Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
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Remi - Le sue avventure
9.0/10
Il meisaku classico ha una meritata reputazione di tristezza e drammaticità, e Remì ha certamente contribuito a rafforzare tale reputazione. Remì è particolarmente celebre in Italia, almeno per la generazione dei quarantenni, perché è stato il secondo meisaku ad arrivare nel nostro paese, un anno dopo Heidi. Rispetto ad Heidi, Remì presenta un contenuto di drammaticità molto più spinto. Già l'opera di partenza, il "Senza Famiglia" di Hector Malot, è molto drammatica, ma l'anime rincara la dose.
La storia inizia con il ritorno a casa del padre adottivo di Remì, divenuto storpio a causa di un incidente sul lavoro. L'uomo non trova di meglio per reagire alla disgrazia che darsi all'alcol. Come prima cosa, per avere di che bere, vende la mucca, che costituisce l'unica fonte di sostentamento della famiglia; non contento, vende Remì all'artista ambulante Vitali, rivelandogli per di più di non essere il suo vero padre. Da quest'inizio scaturisce un fiume inarrestabile di disgrazie: Remì opera come una calamita per la sfortuna. È in grado di attirare calamità naturali come fortunali, tempeste di neve, grandine e inondazioni, nonché malattie varie; persone e animali che gli stanno intorno muoiono come mosche, ha un fratello minore paralitico, una fidanzatina muta, un padre naturale morto di malattia in giovane età, chi più ne ha più ne metta. Per molti anni ho pensato che fosse l'anime più triste di tutti i tempi, poi ho visto Patrash e mi sono ricreduto. A parte gli scherzi, Remì è un meisaku assolutamente consigliabile per l'ottima regia di Osamu Dezaki, una storia che avvince e una realizzazione tecnica eccezionale per la sua epoca. A questo proposito vale la pena ricordare che il 1977 era l'anno del grande ritorno del 3D (vi ricorda qualcosa?) e Remì era stato girato con questa tecnologia.
All'epoca si trovavano i famigerati occhialini rosso-blu su tutti i giornali (anche su "Topolino", se non erro) e tutti i bambini giravano con questi pensando di vedere chissà cosa. Peccato che quasi tutti i televisori fossero in bianco e nero e che l'effetto 3D fosse molto meno spettacolare di quanto venisse proclamato. Chiudo le reminiscenze segnalando che da bambino ho odiato Remì per i suoi aspetti strappalacrime: preferivo di gran lunga un eroe fascinoso alla Actarus di Goldrake piuttosto che un moccioso piagnucoloso. Anche adesso non raccomando Remì a un pubblico infantile, per l'eccessiva tragicità, mentre per gli adulti costituisce un'ottima visione, anche per l'estrema fedeltà all'opera originale. L'unica differenza sostanziale è nel finale: il finale dell'anime è abbastanza sorprendente (Remì dà un calcio alla fortuna), probabilmente per venire incontro alla mentalità giapponese; il finale del romanzo invece è molto più comprensibile e soddisfacente. Il romanzo termina con Remì che si sposa, ricco e in buona salute, mentre Mattia diventa un grande violinista e in generale tutti i protagonisti vivono felici e contenti. Il finale dell'anime non lo svelo.
La storia inizia con il ritorno a casa del padre adottivo di Remì, divenuto storpio a causa di un incidente sul lavoro. L'uomo non trova di meglio per reagire alla disgrazia che darsi all'alcol. Come prima cosa, per avere di che bere, vende la mucca, che costituisce l'unica fonte di sostentamento della famiglia; non contento, vende Remì all'artista ambulante Vitali, rivelandogli per di più di non essere il suo vero padre. Da quest'inizio scaturisce un fiume inarrestabile di disgrazie: Remì opera come una calamita per la sfortuna. È in grado di attirare calamità naturali come fortunali, tempeste di neve, grandine e inondazioni, nonché malattie varie; persone e animali che gli stanno intorno muoiono come mosche, ha un fratello minore paralitico, una fidanzatina muta, un padre naturale morto di malattia in giovane età, chi più ne ha più ne metta. Per molti anni ho pensato che fosse l'anime più triste di tutti i tempi, poi ho visto Patrash e mi sono ricreduto. A parte gli scherzi, Remì è un meisaku assolutamente consigliabile per l'ottima regia di Osamu Dezaki, una storia che avvince e una realizzazione tecnica eccezionale per la sua epoca. A questo proposito vale la pena ricordare che il 1977 era l'anno del grande ritorno del 3D (vi ricorda qualcosa?) e Remì era stato girato con questa tecnologia.
