Recensione
Rurouni Kenshin
10.0/10
Recensione di zettaiLara
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La storia di Rurouni Kenshin - Samurai Vagabondo conserva tuttora integro il suo fascino, anche a distanza di diversi anni dalla prima stesura dell'opera; è quindi tutto sommato soltanto legittimo chiedersi come mai tanta popolarità, su questo titolo, non avesse condotto ad un lungometraggio dal vivo già anni addietro.
Il progetto live-action è rientrato invece in quello più ampio dei festeggiamenti per il quindicennale dalla serie animata, che al di là di questo film stand-alone del 2012 ha ricompreso, tra le altre cose, una serie di OVA sul capitolo di Kyoto e un breve remake del manga denominato Cinema Version.
L’opera originale di Nobuhiro Watsuki è nient'altro che la rielaborazione in chiave shounen dei tragici avvenimenti storici che condussero il Giappone alla Restaurazione Meiji prima, e alla trasmigrazione nell'Era Moderna poi: forzata, rapida e non priva di strascichi.
E' certo una rilettura avventurosa, indirizzata idealmente più a un target di lettori adolescenti, piuttosto che ad un pubblico più maturo; per questo, e per quella componente di violenza propria dei fatti accaduti, Rurouni Kenshin non dovrebbe rientrare, a rigor di logica, tra le storie che più ritrovo consone ai miei gusti. Eppure essa è, al tempo stesso, la storia della coscienza di un uomo, con alle spalle un percorso di vita travagliato ma al tempo stesso affascinante e romantico.
A fronte della notizia dell'imminente live action tratto dal manga di Watsuki, pubblicato in Italia per Star Comics, serbavo diversi timori. Trasformare un manga in un lungometraggio, tanto più dal vivo, è spesso e volentieri un'operazione che genera più mormorii di scontento che soddisfazione, sia tra i fan che tra i semplici appassionati del genere: significa necessariamente introdurre dei cambiamenti, intervenire su qualcosa che difficilmente si ritiene migliorabile, e non perché l'opera rasenti la perfezione, quanto piuttosto perché apprezzata così com'era stata pensata originariamente.
Rurouni Kenshin offre tuttavia degli elementi che si prestano con facilità allo scopo: un'appassionata storia di 'cappa e spada' al limite della tragedia, uno sfondo storico affascinante, personaggi il cui carisma non risente dello scorrere del tempo.
L'intreccio originale di Watsuki è stato certamente rielaborato: non troppo, ma nemmeno troppo poco. Eppure per quanto sia assente lo straordinario arco degli Oniwabanshu, la storia narrata di per sé non ne soffre in maniera eccessiva. Le vicende dei primi quattro volumi del manga vengono così ben riassunte in un incastro ex novo, il cui sviluppo non risulta essere affrettato né incoerente, né lascia la percezione che troppi elementi siano stati abbandonati per strada.
La sceneggiatura è riuscita nell'intento di includere nell'intreccio tutto ciò che era necessario inserire, e mai s'insinua la sensazione che 'manchi qualcosa' o, peggio, di incoerenti buchi narrativi. Tutto si colloca, tutto trova il proprio spazio.
Apprezzabile è anche l'inserimento silenzioso di brevi comparse di personaggi comprimari, forse invisibili ad un pubblico neofita, ma che i fan della serie riconoscono a colpo d'occhio.
La figura di Kenshin Himura è impeccabile: Takeru Sato non ha dovuto faticare alcunché per restituire allo spadaccino i suoi delicati lineamenti, ed è inoltre riuscito con abilità a renderne tangibili le varie sfumature espressive, sia nel viso che nella voce, alternando il gentile ‘rurouni’ vagabondo al freddo assassino dalla voce roca, gelida e irriconoscibile.
L'indecifrabile uomo diviso tra il passato, il presente e il suo conflitto interiore è dotato, per stessa ammissione di Watsuki, di una bellezza neutra, non esattamente femminea, che si estende fino a travalicare i sessi. A ben vedere infatti Sato conserva della ruvidezza nei tratti, ed è molto apprezzabile quanto della sua stessa statura ed esile corporatura trasmigri in Kenshin. E, di nuovo, anche quest'aspetto sembra quasi paradossale, perché non c'è scena di spada che non lasci a bocca aperta, per così tanta e sottile forza celata in un corpo così minuto.
