Recensione
Paranoia Agent
9.0/10
L’unica serie creata e diretta da Satoshi Kon e finora la prima sua opera visionata dalla sottoscritta. Solo queste premesse dovrebbero invogliare chi ha visto almeno uno dei suoi capolavori a dare un’opportunità a questa sfida ben più impegnativa (sfruttare ben 13 episodi per narrare un’unica storia non dev’essere stata un’impresa semplice); che il risultato sia l’ennesimo “must” nel panorama dell’animazione giapponese, lascio valutare a utenti ben più informati e “assuefatti” dall’impronta del regista di me.
Probabilmente è stato un bene, sempre per chi scrive, cominciare la visione di questa serie senza sapere niente del suo regista, se non la fama che porta dietro il suo nome. L’opening, ad esempio, mi ha subito spiazzato come è giusto che sia, palesandomi quella verità appena suggerita dal titolo: no, non mi accingevo a guardare un anime evasivo e confortante, questo avrebbe parlato del Giappone odierno, di quanto sia alienante e deprimente viverci senza superpoteri o particolari doti. Lo ripeto a chiunque debba ancora vederlo perché è un concetto importante, “Paranoia Agent” non è un anime di evasione o di intrattenimento, non lo vuole essere e non è nella sua morale esserlo, parla della realtà nuda e cruda, spoglia, viola e stupra i suoi protagonisti come gli hentai più spinti non potranno mai fare, ogni loro vile segreto e squallida giustificazione ci viene sbattuto in faccia e lo spettatore deve scegliere di ogni singolo caso se nutrirne compassione o disprezzo.
Allo sfondo, sì, sta la vicenda del ragazzino che va in giro a picchiare la gente, Shonen Bat, ma a dire la verità la parte thriller della risoluzione del caso non mi ha appassionato o convinto più di tanto. “Paranoia Agent” va visionato per avere un quadro, ora sarcastico ora ironico, ora spregiudicato e ora sadico, della società giapponese, o meglio, di quelle due prigioni da macello di vite umane chiamate “famiglia” e “lavoro” entro le quali i soggetti presi ad esame ad ogni episodio sono forzatamente inseriti e dalle quali cercano invano di evadere con il potere della loro psiche. Toglierei, dunque, per non deludere i fan dei gialli d’autore, al titolo la definizione di “thriller psicologico” per lasciare lo “psicologico”, meglio ancora lo “psicopatologico”.
Parlando di meri dati tecnici, la serie è discretamente realizzata, ho apprezzato soprattutto il ruolo “caricaturale” svolto insieme dal character design (che imita quello del Kon cinematografico) e dall’animazione, e una bella visionarietà nella regia che ben mostra i caratteri più evidenti della schizofrenia. Le musiche fanno il loro mestiere, accompagnano senza pretese lo svolgersi delle scene più importanti. La qualità complessiva si mantiene alta per la maggior parte dei pochi episodi, con un lieve calo per quelli centrali. Ottimo il doppiaggio italiano, per una volta rispettoso dell’originale.
Scevra da qualsiasi condizionamento, non posso dare alla serie la connotazione abusata da “capolavoro” ma un bel 9 sì, come tutte le altre opere che non si fanno guardare per spegnere il cervello ma per svegliarlo, per porgli degli interrogativi a cui faticosamente, forse, troverà risposta.
In questa società globalizzata (sì, questa è un’opera globale - quante volte pur’io mi sono chiesta se stessi veramente vedendo un cartone animato giapponese!) dove il singolo viene annichilito nella massa per diventare insieme produttore e consumatore, cosa può salvare la propria integrità e la propria sanità mentale? Delle fantasie personali, delle maschere, degli spettri all’occorrenza terrificanti o accomodanti, che facciano perdere anche per un poco il contatto con la realtà? Una donna malata di cuore, un poliziotto “d’altri tempi” e un mite difensore della giustizia vi forniranno una soluzione, ma non è l’unica, e non sarà la definitiva.
Probabilmente è stato un bene, sempre per chi scrive, cominciare la visione di questa serie senza sapere niente del suo regista, se non la fama che porta dietro il suo nome. L’opening, ad esempio, mi ha subito spiazzato come è giusto che sia, palesandomi quella verità appena suggerita dal titolo: no, non mi accingevo a guardare un anime evasivo e confortante, questo avrebbe parlato del Giappone odierno, di quanto sia alienante e deprimente viverci senza superpoteri o particolari doti. Lo ripeto a chiunque debba ancora vederlo perché è un concetto importante, “Paranoia Agent” non è un anime di evasione o di intrattenimento, non lo vuole essere e non è nella sua morale esserlo, parla della realtà nuda e cruda, spoglia, viola e stupra i suoi protagonisti come gli hentai più spinti non potranno mai fare, ogni loro vile segreto e squallida giustificazione ci viene sbattuto in faccia e lo spettatore deve scegliere di ogni singolo caso se nutrirne compassione o disprezzo.
Allo sfondo, sì, sta la vicenda del ragazzino che va in giro a picchiare la gente, Shonen Bat, ma a dire la verità la parte thriller della risoluzione del caso non mi ha appassionato o convinto più di tanto. “Paranoia Agent” va visionato per avere un quadro, ora sarcastico ora ironico, ora spregiudicato e ora sadico, della società giapponese, o meglio, di quelle due prigioni da macello di vite umane chiamate “famiglia” e “lavoro” entro le quali i soggetti presi ad esame ad ogni episodio sono forzatamente inseriti e dalle quali cercano invano di evadere con il potere della loro psiche. Toglierei, dunque, per non deludere i fan dei gialli d’autore, al titolo la definizione di “thriller psicologico” per lasciare lo “psicologico”, meglio ancora lo “psicopatologico”.
Parlando di meri dati tecnici, la serie è discretamente realizzata, ho apprezzato soprattutto il ruolo “caricaturale” svolto insieme dal character design (che imita quello del Kon cinematografico) e dall’animazione, e una bella visionarietà nella regia che ben mostra i caratteri più evidenti della schizofrenia. Le musiche fanno il loro mestiere, accompagnano senza pretese lo svolgersi delle scene più importanti. La qualità complessiva si mantiene alta per la maggior parte dei pochi episodi, con un lieve calo per quelli centrali. Ottimo il doppiaggio italiano, per una volta rispettoso dell’originale.
Scevra da qualsiasi condizionamento, non posso dare alla serie la connotazione abusata da “capolavoro” ma un bel 9 sì, come tutte le altre opere che non si fanno guardare per spegnere il cervello ma per svegliarlo, per porgli degli interrogativi a cui faticosamente, forse, troverà risposta.
In questa società globalizzata (sì, questa è un’opera globale - quante volte pur’io mi sono chiesta se stessi veramente vedendo un cartone animato giapponese!) dove il singolo viene annichilito nella massa per diventare insieme produttore e consumatore, cosa può salvare la propria integrità e la propria sanità mentale? Delle fantasie personali, delle maschere, degli spettri all’occorrenza terrificanti o accomodanti, che facciano perdere anche per un poco il contatto con la realtà? Una donna malata di cuore, un poliziotto “d’altri tempi” e un mite difensore della giustizia vi forniranno una soluzione, ma non è l’unica, e non sarà la definitiva.