All'epoca si trovavano i famigerati occhialini rosso-blu su tutti i giornali (anche su "Topolino", se non erro) e tutti i bambini giravano con questi pensando di vedere chissà cosa. Peccato che quasi tutti i televisori fossero in bianco e nero e che l'effetto 3D fosse molto meno spettacolare di quanto venisse proclamato. Chiudo le reminiscenze segnalando che da bambino ho odiato Remì per i suoi aspetti strappalacrime: preferivo di gran lunga un eroe fascinoso alla Actarus di Goldrake piuttosto che un moccioso piagnucoloso. Anche adesso non raccomando Remì a un pubblico infantile, per l'eccessiva tragicità, mentre per gli adulti costituisce un'ottima visione, anche per l'estrema fedeltà all'opera originale. L'unica differenza sostanziale è nel finale: il finale dell'anime è abbastanza sorprendente (Remì dà un calcio alla fortuna), probabilmente per venire incontro alla mentalità giapponese; il finale del romanzo invece è molto più comprensibile e soddisfacente. Il romanzo termina con Remì che si sposa, ricco e in buona salute, mentre Mattia diventa un grande violinista e in generale tutti i protagonisti vivono felici e contenti. Il finale dell'anime non lo svelo.
Heidi
8.0/10
Recensione di Metaldevilgear
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Storie strappalacrime? Perché no, quando nel mezzo ci sono nomi del calibro di Takahata o Miyazaki?
Basta citare il suo creatore, per capire perché l'infanzia di molti di noi sia rimasta così affascinata dalla piccola Heidi e dalla sua storia. E' vero, la trama è tratta da un racconto europeo, ma la cura dei nipponici in questi tipi di adattamento è sempre stata maniacale, durante gli splendidi anni '70/'80, ed ha segnato una vera e propria invasione, soprattutto qui in Italia.
Heidi è di sicuro uno dei migliori titoli di quel periodo, ed uno dei maggiori esponenti dell'"invasione" degli anime in Italia: diciamolo, tutti conoscono Heidi, i nostri genitori in primis avranno seguito di sicuro almeno qualche episodio, perché è impossibile cambiare canale di fronte a una sceneggiatura così bella, dei personaggi così umani, una storia così coinvolgente e appassionante, adatta a tutta la famiglia, appunto.
Tutto gira intorno a questa bambina a dir poco capricciosa, testarda, a volte proprio insopportabile, ma soprattutto tenera, simpatica e giocherellona, dolce, dal cuore d'oro...insomma, Takahata ha saputo creare una bimba "vera" , in ogni suo modo di fare, nel suo punto di vista sul mondo, nei suoi sentimenti di gioia, serenità, ma anche di nostalgia, malinconia...sentimenti tipici dei bambini, che l'autore fa ricadere con maestria sull'animo dello spettatore, che si identifica con la piccola eroina e non può fare a meno di amarla (come sarà in grado di fare anche con la piccola Setsuko ne "Una Tomba Per Le Lucciole").
La storia la conoscete, ed è inutile dire che è davvero stupenda, ed appassiona ogni volta che la si rivive.
Inoltre è da segnalare il forte intento educativo ed ecologico, che nasce dal rapporto dei personaggi con la natura e il rispetto di essa in ogni sua forma, dagli alberi che "parlano" al soffio del vento, alla moltitudine di animali con cui la ragazzina farà amicizia, a partire, ovviamente, dalle famose caprette...
Il cast di personaggi è tutto da elogiare: Heidi, il "vecchio dell'Alpe", Peter, sua nonna, Clara, e tutti i suoi parenti, ormai fanno parte di un unica grande famiglia che è impossibile dimenticare...
C'è da dare un elogio anche all'animazione in sè per sè: visivamente, Heidi non dà l'impressione di essere una produzione del '74, perché anche se compaiono le limitazioni tipiche nell'animazione di quel periodo (tipo il labiale non sempre "centrato" con le immagini), i disegni e la colorazione, pur essendo semplici, sono d'impatto, e donano quel qualcosa in più che solo i grandi capolavori posseggono, e in questo frangente, spunta il nome di Miyazaki, che disegnò le scene e i layout...
