Come Fratelli
Ambientato in un quartiere degradato di Kuala Lumpur, il film narra di due giovani orfani senza documenti, Abang e Adik, che vivono ai margini della società cercando di tirare avanti alla giornata. I due hanno un temperamento diametralmente opposto: Abang (Kang Ren Wu) è gentile e remissivo, sgobba come un mulo nei lavori più umili e si adopera per migliorare le proprie condizioni nell’ambito della legalità; Adik (Jack Tan) è invece insofferente e ribelle, sceglie la strada dei soldi facili trafficando con i documenti dei migranti, è colluso con la malavita locale e si prostituisce. Entrambi sono originari della Malaysia ma vivono senza carta di identità, senza diritti ed esclusi dalla società. Legati uno all’altro da un rapporto simbiotico e viscerale che sfiora l’omosessualità, i due ragazzi vedono minato il loro legame quando si ritrovano coinvolti in un fatto di sangue. Sullo sfondo la metropoli tentacolare di Kuala Lumpur, in particolare il quartiere di Pudu Pasar, la zona dell’antico mercato della città brulicante di vita e compresso in spazi fisici (e psicologici) angusti e claustrofobici, dove convivono contrasti di lingue, culture e razze diverse. Nel film si parlano quattro lingue diverse: mandarino, cantonese, malese e inglese.
Il film esordisce quindi come un realista slice of life che racconta una storia di emarginazione e disagio sociale a base di ordinaria violenza quotidiana ma anche di personaggi edificanti e benevoli, come la transgender Money che si è sempre presa cura dei due ragazzi facendogli da madre, l’emigrata dal Myanmar innamorata di Abang costretta a rientrare nel suo paese, e l’assistente sociale Jia En che fa del suo meglio per aiutarli, prospettando loro una possibilità di uscire dalla clandestinità. Ma sono spiragli di speranza destinati a dissolversi quando, del tutto inaspettatamente, il film sprofonda negli abissi di un noir cupo ed esistenziale, scavando fino all’osso nella psicologia dei personaggi e nei loro sentimenti di solitudine e di gelosia. Sul finale il film racconta in qualche modo una storia di redenzione, dove il legame quasi patologico che lega i due personaggi e che li ha portati ad essere vittima e carnefice l’uno dell’altro in un perverso abbraccio fatale, finisce per liberare una delle due con l’estremo sacrificio in una sorta di rito di espiazione.
A chi non possiede niente, nemmeno i documenti d’identità, non resta che cercare di possedere disperatamente la vita degli altri, è quanto Abang e Adik sembra suggerire fra le pieghe di questa straziante storia di fratellanza. Pur lasciandosi andare ad alcuni eccessi melodrammatici, il linguaggio del regista/sceneggiatore Jin Ong è attentissimo alle minime sfumature psicologiche, coadiuvandosi della magnifica fotografia di Kartik Vijay, a base di colori caldi e avvolgenti, e cercando di dosare il pathos con un efficace utilizzo della colonna sonora di Katayama Ryota affiancata delle malinconiche digressioni della voce off.
Per concludere, il doppio ritratto dei due protagonisti funziona, risulta incisivo e fa molto male, al di là delle scene forti. Destreggiarsi fra i sentimenti umani è una caratteristica comune a molti cineasti orientali e la storia drammatica di Abang e Adik, con le sue sfumature vagamente omoerotiche, lascia un segno profondo.
Il film esordisce quindi come un realista slice of life che racconta una storia di emarginazione e disagio sociale a base di ordinaria violenza quotidiana ma anche di personaggi edificanti e benevoli, come la transgender Money che si è sempre presa cura dei due ragazzi facendogli da madre, l’emigrata dal Myanmar innamorata di Abang costretta a rientrare nel suo paese, e l’assistente sociale Jia En che fa del suo meglio per aiutarli, prospettando loro una possibilità di uscire dalla clandestinità. Ma sono spiragli di speranza destinati a dissolversi quando, del tutto inaspettatamente, il film sprofonda negli abissi di un noir cupo ed esistenziale, scavando fino all’osso nella psicologia dei personaggi e nei loro sentimenti di solitudine e di gelosia. Sul finale il film racconta in qualche modo una storia di redenzione, dove il legame quasi patologico che lega i due personaggi e che li ha portati ad essere vittima e carnefice l’uno dell’altro in un perverso abbraccio fatale, finisce per liberare una delle due con l’estremo sacrificio in una sorta di rito di espiazione.
A chi non possiede niente, nemmeno i documenti d’identità, non resta che cercare di possedere disperatamente la vita degli altri, è quanto Abang e Adik sembra suggerire fra le pieghe di questa straziante storia di fratellanza. Pur lasciandosi andare ad alcuni eccessi melodrammatici, il linguaggio del regista/sceneggiatore Jin Ong è attentissimo alle minime sfumature psicologiche, coadiuvandosi della magnifica fotografia di Kartik Vijay, a base di colori caldi e avvolgenti, e cercando di dosare il pathos con un efficace utilizzo della colonna sonora di Katayama Ryota affiancata delle malinconiche digressioni della voce off.
Per concludere, il doppio ritratto dei due protagonisti funziona, risulta incisivo e fa molto male, al di là delle scene forti. Destreggiarsi fra i sentimenti umani è una caratteristica comune a molti cineasti orientali e la storia drammatica di Abang e Adik, con le sue sfumature vagamente omoerotiche, lascia un segno profondo.