Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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"La forma della voce" mi fa percepire il peso di avere un'onestà intellettuale.

Non perché sia una tematica trattata dal film, ma perché di base questo film lo odio: odio i suoi fan, molti dei quali lo apprezzano solo perché hanno disprezzato "Your Name.", uscito lo stesso anno; odio i suoi personaggi, che vorrei perlopiù veder morti; odio il fatto che, di base, sia un film che parla di un ragazzo che riscopre l'amore per sé stesso frequentando le stesse persone che gli hanno causato quell'odio che prova, e che non sono cambiate tanto nel corso degli anni.
Soprattutto, odio che tale odio non derivi dalla qualità del film, ma solo da ciò che esso rappresenta quando, guardandolo, mi son ritrovato a dover confrontare la visione dell'animo umano descritta dal film, con quella che ho maturato esperendo l'umanità che mi ha circondato, e con cui sono cresciuto.
"La forma della voce" non è un film offensivo, ma è un film che mi offende.

Per fortuna, non tutti sono come me.

Partiamo dal principio.
Questo film parla di Shouya Ishida, un ragazzo "vivace" che, a seguito dell'arrivo di una bambina sorda, Shouko Nishimiya, inizierà a giocarle brutti scherzi, nonostante il tentativo di lei di familiarizzare, e questi spesso sfoceranno nell'eccesso causando, tra le varie cose, il danneggiamento di molti apparecchi acustici di Nishimiya.
Questo porterà Ishida a subire lo stigma di essere considerato un bullo, maturando un profondo senso di colpa che lo porterà a odiare sé stesso e ad avere difficoltà nell'approcciarsi agli altri. Crescendo, Ishida si ritroverà a rincontrare Nishimiya e i suoi vecchi compagni di classe, e il film racconterà del suo doversi rapportare con gli altri, e dell'evolvere e del cambiare del suo animo, e anche di quelli che lo circondano, a causa di ciò.

Di questo film devo dire che apprezzo molto il suo essere una prospettiva interessante, e sicuramente ben costruita, sul bullismo e sul mondo psicologico di un bullo. Non si deumanizza la sua figura, rendendolo un semplice "cattivo", come accadrebbe in una classica storia scolastica, ma si prova a esplorarla, ad analizzare il peso psicologico a lungo termine di un tale stigma (un peso ancora più pesante nella società giapponese, famosa per avere un vero e proprio culto del dover mantenere un'apparenza rispettabile), e lo fa senza dar luogo ad apologie o banalizzazioni di sorta.
Non negherò quindi né la qualità molto alta di questa storia né l'incredibile abilità necessaria per scriverla così bene - tuttalpiù, provo genuina invidia per tale capacità narrativa, vuoi che siano proprie dell'autore originale (non ho letto, in nessuna forma, l'opera originale) o di chi l'ha trasposta per adattarla al medium cinematografico.

Non negherò a questo film neanche il riconoscimento dell'estrema bellezza del suo comparto tecnico, con la sua fotografia luminosa e la grande personalità nei design dei suoi personaggi. Oltre alla bellissima colonna sonora, e le scelte registiche capaci di rendere molto potenti determinati momenti, soprattutto il finale.

Come ho cercato di far intendere, se il film mi è diventato inviso, non è per la sua qualità, che riconosco essere molto alta, né per i suoi messaggi, che non sono né negativi né discutibili, ma per l'ideale che caratterizza tutta l'opera.
Una visione, appunto, idealizzata dell'animo umano, che ne riconosce la complessità, ma che sembra non contemplare che tale complessità può tranquillamente associarsi con la mediocrità. Tutti i personaggi nel film, quindi, sono stati scritti con una forte fede nella ricchezza umana: sono figure piene di intelligenza e sensibilità, capaci di comprendere immediatamente lo spettro emotivo degli altri quando vi sono vicini, e di comunicare il proprio al meglio. Il che, chiaramente, non li rende tutti "buoni", ma se fanno cose discutibili o anche solo antipatiche, c'è sempre il leitmotiv di fondo del fatto che sono umani, ed è nella natura umana sbagliare ed essere imperfetti.
Una visione che fa molta gola agli artisti, e a molti che vogliono fare i raffinati senza esserlo davvero, tant'è che diventa la chiave di volta per farsi considerare "opere profonde" da determinate frange di community ("Cowboy Bebop", "Ping Pong - The Animation"... tutte opere che parlano dell'animo umano in questo modo), ma che è in pieno contrasto con quello che è stato il mondo secondo la mia esperienza.
La realtà, secondo me, è che la complessità umana è per molti il veicolo per la mediocrità: è troppo complicato cercare di comprendere gli altri e noi stessi, quindi molti agiscono basandosi solo sulla propria emotività, sui propri istinti primordiali o sui propri interessi, non facendosi problemi ad essere crudeli o insensibili molte volte. Di questi, solo pochi si pentono.
L'intelligenza emotiva richiede, appunto, intelligenza; la maggior parte delle persone è stupida.

