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7.0/10
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"Perché l’isola? Perché è il punto dove io mi isolo, dove sono solo: è un punto separato dal resto del mondo, non perché lo sia in realtà, ma perché nel mio stato d’animo posso separarmene" (Giuseppe Ungaretti).

Kim Ki-Duk, con la sua quarta opera da regista, "Seom" ("L'isola") del 2000, mi è sembrato andare oltre i concetti esposti dal nostro sommo poeta, esponente del simbolismo e precursore dell'ermetismo, spostando il tema della solitudine, dell'alienazione e dell'incomunicabilità, e anche dell'odio, su confini più crudi e meno lirici.
Confini che ho percepito come molto suggestivi dal punto di vista della fotografia e delle immagini, più che dei dialoghi, che in questo film sono ridotti al lumicino e non mi sono sembrati particolarmente pregni di significato.

Con "L'isola", Kim Ki-Duk sembra aver consegnato ai posteri la sua "weltanschaaung": di positivo c'è poco o nulla e il regista sembra impegnarsi a fondo per dimostrare la sua tesi nichilista dell'esistenza in cui gli esseri umani non sono in grado di comunicare veramente con la parola, ma solo infierendo su se stessi e sugli altri, dimostrando nella sua reale essenza le interazioni che l'uomo intrattiene con ciò che lo circonda, basata fondamentalmente sulla sopraffazione.

Il pescatore che viviseziona il pesce appena pescato per farne sushi e offrirlo alla sua compagna occasionale, salvo poi rimetterlo in libertà, credo che rappresenti una delle scene cardine (e anche discusse) del film, al pari degli amplessi furiosi e molto simili a veri e propri atti di violenza su persona non consenziente.
Nel film i personaggi sembrano degli automi chiusi in se stessi che danno libero sfogo ai loro istinti non mediati da alcun filtro, o regola, o convenzione: una visione della vita che sembra un incubo e che contrasta con la splendida fotografia dell'ambientazione del film (casette su un placido e ameno laghetto in cui i pescatori si isolano per dedicarsi al loro hobby, trastullandosi tra mangiate in compagnia e rapporti sessuali con compagne occasionali o prostitute).

Tra atti profondamente masochisti e disperati, i due protagonisti aggiungono ulteriore "pepe" al film, non tanto e non solo per la loro storia d'amore, che poi si tramuterà in tragedia, ma soprattutto per l'incapacità di comunicare allo spettatore ciò che quest'ultimo si sarebbe atteso dalla trama romance: se non dolcezza almeno comprensione, intimità, affidamento all'altro, complicità o almeno pietà. Ne "L'isola" non si troverà nulla di tutto ciò: i due protagonisti sono attratti l'uno dall'altra, ma l'unico modo con cui manifestano il loro sentimento (se così lo possiamo definire) è solo l'interazione fisica che si manifesta in amplessi piuttosto rudi in cui i due sembrano usarsi per soddisfare il loro bisogno egoistico, lenire la loro sofferenza (solitudine?) e riuscire a trasmettere all'altro qualcosa che non sia solo dolore, solitudine, inquietudine e il "vuoto" da riempire. Col senno di poi acquisisce un significato un po' macabro, ma anche molto metaforico, il regalo del protagonista maschile (l'altalena fatta di ami) a quella femminile: inizialmente mi aveva illuso di poter assistere a qualcosa di positivo e di catarsi dalla sofferenza, ma poi ho realizzato che non fosse altro che la nemesi dell'amore in un quadro a tinte cupe e senza speranza dell'esistenza.

Gli ami compaiono spesso in questo film, al pari dei pesci (e alla loro similitudine con gli esseri umani): purtroppo gli ami non sono solo utilizzati per pescare ma anche per l'autoinflizione di dolorose ferite da parte dei due protagonisti: un masochismo portato alla massima potenza per comunicare l'indicibile sofferenza del proprio io (il protagonista maschile per il crimine di cui si è macchiato, per la paura e il senso di colpa) o solo per dimostrare il dolore dell'abbandono (la protagonista femminile).
Anche queste scene, piuttosto esplicite, in cui il regista si sofferma sui visi contorti dalla sofferenza e gli sguardi allucinati dei due, sembrano comunicare molto di più di tante urla e richieste di aiuto, possono comunque disturbare lo spettatore più sensibile e meno incline a soffermarsi sul significato sotteso all'immagine rispetto alla loro estrema crudezza.

In fondo Kim Ki-Duk fa capire il suo profondo scetticismo sull'uso della parola e del dialogo, che sono i grandi assenti di questo film. Mi è sembrato che il regista coreano ritenga il dialogo una sorta di scudo o paravento capace di mascherare le vere emozioni, sentimenti che i due protagonisti dovrebbero manifestare. La scena in cui la protagonista utilizza gli ami su se stessa, una volta che realizza di essere stata abbandonata, invece di tanti giri di parole ricche di pathos, utilizza il profondo dolore fisico come forma di esternazione del dolore e del malessere anche esistenziale, come se la ferita dell'anima debba esteriorizzarsi in superficie come ferita fisica del proprio corpo, e così rendere palese la sofferenza.

Un plauso lo riservo all'attrice che ha impersonato la protagonista femminile: il suo viso perennemente corrucciato, l'espressione inquietante e gli sguardi psicotici, esaltati da primi piani alla Sergio Leone che il regista le riserva, mi hanno colpito per la capacità recitativa ed espressiva in assenza di dialoghi. Credo che non fosse facile interpretare il ruolo del gestore del "Lake Hotel" senza sostanzialmente esprimere una parola e basando il tutto solo sulla espressività e la gestualità.

Se da un punto di vista tecnico il film rappresenta un'opera che dimostra una perizia e capacità registiche ragguardevoli, e soprattutto coraggiose, tanto da aver consentito al regista di assurgere a oggetto di attenzione al festival del Cinema di Venezia (e poi di grande successo con le successive opere), penso di andare un po' controcorrente rispetto alla critica cinematografica prevalente, e ritenere che "L'isola" sia ancora un'opera prima un po' "immatura" di Kim Ki-Duk, in cui semina i principali temi che credo siano a lui "cari", ma che poi tratta, o meglio, esterna in modo talmente diretto, e anche un po' forzato e lacerante, tanto da offuscare le stesse tematiche dando prima facie l'idea che il film voglia in primis scioccare lo spettatore.
Ed è un peccato, ma grazie al suggerimento ricevuto da un'amica per la visione di questo film credo che procederò alla scoperta delle altre opere del regista coreano, con la speranza che abbia aggiunto un po' di lirismo al suo nichilismo esasperato.