Teatrali, certamente, gli svariati combattimenti di arti marziali, eppure mai eccessivi, mai danno l'impressione di rasentare l'assurdità agli occhi dello spettatore.
Splendida la resa di Sanosuke e della sua spiccata e ingenua irruenza, parimenti ben fatta quella di Megumi Takani: malgrado le variazioni apportate alla storia, rimane invariato ed evidente il desiderio di questo personaggio di sfuggire al destino che l'ha intrappolato in una vita di indesiderate costrizioni.
Il piccolo Yahiko non risalta più di tanto ma la sua figura ha il pregio di essere tanto semplice quanto immediata; il profilo di Kanryu Takeda viene modificato solo dal punto di vista della rappresentazione fisica, così che non si fatica a coglierne l’animo corrotto in tutte le sue sfumature.
Ed infine Jinne, che spicca tra tutti con una preponderanza che ritengo davvero meritata.
A perderci sono, a mio parere, solo due personaggi: da un lato Kaoru, bella, dolce e materna al punto di aver slavato un ruvido lato tsundere non indifferente nella figura originale di Watsuki. Dall'altro Hajime Saito, in una caratterizzazione forse un po' troppo buonista, affascinante e filo-governativa, a scapito del lugubre tormento interiore di contestatore sociale e di spia, che tanto ha reso quest'uomo uno dei personaggi di Watsuki tra i più amati di sempre.
E poi come non parlare degli accostamenti cromatici, dei dialoghi, dei costumi e della colonna sonora: in questo film niente è lasciato al caso, così che i fruitori dell'opera originale non possono non riconoscere le stesse identiche battute pronunciate nel manga, e magari realizzare anche che le tinte dominanti dell'intero film sono tutti i toni del mattone, del rossiccio, dell'indaco e dell'oltremare, colori che assai più spesso di altri sono associati alle illustrazioni di Kenshin e al suo inconfondibile kimono rosso o blu. La ricostruzione storica del periodo Meiji è piacevole alla vista, in una miscela di vestiario occidentale e orientale che mai come in quell’era particolare vedeva i suoi albori.
Accattivante e malinconico l'accenno, nemmeno troppo velato, al segreto legato alla cicatrice a forma di croce; altrettanto calzante il nastro blu che Kaoru indossa in chiusura, forse rimando al celebre capitolo del manga, e l'uso di alcuni termini giapponesi desueti, onorifici o meno, legati al gergo un po' rude della casta dei samurai.
La colonna sonora strumentale, di altrettanto chiaro stampo nipponico classico, si propone di accogliere con eleganza l'azione, il ritmo e le sequenze sia dinamiche che più pacate del film, e ben ci riesce. Decisa è anche l'impronta lasciata da “The Beginning”, il tema principale cantato dalla band in ascesa One OK Rock: si tratta di una scelta davvero intelligente ed azzeccata in quanto il mix di lingua inglese e giapponese tipico di questo gruppo rock si pone qui come un evocativo ponte tra due mondi, ben rispecchiando la rappresentazione di un’epoca letteralmente spaccata a metà tra un passato di tradizioni e un futuro di stampo occidentale perlopiù americano.
Tra le altre cose, anche l'accostamento di una band giovane e moderna a un titolo come Rurouni Kenshin conferma di nuovo quanta freschezza ci sia ancora in un'opera che ha già superato i vent'anni di vita, ma non sente nemmeno un acciacco.
Grazie poi ad un buon bilanciamento tra scene narrative e momenti d'azione ad alto tasso di incrocio di lame, il risultato è di ottimo equilibrio per un prodotto confezionato con un intento evidente e una cura minuziosa, tale da soddisfare le esigenze di svariate tipologie di pubblico e compiacere su più livelli, ma non senza un'adeguata consistenza di fondo.
Non a caso, a distanza di breve tempo dal suo rilascio, il primo film ha preannunciato non un solo seguito, bensì due titoli gemelli incentrati sull'amatissima saga di Kyoto, usciti al cinema a fine estate 2014 e sostenuti da una campagna mediatica a dir poco colossale con cui Warner Bros ha coperto l'intera Asia. I risultati al botteghino, poi, non si sono fatti attendere.