Non nego che tale visione funzioni nel contesto del film (e infatti non la giudico un difetto), ma essa non mi permette di apprezzarlo.
Tuttavia, apprezzare e rispettare sono due cose diverse: rispetto "La forma della voce", ne so riconoscere tutte le qualità, e rispetto che sia piaciuto a molti, ma non lo apprezzo.
Tutto qui.

Auf wiedersehen!

P.S. Mamma mia, che depressione questa recensione. Nicola, non ti riconosco! Di' qualcosa di cinico!
Lo farò subito!
"Will Hunting - Genio ribelle" è un film migliore di questo.

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“Vorrei che Itsuomi mi portasse nel suo mondo. Vorrei conoscerlo e farmi conoscere. Tuttavia, vorrei che ancora non si accorgesse di quanto scomoda sia la mano che stringe...”

Nel fare questa recensione vorrei partire da una premessa: se ci si approccia alla visione di "A Sign of Affection" con l'aspettativa di vedere uno shoujo dinamico, con una trama articolata e personaggi con una caratterizzazione complessa, si rimarrà certamente delusi.
La serie, tratta da un manga scritto e disegnato da Suu Morishita, non è nemmeno un’opera incentrata sul tema della disabilità in senso stretto o un’opera con elementi di denuncia o di critica sociale (se non molto velatamente), pertanto le problematiche connesse alla disabilità, pur essendo in un qualche modo rappresentate, rimangono sullo sfondo, non assumendo mai un ruolo di primo piano.

Allora, considerato che stiamo parlando di uno shoujo romantico/slice of life in piena regola, quale ulteriore prospettiva può offrire quest’opera rispetto ad altre del suo genere?
Cominciamo innanzitutto dai protagonisti.

Yuki è una ragazza universitaria di diciannove anni non udente dalla nascita. Nonostante le difficoltà quotidiane che derivano dalla sua condizione, sembra convivere con la sua disabilità con una certa normalità, in una sorta di “comfort zone” creata grazie all’affetto e alla protezione dei familiari e degli amici più cari, tra i quali in particolare Rin e Oshi (l’amico d’infanzia segretamente innamorato di lei).
Yuki non sembra aver subito particolari traumi legati alla sua condizione, quali episodi di bullismo, emarginazione, esclusione dalla vita sociale o scolastica; ciò ha contribuito a rendere la sua personalità semplice, docile e lineare. Tuttavia, il mondo silenzioso e ovattato di Yuki appare troppo ristretto, piatto, privo di orizzonti e slanci emotivi, almeno fino a quando non incontra Itsuomi. L’incontro con Itsuomi costringe Yuki ad uscire dalla sua “comfort zone” e a confrontarsi con nuovi sentimenti, nuovi stimoli e nuove difficoltà. Itsuomi diventerà ben presto la sua finestra su un mondo sconosciuto e pieno di attrattive, di fronte al quale Yuki non si tirerà indietro, anzi, si metterà coraggiosamente in gioco, aprendo il suo cuore quasi con incosciente determinazione e rivelando la sua autenticità e forza d’animo.

Itsuomi, a differenza della stragrande maggioranza dei personaggi maschili che popolano il mondo anime e manga, è un ragazzo solido, consapevole, estroverso, schietto e pragmatico (finalmente...). L’aver vissuto in Europa e l’aver viaggiato per il mondo hanno influenzato la sua personalità, rendendola più libera dai condizionamenti tipici della cultura giapponese. Itsuomi, infatti, non è particolarmente formale, non ha quel senso del pudore tipico dei suoi connazionali, non ha difficoltà con il contatto fisico, non teme di mostrare le proprie emozioni. Inoltre, considera la “diversità” fonte di conoscenza e arricchimento personale. È innegabile, Itsuomi è un gran ‘figo’, ma la ragione del suo carisma non è soltanto legata alla sua avvenenza o alla sua popolarità, ma piuttosto alle sue esperienze cosmopolite, e in particolare al fatto di avere sperimentato sulla propria pelle (avendo vissuto da bambino all’estero) le difficoltà di non riuscire a comunicare con gli altri, di sentirsi diverso ed escluso. Esperienze che lo hanno portato a comprendere il valore dell'accoglienza e dell'integrazione. Itsuomi è dunque aperto, inclusivo, privo di pregiudizi, e ciò gli permette di approcciarsi a Yuki con naturalezza (senza alcuna forma di commiserazione), non in quanto ragazza “non udente”, ma in quanto persona. Nel mondo di Itsuomi, senza barriere e confini mentali, la comunicazione delle proprie emozioni supera il limite dell’assenza di suono e si arricchisce di significati più profondi.

