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8.0/10
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Un'opera nata ben venti anni fa e sopravvissuta alle intemperie editoriali di un mondo, quello nipponico, in forte modificazione a livello di gusti ed andamenti artistici (aver cambiato tre riviste nel corso della propria vita ed esser rimasti ancora sulla cresta dell'onda è, comunque, notevole), "Dorohedoro" spicca non solo per la caparbietà nel sopravvivere, ma anche per la peculiarità.
Seinen di rara fattura, "Dorohedoro" non è altro che la trasposizione di quello che è il suo titolo: dal fango al fango (泥/doro = fango). Fangoso è il modo in cui è stato disegnato (tratti sporchi, senza alcuna perizia, con un inchiostratura talmente pervasiva da rendere lugubre qualsiasi ambientazione), fangoso è il mondo in cui i protagonisti vivono, fangosi sono i personaggi stessi.
Non è una novità il racconto del dissidio tra chi ha determinati poteri e chi non li detiene nella sfera del fantasy e dell'animazione nipponica, ma una strutturazione così argomentata e solida dei maghi e degli umani si era raramente potuta osservare. La bellezza dei primi volumi è proprio nel giramento di testa che proviamo nell'introdurci in questi due mondi distinti, ma paralleli, nei loro abitanti, nelle loro somiglianze (tante) e dissomiglianze. Da una parte queste povere formiche umane adoperate come cavie, dall'altra una sottospecie di monarchia che permette ai maghi di espletare i propri "bisogni" stregoneschi. Il fango è persino nella magia: non un qualcosa che si impara, ma biologicamente insita in questa sottospecie di individui alla fine umani o comunque umanoidi. Generatori di fumo e tubicini/vasi che si interdigitano nel corpo dei maghi. Questa magia, o meglio, questo fumo, altro non è che il fango di cui sono succubi - e fangosa è la sua caratteristica fisica, il come appare. Su questo apparato sporco e nerastro, fuliginoso, Kyuu Hayashida, la creatrice, gioca come farebbe un creatore - o, meglio, come farebbe un demone. "Dorohedoro" è ricco di spunti comici e di intromissioni, appunto, demoniache, che come un terzo mondo parallelo, o piuttosto come una sottospecie di intermundia, riduce lo stress del dover essere costantemente immersi nel nero e nella pece. La cosmologia demoniaca di "Dorohedoro", che riprende motivi cristiani, ma anche shintoisti, è un collante fondamentale e contribuisce concettualmente a quello che è il punto di base del manga e il fondamento di tutte le sue storie ed anche delle relative magagne: l'ambizione. I mondi di "Dorohedoro" non sono statici e la "mobilità sociale" è la norma. Così come i maghi agognano di divenire, almeno temporalmente, demoni, così gli umani agognano di divenire maghi.
Queste passioni oscure, mescolate a una storia di vendetta quasi ontologica e millenaria, creano Dorohedoro ed il suo fango. Peccato davvero che nel corso degli anni ed in particolare dal 17° volume in avanti l'Autrice dà adito, tramite un falso comunicato di chiusura imminente dell'opera, al dubbio che le idee su come concludere tutto ciò siano quantomeno scarse. È stato abbastanza triste constatare che, purtroppo, ciò era abbastanza vero - e confermato dalla stessa Artista in una postfazione finale.

Attenzione: questa parte contiene spoiler
Il problema vero non è tanto nella intricatezza dello strisciante finale, che si trascina per volumi e volumi senza una parvenza di terminazione, quanto nel fatto che nel reale finale del 22° volume ci sia la perdita di tutti quei valori, o non-valori, di cui pareva impregnata la società generale. È inconcepibile che il finale di "Dorohedoro" possa essere il "e vissero tutti e felici e contenti", eppure tale è stato. Il male, mai realmente e manicheisticamente chiaro nella sua ubicazione, si palesa improvvisamente nella creatura da abbattere, creatura non banale - intendiamoci - e vera summa del fango di cui abbiamo accennato prima. Creatura che ha un significato profondo ed "ontologico", specchio di soprusi e violenze; forse significato sociologico, direi. Eppure, che la Autrice abbia dovuto ricorrere ad espedienti di dubbio gusto e molto distanti dallo spirito di un'opera seinen dice molto. Fondamento di "Dorohedoro" è sempre stata la organicità, la fisiologia della magia, di quel fumo prodotto dalla maggioranza di maghi (e dalla minoranza, i cosiddetti "occhi crociati", mondo di mezzo tra umani e stregoni, sorge un'ondata di ressentiment di egregia fattura sociale). Il fumo aveva un effetto ignoto al mago stesso, che era costretto ad adattare la propria vita alle proprie innate e sconosciute capacità. È, pertanto, incredibile come la Hayashida abbia potuto capovolgere questo postulato e dare al protagonista un potere palesemente ex post, quindi modulato a posteriori sul proprio essere. Potrebbe essere una banalità, ma l'idea - di per sé anche parzialmente comica, come il resto dell'opera - è comunque in completo contrasto con lo spirito poco vago e molto pratico di "Dorohedoro".

Questo manga, in sintesi, ospita il massimo della crudezza, della disperazione e del dolore, uniti a protagonisti dalla caratterizzazione fantastica e dalla comicità barbaramente umana. Tutto l'universo di "Dorohedoro" si distingue, dal primo all'ultimo dei personaggi umani, dal primo all'ultimo dei personaggi stregoneschi e dal primo all'ultimo dei personaggi demoniaci. Il mondo è coerente, è immersivo, è sporco e catartizzante. Eppure l'additare "il Male" come nemico improvviso e generale, utilizzare mezzi da shounen - quali un potere improvviso improvvisamente utile al dirimere la matassa - per riportare "il Bene" nel mondo, ossia lo statu quo precedente alle vicende, è stata una mossa di cattivo gusto.

Fine parte contenente spoiler

"Dorohedoro", comunque, rimane un unicum, sia per come nasce che per come muore.

P.S.: nei primi volumi l'Autrice inserisce costanti rimandi alla band "Slipknot". I rimandi spariscono intorno a metà dell'opera. Forse, forse era un preannuncio che avrei dovuto cogliere.