Quest'atmosfera è alimentata ovviamente dalla bellissima colonna sonora sempre a tema con l'ambientazione, che sia montana o cittadina, o con lo stato emotivo del momento.
Insomma, se dovessi consigliare uno tra i numerosissimi anime del filone degli "orfanelli", opterei senza dubbio per questo.
La premiata ditta Takahata-Miyazaki dà lezioni a tutti.
Basta citare il suo creatore, per capire perché l'infanzia di molti di noi sia rimasta così affascinata dalla piccola Heidi e dalla sua storia. E' vero, la trama è tratta da un racconto europeo, ma la cura dei nipponici in questi tipi di adattamento è sempre stata maniacale, durante gli splendidi anni '70/'80, ed ha segnato una vera e propria invasione, soprattutto qui in Italia.
Heidi è di sicuro uno dei migliori titoli di quel periodo, ed uno dei maggiori esponenti dell'"invasione" degli anime in Italia: diciamolo, tutti conoscono Heidi, i nostri genitori in primis avranno seguito di sicuro almeno qualche episodio, perché è impossibile cambiare canale di fronte a una sceneggiatura così bella, dei personaggi così umani, una storia così coinvolgente e appassionante, adatta a tutta la famiglia, appunto.
Tutto gira intorno a questa bambina a dir poco capricciosa, testarda, a volte proprio insopportabile, ma soprattutto tenera, simpatica e giocherellona, dolce, dal cuore d'oro...insomma, Takahata ha saputo creare una bimba "vera" , in ogni suo modo di fare, nel suo punto di vista sul mondo, nei suoi sentimenti di gioia, serenità, ma anche di nostalgia, malinconia...sentimenti tipici dei bambini, che l'autore fa ricadere con maestria sull'animo dello spettatore, che si identifica con la piccola eroina e non può fare a meno di amarla (come sarà in grado di fare anche con la piccola Setsuko ne "Una Tomba Per Le Lucciole").
La storia la conoscete, ed è inutile dire che è davvero stupenda, ed appassiona ogni volta che la si rivive.
Inoltre è da segnalare il forte intento educativo ed ecologico, che nasce dal rapporto dei personaggi con la natura e il rispetto di essa in ogni sua forma, dagli alberi che "parlano" al soffio del vento, alla moltitudine di animali con cui la ragazzina farà amicizia, a partire, ovviamente, dalle famose caprette...
Il cast di personaggi è tutto da elogiare: Heidi, il "vecchio dell'Alpe", Peter, sua nonna, Clara, e tutti i suoi parenti, ormai fanno parte di un unica grande famiglia che è impossibile dimenticare...
C'è da dare un elogio anche all'animazione in sè per sè: visivamente, Heidi non dà l'impressione di essere una produzione del '74, perché anche se compaiono le limitazioni tipiche nell'animazione di quel periodo (tipo il labiale non sempre "centrato" con le immagini), i disegni e la colorazione, pur essendo semplici, sono d'impatto, e donano quel qualcosa in più che solo i grandi capolavori posseggono, e in questo frangente, spunta il nome di Miyazaki, che disegnò le scene e i layout...
Quest'atmosfera è alimentata ovviamente dalla bellissima colonna sonora sempre a tema con l'ambientazione, che sia montana o cittadina, o con lo stato emotivo del momento.
Insomma, se dovessi consigliare uno tra i numerosissimi anime del filone degli "orfanelli", opterei senza dubbio per questo.
La premiata ditta Takahata-Miyazaki dà lezioni a tutti.
Anna dai capelli rossi
8.0/10
Dall’omonimo romanzo semiautobiografico di Lucy Maud Montgomery, arriva in Italia col titolo “Anna dai capelli rossi “il primo titolo del filone World Masterpiece Teather, del 1979. Creato dalla Nippon Animation per inaugurare il suo nuovo filone che sarà presto conosciuto come Meisaku e diretto da un brillante Isao Takahata.