Ciò che Yuki e Itsuomi sperimentano insieme è un linguaggio universale fatto di gesti, di sguardi, di attenzioni, di rispetto reciproci, di desiderio di conoscere il mondo dell’altro e, soprattutto, di fiducia che si costruisce gradualmente insieme. Tutto questo diventa il vero fulcro della serie, supportata da un ottimo comparto tecnico capace di trascinare lo spettatore in un mondo senza suoni, ma ricco di sensazioni vivide, quasi tangibili, enfatizzate dalle espressioni facciali, dal movimento delle labbra, dai dettagliati movimenti delle mani che diventano parole nella lingua dei segni.
Anche le scelte cromatiche, con la presenza di colori tenui, morbidi, che creano atmosfere avvolgenti, sono straordinariamente efficaci; colori che diventano con l’avanzare degli episodi sempre più luminosi, caldi e ricchi di sfumature, proprio come lo diventa la vita di Yuki.

Nella relazione che nasce tra Itsuomi e Yuki non c’è spazio né speranza per Oshi, con il quale, ovviamente, è naturale empatizzare. Oshi, pur avendo tutte le qualità (anche fisiche) che una ragazza possa desiderare, appartiene al più classico stereotipo delle rom-com giapponesi (con tutti i clichè del caso): irrimediabilmente introverso, insicuro e immaturo. Innamorato di Yuki da sempre (senza mai esporsi), impara alla perfezione la lingua dei segni fondamentalmente per proteggerla (e un po' egoisticamente per rimanere il suo unico punto di riferimento), ma il suo approccio rimane sempre “escludente”.
Ed è questo atteggiamento che mette Oshi fuori gioco da subito: lui vorrebbe proteggerla tenendola nel suo guscio, Itsuomi, invece, cerca di proteggerla spronandola ad uscirne.

La serie ha, tuttavia, anche i suoi limiti: il poco spazio e approfondimento dei personaggi secondari, le soluzioni sbrigative con le quali vengono gestite alcune dinamiche relazionali e una trama un po' troppo lineare.

In conclusione: pur raccontando una storia molto romantica, con un ritmo lento e delicato (se vogliamo anche un po’ edulcorato), l’opera riesce a veicolare un suo messaggio, certamente ottimistico, ma mi auguro non utopico e senza speranza.
Nel complesso, pur non essendo un capolavoro, ne consiglio la visione agli amanti del genere.

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Bojji è un principe sordo e senza poteri che non riesce neanche a brandire una spada giocattolo. Essendo il primogenito, sogna di diventare il più grande re del mondo, ma molte persone sparlano di lui alle sue spalle, dicendo che è un buono a nulla e che non potrà mai essere un re. Bojji fa allora amicizia con un'ombra di nome Kage, che in qualche modo lo capisce molto bene. Kage è l’unico membro sopravvissuto di un clan di assassini, quasi del tutto spazzato via. Non più un assassino, ora continua a vivere rubando. La storia segue così la crescita di Bojji, mentre incontra diverse persone nella sua vita, a partire dal fatidico incontro con l'ombra.

Immaginate di imbattervi per puro caso in “Ranking of Kings”, leggerne la trama, così come riportata dal sito, notarne lo stile d’animazione fiabesco, quasi infantile, e iniziarlo, nella diffidenza più totale, perché magari un qualche vostro amico ve ne ha parlato bene e qualche consiglio, ogni tanto, è bene ascoltarlo, come è capitato a me. Partendo da queste premesse, probabilmente vi aspettereste un’opera mediocre, con qualche alto, ma troppi bassi. Condita di quel fanservice che piace troppo ai Giapponesi. Per farla breve, l’ennesima tra le tante. Ma invece, andando avanti, puntata dopo puntata, scoprite di avere a che fare con un anime maturo, molto più di tanta roba che si vede in giro, in grado di farvi provare emozioni fortissime, come non succedeva da tempo. A questo punto, dopo ventitré puntate, non potrete far altro che pensare ad una sola cosa: “È proprio vero che l’abito non fa il monaco!”

