Recensione
Perfect Blue
7.5/10
Recensione di Shiryu of Dragon
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Il primo film diretto da Satoshi Kon è uscito nel 1997, ma ha raggiunto le sale italiane solo nel 2024. Sicuramente il prodotto merita di essere proiettato al cinema, perché la sua dignità è assolutamente pari a quella di un film d'autore con personaggi in carne ed ossa, né più né meno. Per il Giappone, negli anni '90, i cartoni animati erano già da molto tempo un mezzo espressivo per poter raccontare qualunque tipo di storia, il problema è che stenta a capirlo l'Occidente. Tendenzialmente, si fa confusione tra il medium e il genere. Nelle società occidentali si pensa al cartoon come a un prodotto per l'infanzia a prescindere, ma su quel fronte la situazione è migliorata. Del resto, il nostro cinema ha presentato questo film come un'opera vietata ai minori di quattordici anni. Diversi anni prima il regista puntualizzò, giustamente, che non lo riteneva adatto nemmeno a uno studente delle scuole superiori.
Il film trae l'idea di partenza dall'omonimo romanzo di Yoshikazu Takeuchi, tuttavia vive come opera a sé stante e non è una trasposizione del libro. Mima Kirigoe è una idol e fa parte di un trio di cantanti j-pop: le Cham. Decide di dare una svolta alla sua carriera lasciando quel mondo, e divenendo attrice.
Avevo sentito parlare di questo film ancor prima di vederlo, e Satoshi Kon mi è stato venduto come un registra che mette in atto aspre critiche contro la società giapponese. Ovviamente questa recensione si concentrerà su "Perfect Blue" e non prenderà in esame il resto dei suoi lavori.
Devo dire che se l'intento di questo film fosse veramente stato quello di criticare le contraddizioni della società giapponese, in questa sede avrei detto che si tratta di un film riuscito a metà, ma non è così. È assolutamente vero che Kon ha definito la sua società (totalmente a ragione, tra l'altro) come inerte e stagnante, ma in "Perfect Blue" il suo obiettivo non è la critica sociale, bensì le sfide che Mima si trova a dover affrontare per poter evolvere come artista. Direi che il regista qui mette in atto quella che potremmo definire una critica solo in parte, e solo di striscio. Kon si è definito un artista che sta al di fuori del mainstream, e aveva pienamente ragione a dirlo, ma non per questo si è espresso contro il mainstream. Quel che vuol fare con quest'opera è portare in evidenza un problema dello show business: il divario tra l'immagine idealizzata che i fan si fanno del loro idolo, contro l'immagine che quell'idolo ha di sé stesso. Emblematico il momento in cui, in una delle scene iniziali del film, Mima vede arrivare un fax col messaggio "traditrice" a ripetizione. Nonostante lei abbia deciso di intraprendere l'arte della recitazione, i fanatici la vedono ancora come la pop idol Mima, e la sua lotta consiste nel liberarsi di quell'immagine. Aver costruito un thriller psicologico su questa base non è da tutti. Il regista ha combinato una serie di idee non originali, riuscendo a creare qualcosa che per l'epoca era effettivamente di una certa originalità. Il film dura ottanta minuti, ma per me la parte più interessante inizia dopo la prima mezz'ora di visione. Quel che mi piace in particolar modo è come Kon ha saputo addentrarsi nella tematica senza mezzi termini, il modo in cui ha rappresentato gli shock e i conflitti interiori di Mima; mi piace come ha saputo intrecciare tematicamente i momenti di recitazione, le ambientazioni e le musiche con le vicende centrali del film, e come ha raffigurato l'angoscia di Mima nel tentare di districarsi dal peso di un'immagine non sua. Per superare determinate prove, la protagonista uccide una parte di sé. Ed è quello che in un certo senso facciamo tutti, crescendo: alcune parti della nostra personalità muoiono, oppure perdiamo qualcosa. In alcuni casi il cambiamento e la separazione possono essere molto traumatici, e tante volte possiamo trovarci in situazioni tali d'aver bisogno di uno sfogo, o di un pianto liberatorio.