Peccato che Rurouni Kenshin duri solo un paio di orette. Averne più spesso, di film così.
Il progetto live-action è rientrato invece in quello più ampio dei festeggiamenti per il quindicennale dalla serie animata, che al di là di questo film stand-alone del 2012 ha ricompreso, tra le altre cose, una serie di OVA sul capitolo di Kyoto e un breve remake del manga denominato Cinema Version.
L’opera originale di Nobuhiro Watsuki è nient'altro che la rielaborazione in chiave shounen dei tragici avvenimenti storici che condussero il Giappone alla Restaurazione Meiji prima, e alla trasmigrazione nell'Era Moderna poi: forzata, rapida e non priva di strascichi.
E' certo una rilettura avventurosa, indirizzata idealmente più a un target di lettori adolescenti, piuttosto che ad un pubblico più maturo; per questo, e per quella componente di violenza propria dei fatti accaduti, Rurouni Kenshin non dovrebbe rientrare, a rigor di logica, tra le storie che più ritrovo consone ai miei gusti. Eppure essa è, al tempo stesso, la storia della coscienza di un uomo, con alle spalle un percorso di vita travagliato ma al tempo stesso affascinante e romantico.
A fronte della notizia dell'imminente live action tratto dal manga di Watsuki, pubblicato in Italia per Star Comics, serbavo diversi timori. Trasformare un manga in un lungometraggio, tanto più dal vivo, è spesso e volentieri un'operazione che genera più mormorii di scontento che soddisfazione, sia tra i fan che tra i semplici appassionati del genere: significa necessariamente introdurre dei cambiamenti, intervenire su qualcosa che difficilmente si ritiene migliorabile, e non perché l'opera rasenti la perfezione, quanto piuttosto perché apprezzata così com'era stata pensata originariamente.
Rurouni Kenshin offre tuttavia degli elementi che si prestano con facilità allo scopo: un'appassionata storia di 'cappa e spada' al limite della tragedia, uno sfondo storico affascinante, personaggi il cui carisma non risente dello scorrere del tempo.
L'intreccio originale di Watsuki è stato certamente rielaborato: non troppo, ma nemmeno troppo poco. Eppure per quanto sia assente lo straordinario arco degli Oniwabanshu, la storia narrata di per sé non ne soffre in maniera eccessiva. Le vicende dei primi quattro volumi del manga vengono così ben riassunte in un incastro ex novo, il cui sviluppo non risulta essere affrettato né incoerente, né lascia la percezione che troppi elementi siano stati abbandonati per strada.
La sceneggiatura è riuscita nell'intento di includere nell'intreccio tutto ciò che era necessario inserire, e mai s'insinua la sensazione che 'manchi qualcosa' o, peggio, di incoerenti buchi narrativi. Tutto si colloca, tutto trova il proprio spazio.
Apprezzabile è anche l'inserimento silenzioso di brevi comparse di personaggi comprimari, forse invisibili ad un pubblico neofita, ma che i fan della serie riconoscono a colpo d'occhio.
La figura di Kenshin Himura è impeccabile: Takeru Sato non ha dovuto faticare alcunché per restituire allo spadaccino i suoi delicati lineamenti, ed è inoltre riuscito con abilità a renderne tangibili le varie sfumature espressive, sia nel viso che nella voce, alternando il gentile ‘rurouni’ vagabondo al freddo assassino dalla voce roca, gelida e irriconoscibile.
L'indecifrabile uomo diviso tra il passato, il presente e il suo conflitto interiore è dotato, per stessa ammissione di Watsuki, di una bellezza neutra, non esattamente femminea, che si estende fino a travalicare i sessi. A ben vedere infatti Sato conserva della ruvidezza nei tratti, ed è molto apprezzabile quanto della sua stessa statura ed esile corporatura trasmigri in Kenshin. E, di nuovo, anche quest'aspetto sembra quasi paradossale, perché non c'è scena di spada che non lasci a bocca aperta, per così tanta e sottile forza celata in un corpo così minuto.