Già, perché a dispetto delle apparenze “Ranking of Kings” nasconde un lato maturo e sensibile e dei personaggi, a modo loro, carismatici, destinati ad entrare nel cuore dello spettatore, come Bojji e Kage. Dietro un finto velo di semplicità, quest’opera cela quella maturità necessaria a trattare temi come diversità, disabilità, amicizia e crescita personale, che negli ultimi tempi ho riscontrato solamente in “Koe no Katachi”, anche conosciuto col titolo inglese di “A Silent Voice”, con cui “Ranking of Kings” condivide più di qualche tematica. Innanzitutto, quella della disabilità, che diventa diversità. Bojji è il figlio di uno dei re più forti in vita, le cui gesta verranno ricordate in eterno. Il principe è il discendente della stirpe dei giganti, primogenito del re Bosse e, per questo, destinato ad indossare la corona reale. Bojji, però, è sordomuto, e questo, chiaramente, fa storcere il naso al popolo, che in alcun modo crede che lui possa diventare un buon sovrano. D’altronde, come potrebbe, essendo sia sordo che muto? Le persone parlano male di lui, consapevoli del fatto che non possono essere sentite, mentre invece il piccolo Bojji capisce tutto, perché col tempo ha imparato molto bene a leggere il labiale delle persone. Sa bene di essere schernito da tutti, ma, nonostante ciò, va in giro a testa alta, anche quando indossa solamente un paio di mutande. Il coraggio di certo non gli manca, ma il peso da portare sulle spalle è troppo per lui, sordomuto senza alcuna particolare abilità nel combattimento. Ecco, dunque, che quando arriva il momento della successione, gli viene preferito il fratello più giovane, Daida. In questo frangente, matura l’idea di partire per un viaggio, in compagnia del suo amico Kage.

Il viaggio permette al principe Bojji di fare nuove conoscenze e viene usato come espediente per la crescita personale a cui va incontro. Ancora convinto di poter, un giorno, diventare re e seguire le orme del padre, al principe non resta che seguire uno speciale addestramento, per migliorare l’abilità nel combattimento, in cui palesa le sue più grandi lacune. Ma occhio a pensare che la sua crescita si limiti solo a questo. Bojji, col passare del tempo, acquisisce sempre maggior consapevolezza dei propri mezzi. Impara certamente a combattere, ideando uno stile tutto suo, che sfrutta la velocità dei riflessi, addestrati in anni e anni di letture del labiale (debolezza che si tramuta in forza), ma soprattutto viene plasmato a diventare un buon re, magnanimo e gentile, come il suo modo di essere, seppur manchevole di un pizzico di autorità. La crescita a cui va incontro è esponenziale e vederlo sedere sul trono, dopo aver affrontato numerose peripezie, non può che emozionare lo spettatore. Lui, sordomuto dalla nascita, senza alcuna abilità nel combattimento, che diventa re. Lui, a cui nessuno avrebbe dato un soldo, perseguitato dalle maldicenze del popolo, come il suo migliore amico, Kage. Una storia di crescita e riscatto che, ancora una volta, ci insegna che nella vita nulla è impossibile.

Lo stesso discorso fatto per il principe, infine, lo si potrebbe estendere a Kage. Ultimo sopravvissuto del clan delle ombre, conosciute per essere grandi assassini, costretto a subire le peggiori delle angherie e degli abusi, che lo hanno trasformato in un ladruncolo da quattro soldi. Disprezzato da tutti e destinato a vivere una vita di solitudine e insoddisfazione, almeno fino a quando non incontra Bojji. Per un motivo a noi sconosciuto, Kage riesce a capirlo, e in breve tempo i due stringono uno stretto sodalizio. Il sordomuto e l’ombra, una accoppiata a dir poco stramba. Eppure, i due si completano perfettamente. Bojji trova finalmente qualcuno con cui comunicare liberamente e una spalla su cui contare nei momenti di difficoltà. Kage trova l’amico mai avuto e a lungo cercato, che gli permette di ritornare l’ombra dolce e gentile che era un tempo. L’amicizia tra i due è solidissima e, come ci mostra il finale, va ben oltre il potere e la ricchezza, ribadendo un concetto molto conosciuto, ovvero che chi trova un amico, trova un tesoro.

Queste tematiche, trattate con la maturità delle grandi opere, contribuiscono a rendere “Ranking of Kings” un piccolo capolavoro, di certo non privo di imperfezioni. È pensiero comune che verso il terzo quarto di stagione, l’opera viva un leggero calo, dovuto alla costante ricerca del colpo di scena, che alla lunga avrebbe rischiato di rovinare tutto. Così come è innegabile la mancanza di un certo realismo e, quindi, di drammaticità, che avrebbe reso l’opera ancora migliore. Ma, nonostante tutto, il finale alla vissero per sempre felici e contenti riesce sempre a mettere d’accordo tutti. Per il resto, Wit Studio non ha praticamente sbagliato nulla. Le animazioni, seppur nella loro infantilità, si adattano benissimo alla storia raccontata, che con il fiabesco condivide più di qualche elemento. Le musiche sono stupende, come testimoniano le due opening, più che orecchiabili e ricche di significato. Ottimo il character design, semplice ma efficace. Perfetto il doppiaggio, sia quello giapponese, che quello italiano, con l’immancabile Renato Novara. In entrambi i casi, ho apprezzato molto il lavoro, per nulla semplice, fatto per la voce di Bojji.

Per concludere, vi consiglio di mettere da parte lo scetticismo e di iniziare “Ranking of Kings”, perché non ne resterete delusi.