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Attenzione: la recensione contiene spoiler

“The Day I Became a God” è un anime ideato da Jun Maeda, noto per aver lavorato a svariate altre opere, come “Charlotte”, “Angel Beats!” e “Clannad”.
Non mi dilungo inutilmente in futili premesse, in quanto potete trovare un qualsiasi riassunto cercandolo su Internet, e passo subito alla recensione.

Beh, da dove iniziare? Se dovessi recensirlo, avendo a disposizione una sola frase, direi che semplicemente “The Day I Became a God” riesce nell’ardua impresa di unire la lentezza di “Clannad” con l’inutilità degli episodi autoconclusivi di “Angel Beats!”
Spacciato durante le campagne promozionali come “L’anime strappalacrime definitivo”, secondo me è stato proprio questo il fardello che l’ha fatto sprofondare inevitabilmente nella mediocrità o, per meglio dire, in un malandato tentativo di cercare di creare un prodotto che toccasse il cuore dello spettatore.

Aforismi a parte, passiamo ai pochi, seppur presenti, punti positivi dell’anime: tutto quello che concerne il comparto grafico (stile artistico, animazioni, character design, etc.) è di una qualità superlativa; mi sono piaciute molto anche le svariate gag sparse nei vari episodi, che vedono principalmente coinvolti Hina e il protagonista/ameba di nome Yota.

Eh, già. Ne ho visti negli anime a bizzeffe di personaggi principali maschili dotati dello stesso carisma di un fermaporta, e, francamente, pensavo di essermici ormai abituato, ma Yota è un caso speciale. Non lo definirei un personaggio mediocre, ma nemmeno un personaggio orribile: non ha carisma, è abbastanza ingenuo, alterna comportamenti normali con quelli da bambino quindicenne, soprattutto verso gli episodi finali, dove sembra quasi che la sua età mentale si dimezzi episodio dopo episodio.

Non che gli altri personaggi siano da Oscar, chiariamoci. Abbiamo la bella ma apatica amica d’infanzia/crush del protagonista, la “sorella” timidissima che con la sua passione per i video riesce a proporci scene che raggiungono picchi di cringe devastanti, l’amico del cuore di Yota, unico personaggio secondario di spessore salvabile, la manager di cui non mi ricordo nemmeno il nome e che non ho voglia di cercarlo su Internet, talmente tanta è la simpatia che mi ha suscitato, per non parlare dei mafiosi che diventano buoni di colpo, etc.

Ma adesso arriva il piatto forte: la storia. Anzi, il tentativo di imbastire una serie di eventi tra loro connessi che dovrebbe prendere il nome di storia.

“The Day I Became a God” parte con una premessa abbastanza peculiare, ovvero la comparsa dell’autoproclamata dea-loli Hina, che, effettivamente, sembra anche avere dei poteri, in quanto riesce a prevedere con facilità il risultato delle corse dei cavalli e altri avvenimenti impronosticabili, come, a suo dire, la fine del mondo, che avverrà a tenta giorni dalla sua comparsa. Dopo questo preambolo durato un intero episodio, si vorrà visionare immediatamente gli episodi successivi, che saranno di certo interessanti, e non pieni di episodi autoconclusivi dalla dubbia utilità, durante i quali l’autore cercherà in tutti i modi di farci affezionare ai vari personaggi, cercando di metterli in situazioni abbastanza fuori dal comune...

Ah, no?

Francamente, io mi aspettavo una prosecuzione della storia ben ponderata, e non delle briciole messe qua e là per poi imbottirci di informazioni negli ultimi tre-quattro episodi, nel tentativo di rattoppare i buchi di trama creati durante gli episodi precedenti (vedi la mancata spiegazione della preveggenza di Hina, coff coff).

Parliamoci chiaro: ai fini della trama, che senso ha l’episodio del ristorante di ramen? Che senso ha quello del mahjong? E le riprese?
Per carità, possono anche far proseguire, seppur lentamente, la storia, ma sono episodi troppo privi di mordente, per seguirli senza annoiarsi.
Si sa che l’episodio del festival coi fuochi d’artificio è un must have per uno slice of life, ma, francamente, l’unico di questi che ritengo salvabile è quello che parlava della madre dell’amica d’infanzia di Youta.

Arriviamo così verso la fine di vari episodi (attorno al 6/7, se non erro), dove fa l’apparizione il personaggio che ho volontariamente omesso in precedenza, quello ritenuto dal sottoscritto come l'individuo meglio ben fatto e strutturato della serie: l’hacker.

