Recensione
Divenuta celebre grazie a “my lesbian experience with loneliness”, Kabi Nagata viene convinta dal suo editore a lavorare a una nuova storia che abbia lei per protagonista. Indecisa sulla trama, Kabi decide di realizzare un diario, memore della sua infanzia, una sorta di raccolta di lettere indirizzate a sé stessa.
Il volume, fin dalle prime pagine, fa intendere come l’intento non sia quello di raggiungere i picchi di fama del suo predecessore, né di far conoscere la propria vita a un pubblico che con lei non ha nulla a che fare (tanto è vero che la stessa Nagata ammette come persino le reazioni del pubblico abbiano influito molto sulla sua salute, influenzandone la vita personale, perpetuandone l’ansia e l’autolesionismo e facendole sentire la stesura del secondo manga come un lavoro e un dovere, più che una necessità di apprezzare la sé stessa che è stata).
“Lettere a me stessa” risulta un volume forse più cupo del precedente, benché ne vengano ripresi alcuni temi, come quello della necessità di una relazione. In questo secondo lavoro, Nagata affronta il rapporto instabile e difficile coi genitori, il bisogno di approvazione della madre, la depressione, il desiderio di ottenere una propria indipendenza e stabilità economica, il senso di inadeguatezza. Il che viene amplificato dal contrasto coi disegni stilizzati e il rosa pastello presente in ogni pagina, che farebbero apparire, se non la si leggesse, la storia come una favoletta.
La scelta di Kabi Nagata di mettersi a nudo, non è fine a sé stessa, ma serve ad analizzare la propria vulnerabilità, per permettere a lei stessa di esaminare la propria inefficienza e la propria insicurezza, fino alla presa di consapevolezza di quanto sia essenziale imparare a prendersi cura di sé.
Il volume è chiaramente un richiamo per tutte quelle persone che, anche nel loro piccolo, hanno avvertito-almeno una volta nella vita- un senso di inadeguatezza, tanto da poter dire “posso capirti, è successo anche a me”.
Inutile dire, quanto l’empatia del lettore giochi un ruolo fondamentale per il giudizio finale del lavoro: se si empatizza anche solo in una piccola percentuale con le sue tristi vicende, diventa quasi difficile continuare la lettura, senza provare un forte senso di magone. Allo stesso modo, diventa facile gioire delle sue prese di coscienza, delle sue piccole vittorie, come se si stesse leggendo la storia intima di una vecchia amica.
Il volume, fin dalle prime pagine, fa intendere come l’intento non sia quello di raggiungere i picchi di fama del suo predecessore, né di far conoscere la propria vita a un pubblico che con lei non ha nulla a che fare (tanto è vero che la stessa Nagata ammette come persino le reazioni del pubblico abbiano influito molto sulla sua salute, influenzandone la vita personale, perpetuandone l’ansia e l’autolesionismo e facendole sentire la stesura del secondo manga come un lavoro e un dovere, più che una necessità di apprezzare la sé stessa che è stata).
“Lettere a me stessa” risulta un volume forse più cupo del precedente, benché ne vengano ripresi alcuni temi, come quello della necessità di una relazione. In questo secondo lavoro, Nagata affronta il rapporto instabile e difficile coi genitori, il bisogno di approvazione della madre, la depressione, il desiderio di ottenere una propria indipendenza e stabilità economica, il senso di inadeguatezza. Il che viene amplificato dal contrasto coi disegni stilizzati e il rosa pastello presente in ogni pagina, che farebbero apparire, se non la si leggesse, la storia come una favoletta.
La scelta di Kabi Nagata di mettersi a nudo, non è fine a sé stessa, ma serve ad analizzare la propria vulnerabilità, per permettere a lei stessa di esaminare la propria inefficienza e la propria insicurezza, fino alla presa di consapevolezza di quanto sia essenziale imparare a prendersi cura di sé.
Il volume è chiaramente un richiamo per tutte quelle persone che, anche nel loro piccolo, hanno avvertito-almeno una volta nella vita- un senso di inadeguatezza, tanto da poter dire “posso capirti, è successo anche a me”.
Inutile dire, quanto l’empatia del lettore giochi un ruolo fondamentale per il giudizio finale del lavoro: se si empatizza anche solo in una piccola percentuale con le sue tristi vicende, diventa quasi difficile continuare la lettura, senza provare un forte senso di magone. Allo stesso modo, diventa facile gioire delle sue prese di coscienza, delle sue piccole vittorie, come se si stesse leggendo la storia intima di una vecchia amica.