Kon entra ed esce dalla mente di Mima senza che lo spettatore se ne accorga, andando a creare volutamente confusione tra sogno e realtà. Anche quest'idea era già stata utilizzata in precedenza (vivere un sogno dentro un altro sogno, per esempio, è qualcosa che aveva già pensato Mamoru Oshii molti anni prima), il regista però l'ha declinata e sviluppata a modo suo. Quello che non mi convince di questo film, creativamente parlando, è lasciare appositamente allo spettatore ampia libertà d'interpretazione su molti dei suoi aspetti, con un linguaggio volutamente indecifrabile. Per me l'artista deve prendere posizioni sul piano dell'espressione, altrimenti quel che crea diventa un puro esercizio di stile. Diventa forma senza sostanza, puro esperimento tecnico sul quale non si può dire molto. Il problema è che dare mille possibilità d'interpretazione alla tua storia equivale a darne zero. Per poter scrivere di questo film ho avuto bisogno di ascoltare e leggere le parole del suo autore - per poi scoprire che, a grandi linee, la mia interpretazione coincideva con quella di Kon. Ma non l'avessi fatto, vari elementi d'interpretazione non li avrei mai colti. Mi sembra che in certi momenti il film sia criptico per il solo gusto di esserlo. Fortunatamente Kon non ha fatto questo per l'intera durata del film, infatti il tema principale dell'opera resta lampante e in generale si evince facilmente cosa si vuol raccontare. Ovviamente non racconterò il finale, ma devo dire che si tratta di un finale molto poco interessante (seppur tematicamente coerente), considerato tutto quello che il film aveva costruito prima.
Vediamo gli aspetti tecnici. Il character design è figlio della sua epoca: gli anni '90. In qualche inquadratura ci sono dei disegni (e dei colori) veramente ben fatti, ma nella media non mi piace particolarmente, lo trovo abbastanza insipido e impersonale. Gli elementi grafici migliori sono i fondali dettagliati dalle tinte pastello, assolutamente splendidi. Le animazioni sono buone, anche se lo studio Ghibli dell'epoca faceva già di meglio. E i lavori successivi dello stesso Satoshi Kon presentano animazioni superiori. Il punto più alto di questo film sono quelle musiche che Masahiro Ikumi ha scritto su misura per le scene più cupe, e di maggior tensione. Qui c'è un utilizzo dell'elettronica minuzioso e ricercato; un lavoro impeccabile sia se prendiamo la colonna sonora come un'opera a sé stante sia se la contestualizziamo al film. All'elettronica si aggiunge un pianoforte che con poche semplici note amplifica per mille volte gli stati d'animo di Mima. Le musiche strumentali sono un vero gioiello, un valore aggiunto al film.
In definitiva, questo è un bel film? Assolutamente sì, lo consiglio a chi ne è curioso e può reggerne la crudezza. È un'opera che merita attenzione, e offre qualche spunto di riflessione interessante su quello che è il mondo degli artisti nell'epoca contemporanea. È un film clamoroso e sconvolgente? No, per quelle che sono state le mie impressioni e la mia percezione ha dei punti deboli abbastanza vistosi, anche se non troppo gravi.
Il film trae l'idea di partenza dall'omonimo romanzo di Yoshikazu Takeuchi, tuttavia vive come opera a sé stante e non è una trasposizione del libro. Mima Kirigoe è una idol e fa parte di un trio di cantanti j-pop: le Cham. Decide di dare una svolta alla sua carriera lasciando quel mondo, e divenendo attrice.
Avevo sentito parlare di questo film ancor prima di vederlo, e Satoshi Kon mi è stato venduto come un registra che mette in atto aspre critiche contro la società giapponese. Ovviamente questa recensione si concentrerà su "Perfect Blue" e non prenderà in esame il resto dei suoi lavori.