Ragazzo genio ma orfano, bullizzato dagli adulti per tutta la sua vita (oh my god, che originalità), viene ingaggiato da questa associazione sconosciuta, la DIGOS Giapponese probabilmente, per cercare di rintracciare un dottore e ricercatore in una materia così complicata da farmi girare la testa al solo nominarla. Dopo vari episodi in cui pedina, stalkera e ricatta gente in qualche modo collegata con questo dottore, si scopre che esso ha una nipote, ovvero Hina. Quasi in contemporanea Yota scopre che la ragazza in realtà sarebbe affetta da una malattia incurabile, la sindrome di Logos, una SLA meno devastante in pratica, e che non dovrebbe nemmeno riuscire a camminare; nonostante tutto l’abbiamo sempre vista arzilla e scattante nel corso dei vari episodi.

Segnatevi questo punto e allacciatevi le cinture, gente: da qui in poi stiamo per iniziare un viaggio fatto di avvenimenti nonsense, generato principalmente dai comportamenti bambineschi e stupefacenti del vario cast di personaggi di questa serie.

L’hacker, rendendosi evidentemente conto di essere un personaggio quasi passabile, inizia a dare il meglio di sé: quando scopre che nel cervello di Hina c’è un processore potentissimo, in grado di contrastare la sindrome di Logos, di prevedere il futuro e, addirittura, di non far ‘crashare’ AutoCad quando si mette la linea tratteggiata, fa letteralmente di tutto per rintracciare la ragazza, ricorrendo a metodi più o meno convenzionali, grazie anche all'aiuto del “gorilla” della Digos che si porta dietro. Una volta rintracciata la sua posizione, si accorge che “sorprendentemente” quelli della Digos non vogliono portare Hina al quartier generale per fare un selfie con lei, ma vogliono staccarle dalla testa il processore tramite asportazione chirurgica.

In una scena abbastanza irreale, il nostro genio del computer tenta di porre rimedio alla situazione con un messaggio telepatico del tipo: “Oh, Hina, guarda che ti stanno votando, eri ‘kinda sus’ e potresti essere l’impostore, ciaooo”, senza successo. Hina viene così rapita.

Mangiato dai sensi di colpa per aver fatto l’irreparabile, l’hacker continua imperterrito a fare vaccate, rendendosi protagonista dell'episodio più inutile e prolisso della storia degli anime: in esso si fa amico Yota e i suoi amici, e tenta di fare tutte le stesse cose che avevano fatto con Hina durante l’estate. Lo scopo? Fargli capire che lui conosceva dov’era rinchiusa Hina, perché “non poteva dirglielo nominandola direttamente, a causa dei piani alti della Digos”. Nonostante questo gli amiconi di Hina non si raccapezzano, e costringono così il mago del computer a tirare a Yota & Co. un assist pauroso, per fargli capire le sue reali intenzioni.
Conscio anche lui che l'episodio sta per finire, Yota riesce finalmente a smascherare l'hacker, il quale, dopo il fatto, inizia a parlare di Hina come se niente fosse, mandando in frantumi la patetica scusa inventata dall'autore e, anzi, conduce personalmente il protagonista (sotto falsa identità) nel luogo in cui è ricoverata Hina, facendosi accompagnare da nientedimeno che il gorilla della Digos. Geniale.
L’hacker in soli due episodi è riuscito ad asfaltare completamente tutti gli altri personaggi con la sua mediocrità e incoerenza.

Un’altra puntata bella che sprecata, insomma: come se già dodici episodi fossero troppi, eh.

Nelle ultime puntate possiamo assistere a Yota che, ricordiamolo, sotto copertura, riesce a diventare ancora più ebete di quanto già non fosse, sfoderando un autocontrollo degno di Germano Mosconi; abbiamo Hina che grazie alla sola forza di volontà sconfigge la malattia e smette di essere semi-paraplegica, il video amatoriale (non pensate male, eh) montato dalla sorella di Yota, che è così cringe da farci guardare costantemente dietro le nostre spalle per tutta la sua durata, per paura di essere visti da qualche parente, che, giustamente, potrebbe domandarsi cosa diavolo stiamo guardando.

Che altro dire?

Ho dato 5,5 per il semplice fatto che questo aborto aveva la pretesa di essere un'opera strappalacrime di tutto rispetto, ma, in fondo, lo si riesce a vedere quasi in scioltezza.
Grazie alle gag di Hina (unico personaggio salvabile) che tengono in piedi tutta la baracca, assieme al reparto grafico, il voto non sprofonda ulteriormente più di quanto dovrebbe.