Anche solo l’introduzione della trama comporterebbe un notevole svago narrativo. Anna dai capelli rossi è infatti uno dei meisaku dalla trama più lunga e fitta mai realizzati. Orfana, abbandonata, maltrattata, Anna è l’emblema del riscatto, della determinazione e del coraggio. La serie si può suddividere in tre grandi capitoli, quello dell’infanzia, dall’orfanatrofio alla casa dai tetti verdi ; quella della scuola, dove Anna impara ad amare gli studi e i suoi genitori adottivi (e viceversa) e quella della maturità, incentrata sull’ultimo anno di liceo e sui rapporti con l’eterno rivale Gilbert.
Durante lo scorrere degli eventi si assiste a una progressiva maturazione della nostra protagonista, davvero ben curata dagli sceneggiatori e che risalta subito allo spettatore. Anna in pochi anni (dagli 11 ai 16) attua la sua trasformazione emotiva e passa da bambina sognatrice, che si immerge in una fantasia astratta per sfuggire alle brutture che la circondano, in una donna dai saldi principi e dalla determinazione di ferro. Due i pilastri portanti che reggono il costrutto di questa maturazione : i fratelli Marilla e Matthew Cuthbert e l’insegnante di Anna, Stacy Muriel. A far da perno centrale alla leva che aziona la determinazione negli studi di Anna è però l’amico-rivale Gilbert, brillante studente con la quale Anna nutre un rapporto complesso e travagliato.
Va tuttavia detto che la trama presenta parecchi tratti inverosimili, che trascendono la realtà per quella che è. In primo luogo Anna è una bambina di 11 anni, abituata a una strenua povertà, dove baracche e alcolisti sono stati i suoi unici insegnamenti di vita, ed è piuttosto assurdo che si adatti alle buone maniere e alla compostezza che il rigore vittoriano imponevano in mezza giornata. Va anche detto che Anna, praticamente analfabeta, compie un ciclo completo di studi in 5 anni, arrivando a prendere la qualifica magistrale un anno prima del previsto con il massimo dei voti, sempre. Questi fatti, legati all’incredibile autostima che la ragazza nutre di se, la rendono piuttosto aliena e surreale. Purtroppo non ho letto il romanzo della Montgomery, quindi non saprei dire se siano mere pomposità e borie che la donna cerca di attribuire a se stessa o un interpretazione un po’ “eroica” della bambina da parte degli sceneggiatori nipponici.
È comunque importante sottolineare che “Anna dai capelli rossi” non è affatto un titolo da denigrare. A parte queste palesi incongruenze narrative la trama è molto intrigante e sempre ricca di colpi di scena. La sceneggiatura è ottima ed anche il key animation (Il meisaku sarà un po’ carente in questo campo negli anni successivi).
Il disegno è bello, come solo quello di Miyazaki sa essere, che non fa mistero di sparpagliare un po’ di Giappone qua la, come i vari ciliegi fioriti in Canada. Colori limpidi e netti, tratti un po’ spigolosi come erano norma quelli del maestro negli anni 70. “Anna dai capelli rossi” ha un grande merito, più che per l’opera in se, acquista un valore essenziale per quello che sarà il tratto grafico dei 18 anni successivi alla Nippon Animation. Una finitura già ben delineata in Heidi e Marco, ma che qua si compie e si finalizza.
Nel complesso un prodotto di grande impatto emotivo, un po’ esagerato nel personaggio della protagonista. Ed è forse questo estremismo che non la porta in auge tra i titoli del WMT, anche se l’opera in se non presenta pecche, la trama è spesso forzata, nonostante la morbidezza dell’adattamento nipponico. Il fine pedagogico infatti un po’ decade di fronte alla sempre perfetta Anna, un personaggio più simile a un santo che a un protagonista di un romanzo. Otto.
Anche solo l’introduzione della trama comporterebbe un notevole svago narrativo. Anna dai capelli rossi è infatti uno dei meisaku dalla trama più lunga e fitta mai realizzati. Orfana, abbandonata, maltrattata, Anna è l’emblema del riscatto, della determinazione e del coraggio. La serie si può suddividere in tre grandi capitoli, quello dell’infanzia, dall’orfanatrofio alla casa dai tetti verdi ; quella della scuola, dove Anna impara ad amare gli studi e i suoi genitori adottivi (e viceversa) e quella della maturità, incentrata sull’ultimo anno di liceo e sui rapporti con l’eterno rivale Gilbert.