Teatrali, certamente, gli svariati combattimenti di arti marziali, eppure mai eccessivi, mai danno l'impressione di rasentare l'assurdità agli occhi dello spettatore.
Splendida la resa di Sanosuke e della sua spiccata e ingenua irruenza, parimenti ben fatta quella di Megumi Takani: malgrado le variazioni apportate alla storia, rimane invariato ed evidente il desiderio di questo personaggio di sfuggire al destino che l'ha intrappolato in una vita di indesiderate costrizioni.
Il piccolo Yahiko non risalta più di tanto ma la sua figura ha il pregio di essere tanto semplice quanto immediata; il profilo di Kanryu Takeda viene modificato solo dal punto di vista della rappresentazione fisica, così che non si fatica a coglierne l’animo corrotto in tutte le sue sfumature.
Ed infine Jinne, che spicca tra tutti con una preponderanza che ritengo davvero meritata.
A perderci sono, a mio parere, solo due personaggi: da un lato Kaoru, bella, dolce e materna al punto di aver slavato un ruvido lato tsundere non indifferente nella figura originale di Watsuki. Dall'altro Hajime Saito, in una caratterizzazione forse un po' troppo buonista, affascinante e filo-governativa, a scapito del lugubre tormento interiore di contestatore sociale e di spia, che tanto ha reso quest'uomo uno dei personaggi di Watsuki tra i più amati di sempre.
E poi come non parlare degli accostamenti cromatici, dei dialoghi, dei costumi e della colonna sonora: in questo film niente è lasciato al caso, così che i fruitori dell'opera originale non possono non riconoscere le stesse identiche battute pronunciate nel manga, e magari realizzare anche che le tinte dominanti dell'intero film sono tutti i toni del mattone, del rossiccio, dell'indaco e dell'oltremare, colori che assai più spesso di altri sono associati alle illustrazioni di Kenshin e al suo inconfondibile kimono rosso o blu. La ricostruzione storica del periodo Meiji è piacevole alla vista, in una miscela di vestiario occidentale e orientale che mai come in quell’era particolare vedeva i suoi albori.
Accattivante e malinconico l'accenno, nemmeno troppo velato, al segreto legato alla cicatrice a forma di croce; altrettanto calzante il nastro blu che Kaoru indossa in chiusura, forse rimando al celebre capitolo del manga, e l'uso di alcuni termini giapponesi desueti, onorifici o meno, legati al gergo un po' rude della casta dei samurai.
La colonna sonora strumentale, di altrettanto chiaro stampo nipponico classico, si propone di accogliere con eleganza l'azione, il ritmo e le sequenze sia dinamiche che più pacate del film, e ben ci riesce. Decisa è anche l'impronta lasciata da “The Beginning”, il tema principale cantato dalla band in ascesa One OK Rock: si tratta di una scelta davvero intelligente ed azzeccata in quanto il mix di lingua inglese e giapponese tipico di questo gruppo rock si pone qui come un evocativo ponte tra due mondi, ben rispecchiando la rappresentazione di un’epoca letteralmente spaccata a metà tra un passato di tradizioni e un futuro di stampo occidentale perlopiù americano.
Tra le altre cose, anche l'accostamento di una band giovane e moderna a un titolo come Rurouni Kenshin conferma di nuovo quanta freschezza ci sia ancora in un'opera che ha già superato i vent'anni di vita, ma non sente nemmeno un acciacco.
Grazie poi ad un buon bilanciamento tra scene narrative e momenti d'azione ad alto tasso di incrocio di lame, il risultato è di ottimo equilibrio per un prodotto confezionato con un intento evidente e una cura minuziosa, tale da soddisfare le esigenze di svariate tipologie di pubblico e compiacere su più livelli, ma non senza un'adeguata consistenza di fondo.
Non a caso, a distanza di breve tempo dal suo rilascio, il primo film ha preannunciato non un solo seguito, bensì due titoli gemelli incentrati sull'amatissima saga di Kyoto, usciti al cinema a fine estate 2014 e sostenuti da una campagna mediatica a dir poco colossale con cui Warner Bros ha coperto l'intera Asia. I risultati al botteghino, poi, non si sono fatti attendere.
Peccato che Rurouni Kenshin duri solo un paio di orette. Averne più spesso, di film così.