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Quando il Far East cerca di strizzare l'occhio all'occidente.

Dopo la visione della serie "The memories of Alhambra", ho avuto la sensazione che si tratti di un'opera che sembra ambire a costituire un esempio di ibridazione di stili/generi per consentire ad un "occidentale" di iniziarsi al peculiare stile dell' Estremo Oriente, cercando di valorizzare i punti in comune presenti nelle due culture, se così le vogliamo definire.

Se proprio dovessi trovare una connotazione più o meno univoca a questa serie, la potrei definire una sorta di "anello di congiunzione" o "ponte" o, più furbescamente, di "cavallo di Troia" di omerica memoria.
Il perché di questa definizione che, in apparenza, potrebbe essere interpretata anche in modo negativo per la sua connotazione "ingannevole", è presto scritto: la trama si fonda sugli intrighi tra due big company coreane per mettere le mani su un gioco RPG (role-playing game) in realtà aumentata, creato da due ragazzi coreani residenti in Spagna che hanno ambientato il gioco nelle strade di Granada.
Due elementi che possono immediatamente mettere a suo agio uno spettatore "occidentale" sono l'oggetto della trama (un gioco di ruolo a realtà aumentata veramente spettacolare), l'ambientazione iniziale della serie (la splendida città andalusa con i suoi vicoli, piazze e la incantevole Alhambra) e, soprattutto, il ritmo (molto più simile agli action-movie hollywoodiani che alle produzioni del Far east, compassate e spesso lente e poco dinamiche).
L'inizio della serie è poco k-drama: azione, mistero, suspence, fantasy, sci-fi, combattimenti virtuali nella realtà in un contesto come quello andaluso, che brilla a livello storico-artistico proprio per il mix di culture che nel tempo si sono susseguite e hanno segnato a loro modo questa terra, decretandone il suo successo per fascino e magia.

Ma cosa ci fanno un manipolo di coreani a Granada?

Ad onor del vero, questo gioco di realtà aumentata poteva tranquillamente essere ambientato in qualsiasi città del mondo, tanto è vero che poi nella seconda parte si ritorna a respirare l'aria di Seoul e dintorni e, solo a sprazzi, quella dell'Andalusia.
Pertanto, la serie inizia con l'ambientazione spagnola e un viaggio in treno in cui un ragazzo sparisce dalla circolazione misteriosamente dopo una rocambolesca fuga da un tizio che lo insegue e che sembra possa essere visto solo da lui.
Il titolo della serie richiama "Recuerdos de l'Alhambra", il brano di chitarra che contraddistingue i momenti più drammatici dei vari episodi: altra chicca che serve a rendere più cosmopolita la serie, utilizzando anche brani musicali famosi e già noti al pubblico occidentale... Dal mio punto di vista non posso che approvare: Granada è una scelta più che mai azzeccata e affascinante, sebbene de l'Alhambra non si vedrà poi molto.
E per questa serie i due protagonisti sono interpretati da due attori affermati: Hyun Bin (piuttosto famoso, da ultimo per "Crush Landing on You") che interpreta il CEO dell'azienda interessata al gioco, e Park Shin-hye ("Stairway to Heaven" e da ultimo "Doctor Slump").

La serie ha tutte le carte in regola per sfondare?

Si tratta di una serie prodotta nel 2018 e trasmessa a cavallo tra il 2018 e il 2019 che non ha avuto grandissimo eco. Di sicuro è avvincente ma, a mio avviso, presenta qualche limite che potrebbe renderla meno convincente all'occhio del pubblico occidentale.
L'inizio, come ho anticipato, è intrigante e misterioso, quasi thriller, e riesce ad alternare momenti drammatici ad altri da commedia, anche con sfumature comiche. Ma nel corso dell'evoluzione della trama, "Memories of the Alhambra" cade continuamente in quello che è un po' il pregio e il difetto di alcune produzioni thriller orientali: il ricorso eccessivo al flashback e al flashforward per spiegare, anche a distanza di episodi, alcuni punti salienti della trama. Lo spettatore potrebbe trovarsi spiazzato dalla visione simile allo scioglimento di un gomitolo di lana aggrovigliato: è un po' impegnativo, e inizialmente rende incomprensibili e forzate alcune scelte di sceneggiatura e registiche. In più, alcuni passaggi sono obiettivamente forzati e poco credibili, in primis, l'apparizione di personaggi che potrebbero morire solo nel gioco ma che muoiono anche nella vita reale... E che poi riappaiono continuamente fino a quando il protagonista non ha raggiunto il livello massimo di esperienza nel videogioco per poterli sconfiggere. Il finale è piuttosto agro-dolce e lascia la classica sensazione di incompiutezza per chi, come noi occidentali, avrebbe sperato nel lieto fine... E invece "Memories of the Alhambra" sembra voler ricordare che in fondo è una serie "orientale".
Di sicuro l'idea del gioco RPG, con scene di combattimenti virtuali in uno scenario reale, è un vero e proprio punto di forza della serie, che alla lunga, tuttavia, sembra quasi ridicolo quando il gioco diffuso su scala planetaria vede orde di giocatori dimenarsi in pubbliche vie e piazze a muoversi in modo insulso a combattere contro avversari visibili solo da chi indossa le lenti a contatto/visori, che consentono l'accesso al gioco e alla visualizzazione dei progressi.
Le scene in cui il protagonista deve trovare le armi virtuali a Granada sono a dir poco esilaranti, poi, soprattutto nel finale, il gioco è sembrato piuttosto ripetitivo e quasi demenziale... Ma tant'è: è un "mortal combat virtuale", e di certo non si poteva pensare a personaggi virtuali che interagissero con quelli reali a livello di dialoghi profondi.

Non manca l'intrigo, almeno inizialmente, e il romance.
Dal primo punto di vista, il live action presenta una serie incredibile (e forzate) di coincidenze di legami passati tra alcuni personaggi. Sul lato romance, posso solo scrivere che è presente ma spesso sullo sfondo (salvo ogni tanto emergere per far svoltare la storia), diventando una sorta di accessorio, e che potrebbe far storcere il naso a coloro che avrebbero voluto una caratterizzazione migliore della parte romantica.
Lato interpretazione: Hyun Bin mi è sembrato adeguato e poliedrico. Passa con naturalezza da scene di azione e da duro a quelle da gigione e mentitore seriale senza difficoltà alcuna. Rende bene la complessità del personaggio interpretato: una sorta di eroe che nel corso degli episodi si redime dal suo passato di manager di successo senza scrupoli.
Non mi ha convinto pienamente Park Shin-hye: ha uno stile molto poco espressivo e dinamico. Non so se sia per esigenze di copione del personaggio interpretato, ma mi ha dato l'impressione di essere un po' troppo ingessata e piatta. I comprimari hanno fatto il loro, riuscendo particolarmente bene nei ruoli degli "zombie" assassini del gioco.

Pertanto posso concludere che la serie, sebbene piuttosto lunga e in alcuni frangenti con tempi "orientali", resta un più che sufficiente esempio di come le produzioni del Far East possano anche incontrare i gusti del mondo occidentale, sfidandolo proprio sul campo degli action-movie e sci-fi in modo avvincente e credibile, mostrando una idea di eroe più sfaccettata e complessa delle piatte produzioni occidentali, specie quelle a stelle e strisce.