Durante lo scorrere degli eventi si assiste a una progressiva maturazione della nostra protagonista, davvero ben curata dagli sceneggiatori e che risalta subito allo spettatore. Anna in pochi anni (dagli 11 ai 16) attua la sua trasformazione emotiva e passa da bambina sognatrice, che si immerge in una fantasia astratta per sfuggire alle brutture che la circondano, in una donna dai saldi principi e dalla determinazione di ferro. Due i pilastri portanti che reggono il costrutto di questa maturazione : i fratelli Marilla e Matthew Cuthbert e l’insegnante di Anna, Stacy Muriel. A far da perno centrale alla leva che aziona la determinazione negli studi di Anna è però l’amico-rivale Gilbert, brillante studente con la quale Anna nutre un rapporto complesso e travagliato.
Va tuttavia detto che la trama presenta parecchi tratti inverosimili, che trascendono la realtà per quella che è. In primo luogo Anna è una bambina di 11 anni, abituata a una strenua povertà, dove baracche e alcolisti sono stati i suoi unici insegnamenti di vita, ed è piuttosto assurdo che si adatti alle buone maniere e alla compostezza che il rigore vittoriano imponevano in mezza giornata. Va anche detto che Anna, praticamente analfabeta, compie un ciclo completo di studi in 5 anni, arrivando a prendere la qualifica magistrale un anno prima del previsto con il massimo dei voti, sempre. Questi fatti, legati all’incredibile autostima che la ragazza nutre di se, la rendono piuttosto aliena e surreale. Purtroppo non ho letto il romanzo della Montgomery, quindi non saprei dire se siano mere pomposità e borie che la donna cerca di attribuire a se stessa o un interpretazione un po’ “eroica” della bambina da parte degli sceneggiatori nipponici.
È comunque importante sottolineare che “Anna dai capelli rossi” non è affatto un titolo da denigrare. A parte queste palesi incongruenze narrative la trama è molto intrigante e sempre ricca di colpi di scena. La sceneggiatura è ottima ed anche il key animation (Il meisaku sarà un po’ carente in questo campo negli anni successivi).
Il disegno è bello, come solo quello di Miyazaki sa essere, che non fa mistero di sparpagliare un po’ di Giappone qua la, come i vari ciliegi fioriti in Canada. Colori limpidi e netti, tratti un po’ spigolosi come erano norma quelli del maestro negli anni 70. “Anna dai capelli rossi” ha un grande merito, più che per l’opera in se, acquista un valore essenziale per quello che sarà il tratto grafico dei 18 anni successivi alla Nippon Animation. Una finitura già ben delineata in Heidi e Marco, ma che qua si compie e si finalizza.
Nel complesso un prodotto di grande impatto emotivo, un po’ esagerato nel personaggio della protagonista. Ed è forse questo estremismo che non la porta in auge tra i titoli del WMT, anche se l’opera in se non presenta pecche, la trama è spesso forzata, nonostante la morbidezza dell’adattamento nipponico. Il fine pedagogico infatti un po’ decade di fronte alla sempre perfetta Anna, un personaggio più simile a un santo che a un protagonista di un romanzo. Otto.
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Ecco, solo applausi.
Heidi forse è stato il primo che ho seguito. Ho ancora la bambola in bella mostra a casa, l'album delle figurine (trovato completo per pura fortuna ad un bookcrossing) e lo riguardo ogni volta che capita in TV, soprattutto dalla puntata in cui lei torna sui monti. Mi è piaciuto così tanto che quando lessi il romanzo, anni dopo, ne rimasi molto delusa.
Anna dai capelli rossi è fatto talmente bene che ha ripreso praticamente tutte le frasi dal romanzo, impressionante! E poi le scene in cui la protagonista e Marilla cucinano fanno venire voglia di assaggiare tutti quei manicaretti.
Quello che mi piace di meno è Remì, ma solo perché è davvero troppo tragico (se Candy Candy avesse incrociato quel bambino per strada avrebbe fatto almeno una decina di riti scaramantici: la recensione dipinge il protagonista alla perfezione) e soprattutto per il nuovo doppiaggio che proprio non riesce a piacermi. Soprattutto la nuova voce di Remì mi irrita, non posso farci nulla... Ma consiglio comunque questa serie a chi non la conosce. Imperdibile!!!
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