Il grande sogno di Maya - La maschera di vetro (OAV)
Strano che nessun utente abbia mai approfondito questa superba trilogia di OAV; cosa ancor più strana vista la sua disponibilità in una versione egregiamente doppiata in italiano.
A onor del vero, anch'io ho scoperto per puro caso l'adattamento nostrano, ma tuttavia ero già a conoscenza di questa produzione tramite il libro TMS Super-data-file, e di conseguenza mi ero innamorato di quelle poche foto (e neppure a colori, se non erro) a corredo in quella striminzita paginetta in giapponese stretto.
Sarò sincero, di "Glass no Kamen" possiedo solo qualche fioco ricordo riferito alla serie TV anni '80, la quale non brillava certo nell'affollato e ultracompetitivo universo degli anime: era infatti stata partorita dalla Eiken, la cenerentola degli studios nipponici (la quale non poteva certo schierare nei suoi ranghi mostri sacri del calibro di Akio Sugino o Takuo Noda). Ciò nonostante, la parte più difficile, vale a dire portare su migliaia e migliaia di rodovetri l'elegante e pregiato tratto della sua autrice, era stata svolta discretamente bene; ma quindici anni dopo la TMS non si accontentava del buono, o del discreto: voleva il massimo per celebrare al meglio il noto shojo manga.
Seppur orfana di Osamu Dezaki, che aveva interrotto la collaborazione dopo gli insipidi special dedicati a Lupin, la compagnia di Nakano aveva l'imbarazzo della scelta nelle sue fila di rinomati registi e abili disegnatori (tanti dei quali, Satoshi Hirayama in primis, avevano sudato sangue sotto le direttive del duo Dezaki/Sugino). In cabina di regia viene selezionato il bravo Tsuneo Kobayashi, il quale fa tesoro delle trovate e degli effetti stroboscopici dei capolavori degli anni d'oro della Tokyo Movie Shinsha. Il character design è fedele al cento per cento all'originale di Suzue Miuchi e la supervisione dei disegni di Hirayama non fa una grinza. La drammaticità si può tagliare col coltello: è l'esaltazione definitiva dello spirito di sacrificio dei nipponici, enfatizzato altresì dagli innumerevoli primi piani tipici della corrente engeki (Maya è la Mimì Ayuhara della recitazione, la Jenny delle rappresentazioni teatrali, colei che va in scena anche con il febbrone da cavallo, o addirittura se la fa venire passando le notti all'addiaccio per interpretare al meglio la parte della malata). Le possenti inquadrature, tra coni d'ombra e riverberi di luce, non fanno che ricordare le sontuose virate alla multiplane camera del grande Hirokata Takahashi. Alcune sequenze seguono per filo e per segno i marchi di fabbrica dezakiani (schermo diviso in due, immagine nell'immagine, ripetizione al rallenti di un determinato segmento, etc etc) ma senza abusarne fino all'esasperazione come capitava spesse volte all'interno dello stesso film e/o episodio. La colorazione, infine, rispetta il trend di fine secolo con tonalità vivide e marcate per aumentarne il pathos, sebbene per l'occasione venne volutamente ripristinata la tecnica manuale che non rendeva le scene artificiose come con il controverso sistema digitale.
Questa volta è lecito affermare che l'allievo aveva superato il maestro.
Non più tardi di un paio di lustri dopo, confortata dall'interesse per questo breve ma intenso riassunto (magari fossero tutti così!), TMS presenterà una nuova serie TV, molto più articolata e rispettosa dei capitoli cartacei, con alcuni membri dello staff in comune con l'edizione home video. Ma non posso giudicare o fare un raffronto in questa sede. Appena riuscirò a metterci le mani sopra probabilmente scatterà la recensione.
A onor del vero, anch'io ho scoperto per puro caso l'adattamento nostrano, ma tuttavia ero già a conoscenza di questa produzione tramite il libro TMS Super-data-file, e di conseguenza mi ero innamorato di quelle poche foto (e neppure a colori, se non erro) a corredo in quella striminzita paginetta in giapponese stretto.
Sarò sincero, di "Glass no Kamen" possiedo solo qualche fioco ricordo riferito alla serie TV anni '80, la quale non brillava certo nell'affollato e ultracompetitivo universo degli anime: era infatti stata partorita dalla Eiken, la cenerentola degli studios nipponici (la quale non poteva certo schierare nei suoi ranghi mostri sacri del calibro di Akio Sugino o Takuo Noda). Ciò nonostante, la parte più difficile, vale a dire portare su migliaia e migliaia di rodovetri l'elegante e pregiato tratto della sua autrice, era stata svolta discretamente bene; ma quindici anni dopo la TMS non si accontentava del buono, o del discreto: voleva il massimo per celebrare al meglio il noto shojo manga.
Seppur orfana di Osamu Dezaki, che aveva interrotto la collaborazione dopo gli insipidi special dedicati a Lupin, la compagnia di Nakano aveva l'imbarazzo della scelta nelle sue fila di rinomati registi e abili disegnatori (tanti dei quali, Satoshi Hirayama in primis, avevano sudato sangue sotto le direttive del duo Dezaki/Sugino). In cabina di regia viene selezionato il bravo Tsuneo Kobayashi, il quale fa tesoro delle trovate e degli effetti stroboscopici dei capolavori degli anni d'oro della Tokyo Movie Shinsha. Il character design è fedele al cento per cento all'originale di Suzue Miuchi e la supervisione dei disegni di Hirayama non fa una grinza. La drammaticità si può tagliare col coltello: è l'esaltazione definitiva dello spirito di sacrificio dei nipponici, enfatizzato altresì dagli innumerevoli primi piani tipici della corrente engeki (Maya è la Mimì Ayuhara della recitazione, la Jenny delle rappresentazioni teatrali, colei che va in scena anche con il febbrone da cavallo, o addirittura se la fa venire passando le notti all'addiaccio per interpretare al meglio la parte della malata). Le possenti inquadrature, tra coni d'ombra e riverberi di luce, non fanno che ricordare le sontuose virate alla multiplane camera del grande Hirokata Takahashi. Alcune sequenze seguono per filo e per segno i marchi di fabbrica dezakiani (schermo diviso in due, immagine nell'immagine, ripetizione al rallenti di un determinato segmento, etc etc) ma senza abusarne fino all'esasperazione come capitava spesse volte all'interno dello stesso film e/o episodio. La colorazione, infine, rispetta il trend di fine secolo con tonalità vivide e marcate per aumentarne il pathos, sebbene per l'occasione venne volutamente ripristinata la tecnica manuale che non rendeva le scene artificiose come con il controverso sistema digitale.
Questa volta è lecito affermare che l'allievo aveva superato il maestro.
Non più tardi di un paio di lustri dopo, confortata dall'interesse per questo breve ma intenso riassunto (magari fossero tutti così!), TMS presenterà una nuova serie TV, molto più articolata e rispettosa dei capitoli cartacei, con alcuni membri dello staff in comune con l'edizione home video. Ma non posso giudicare o fare un raffronto in questa sede. Appena riuscirò a metterci le mani sopra probabilmente scatterà la recensione.