Devo dire che se l'intento di questo film fosse veramente stato quello di criticare le contraddizioni della società giapponese, in questa sede avrei detto che si tratta di un film riuscito a metà, ma non è così. È assolutamente vero che Kon ha definito la sua società (totalmente a ragione, tra l'altro) come inerte e stagnante, ma in "Perfect Blue" il suo obiettivo non è la critica sociale, bensì le sfide che Mima si trova a dover affrontare per poter evolvere come artista. Direi che il regista qui mette in atto quella che potremmo definire una critica solo in parte, e solo di striscio. Kon si è definito un artista che sta al di fuori del mainstream, e aveva pienamente ragione a dirlo, ma non per questo si è espresso contro il mainstream. Quel che vuol fare con quest'opera è portare in evidenza un problema dello show business: il divario tra l'immagine idealizzata che i fan si fanno del loro idolo, contro l'immagine che quell'idolo ha di sé stesso. Emblematico il momento in cui, in una delle scene iniziali del film, Mima vede arrivare un fax col messaggio "traditrice" a ripetizione. Nonostante lei abbia deciso di intraprendere l'arte della recitazione, i fanatici la vedono ancora come la pop idol Mima, e la sua lotta consiste nel liberarsi di quell'immagine. Aver costruito un thriller psicologico su questa base non è da tutti. Il regista ha combinato una serie di idee non originali, riuscendo a creare qualcosa che per l'epoca era effettivamente di una certa originalità. Il film dura ottanta minuti, ma per me la parte più interessante inizia dopo la prima mezz'ora di visione. Quel che mi piace in particolar modo è come Kon ha saputo addentrarsi nella tematica senza mezzi termini, il modo in cui ha rappresentato gli shock e i conflitti interiori di Mima; mi piace come ha saputo intrecciare tematicamente i momenti di recitazione, le ambientazioni e le musiche con le vicende centrali del film, e come ha raffigurato l'angoscia di Mima nel tentare di districarsi dal peso di un'immagine non sua. Per superare determinate prove, la protagonista uccide una parte di sé. Ed è quello che in un certo senso facciamo tutti, crescendo: alcune parti della nostra personalità muoiono, oppure perdiamo qualcosa. In alcuni casi il cambiamento e la separazione possono essere molto traumatici, e tante volte possiamo trovarci in situazioni tali d'aver bisogno di uno sfogo, o di un pianto liberatorio.
Kon entra ed esce dalla mente di Mima senza che lo spettatore se ne accorga, andando a creare volutamente confusione tra sogno e realtà. Anche quest'idea era già stata utilizzata in precedenza (vivere un sogno dentro un altro sogno, per esempio, è qualcosa che aveva già pensato Mamoru Oshii molti anni prima), il regista però l'ha declinata e sviluppata a modo suo. Quello che non mi convince di questo film, creativamente parlando, è lasciare appositamente allo spettatore ampia libertà d'interpretazione su molti dei suoi aspetti, con un linguaggio volutamente indecifrabile. Per me l'artista deve prendere posizioni sul piano dell'espressione, altrimenti quel che crea diventa un puro esercizio di stile. Diventa forma senza sostanza, puro esperimento tecnico sul quale non si può dire molto. Il problema è che dare mille possibilità d'interpretazione alla tua storia equivale a darne zero. Per poter scrivere di questo film ho avuto bisogno di ascoltare e leggere le parole del suo autore - per poi scoprire che, a grandi linee, la mia interpretazione coincideva con quella di Kon. Ma non l'avessi fatto, vari elementi d'interpretazione non li avrei mai colti. Mi sembra che in certi momenti il film sia criptico per il solo gusto di esserlo. Fortunatamente Kon non ha fatto questo per l'intera durata del film, infatti il tema principale dell'opera resta lampante e in generale si evince facilmente cosa si vuol raccontare. Ovviamente non racconterò il finale, ma devo dire che si tratta di un finale molto poco interessante (seppur tematicamente coerente), considerato tutto quello che il film aveva costruito prima.
Vediamo gli aspetti tecnici. Il character design è figlio della sua epoca: gli anni '90. In qualche inquadratura ci sono dei disegni (e dei colori) veramente ben fatti, ma nella media non mi piace particolarmente, lo trovo abbastanza insipido e impersonale. Gli elementi grafici migliori sono i fondali dettagliati dalle tinte pastello, assolutamente splendidi. Le animazioni sono buone, anche se lo studio Ghibli dell'epoca faceva già di meglio. E i lavori successivi dello stesso Satoshi Kon presentano animazioni superiori. Il punto più alto di questo film sono quelle musiche che Masahiro Ikumi ha scritto su misura per le scene più cupe, e di maggior tensione. Qui c'è un utilizzo dell'elettronica minuzioso e ricercato; un lavoro impeccabile sia se prendiamo la colonna sonora come un'opera a sé stante sia se la contestualizziamo al film. All'elettronica si aggiunge un pianoforte che con poche semplici note amplifica per mille volte gli stati d'animo di Mima. Le musiche strumentali sono un vero gioiello, un valore aggiunto al film.
In definitiva, questo è un bel film? Assolutamente sì, lo consiglio a chi ne è curioso e può reggerne la crudezza. È un'opera che merita attenzione, e offre qualche spunto di riflessione interessante su quello che è il mondo degli artisti nell'epoca contemporanea. È un film clamoroso e sconvolgente? No, per quelle che sono state le mie impressioni e la mia percezione ha dei punti deboli abbastanza vistosi, anche se non troppo gravi.