindi proprio dall’ordinario, non dallo straordinario, che se ne colgono dagli aspetti più evidenti alle sfumature più fini, e Hara è davvero un maestro nella rappresentazione di tutto ciò.
Un altro cardine è il rapporto di Makoto con l’arte, intesa e interpretata come forma finale di escapismo. Questo particolare espediente non è certo originale, ma il modo in cui il tutto viene impacchettato rende ogni sequenza ispirata ed espressiva. Così il disegno e la pittura fungono da ponte tra il protagonista e il ragazzo, tutto diventa un gioco di colori atto a dare forma alle sue emozioni e a delinearne un profilo via via più definito nella mente del protagonista; prima toni vivaci, poi sempre più cupi, che accompagnano la macchinazione del suicidio, fino ai bozzetti lugubri e all’ultimo enigmatico non-finito che il ragazzo ha lasciato nell’aula di arte della propria scuola e che il protagonista scruta e ammira in modo ricorrente nel film.

L’apparato tecnico e artistico è lo strumento attraverso il quale il messaggio riesce a filtrare così bene e ad arrivare allo spettatore, anche qui prima ancora della sceneggiatura. La regia mantiene sempre un quid di delicato, anche quando la tensione è palpabile e il disincanto al suo apice, laddove l’espressività dei personaggi viene resa con una precisione estrema della fisiognomica facciale e una gestione oculata del colore. Il character design è un altro degli aspetti realistici dell’opera; si preferisce mettere in scena personaggi dall’aspetto normale, comune, anche tendente al brutto, e senza eccedere nell’arricchire abiti e capigliature di particolari barocchi o vistosi, come può essere di moda nelle opere a sfondo quotidiano e slice of life contemporanee a “Colorful”.
Il prodotto finale è valido, forte e coinvolgente, riesce a penetrare il guscio dello spettatore e a trasmettere in modo efficacie lo stato d’animo, la realizzazione e l’evoluzione di un protagonista dalla psicologia non certo banale, senza tralasciare neanche la caratterizzazione dei comprimari. Tutto questo probabilmente spiega perché, nonostante l’intento originale fosse quello di proporre un film alla studio Ghibli, “Colorful” non abbia avuto un’eco sufficiente da permeare fino al grande pubblico. Ma, se è vero che non tutti i mali vengono per nuocere, il carattere più marcatamente di nicchia dell’opera ne permette, in un certo senso, un’interpretazione più personale e avulsa dal parere della critica collettiva e, personalmente, anche una più intima fruizione del film, elemento che più di tutto il resto è riuscito a catturarmi.