Recensione
Wolf Children
9.0/10
Hana in giapponese significa "fiore". Hana è anche il nome di una giovane studentessa di Tokyo che si innamora di uno uomo lupo. Hanno due figli insieme: Yuki, la maggiore, è scatenata, vivace e il suo nome significa "neve"; poi c'è Ame, il minore, che è introverso e pauroso e il cui nome significa "pioggia". All'improvviso avviene la tragedia e la famiglia è costretta a trasferirsi in montagna, dove occhi indiscreti non possono scoprire il segreto dei due bambini: quando si agitano, si arrabbiano o emozionano, si trasformano in lupacchiotti. Come si crescono quindi due piccoli bambini-lupo? È difficile, certo, ma forse non più difficile di crescere due bambini qualunque. Tutto qui? Tutto qui. Ah, no, c'è anche un'altra cosa: "Wolf Children" è un capolavoro.
Un passo alla volta, però. "Wolf Children" è, innanzitutto, una metafora o lo è almeno nella misura in cui tenta di spiegare la realtà in termini irreali. Ecco che la storia di una madre e di due figli-lupo diventa la storia di ogni madre e di ogni figlio. Hosoda, il regista, si serve dei tratti bestiali dei bambini per rendere evidente la rappresentazione dei loro istinti e della loro impulsività. La natura dicotomica dei bambini-lupo è invece il riflesso della conflittualità intrinseca nell'adolescenza, della ricerca di identità e della paura di scoprire parti di sé stessi selvagge e incontrollabili. Forse l'uomo è la parte razionale e il lupo quella istintiva (l'uno l'apollinea l'altra la dionisiaca, come vorrebbe Nietzsche). Forse, ma non è ancora abbastanza. In realtà ogni tentativo di spiegare la metafora finisce per sminuirla, non diversamente da come una parafrasi svilisce inevitabilmente una poesia. Chi riuscirebbe infatti a esaurire tutti i significati contenuti nella scena in cui Hana chiede ai figli se vogliono essere uomini o lupi? Chi potrebbe elencare tutte le sfaccettature psicologiche del momento in cui i figli decidono quale identità rendere predominante?
La componente sovrannaturale non è poi mai usata come escamotage narrativo: "Wolf Children" non è un film sui licantropi, ma un film sulla famiglia. Ci si chiede allora le ragioni dietro una scelta così azzardata, il perché raccontare la natura umana attraverso degli uomini-lupo. Lo si capisce perfettamente nella sequenza dello scontro tra i due piccoli protagonisti: un effetto lo dà vedere due ragazzini che litigano, uno completamente diverso osservare due lupi che lottano all'ultimo sangue. Il regista si serve del sovrannaturale come di una potentissima cassa di risonanza, in modo tale che il significato delle immagini che pone su schermo ne risulti amplificato, arricchito e più emotivamente intenso.
È infatti proprio l'emotività l'aspetto più memorabile dell'opera, la capacità di insinuarsi in profondità nell'occhio e nell'animo dello spettatore attraverso scene struggenti dipinte con poche pennellate e con poche parole. Questo perché "Wolf Children" è innanzitutto un film essenziale, a partire dal tratto, dalla scelta di non abusare mai degli effetti speciali o di dettagli inutili, fino ad arrivare alla sceneggiatura: mai una parola di troppo.
Accanto allo straordinario dei piccoli 'wolf children', non resta mai in secondo piano l'apparente normalità di Hana, la giovane madre, la quale, pur priva di qualsiasi dote particolare, ma armata solo di umiltà, determinazione e affetto, riesce comunque a crescere due creature così complesse e impegnative. Ecco il segreto: rendere straordinario l'ordinario. Il film fa però ancora di più, cioè mostrare che lo straordinario c'è sempre stato nell'ordinario. Hosoda cosparge di luce la poesia della vita, perché tutti possano osservarla: i percorsi montuosi, una collina innevata, il romanticismo di camminare vicino senza neppure sfiorarsi, un piatto caldo preparato con cura, i piccoli istanti irripetibili che si vivono nel crescere delle nuove vite, l'impresa di non insegnare loro semplicemente a sopravvivere, ma di renderli in grado di decidere autonomamente come vivere.
L'immedesimazione con i cuccioli non serve infatti a far comprendere i figli, bensì la madre. Non è importante che Yuki e Ame siano bambini-lupo, quanto che Hana sia la madre dei bambini-lupo. Non è importante che loro siano straordinari, ma che la madre sia ordinaria. "Wolf Children" ci chiede quanto ci sia davvero di ordinario nell'ordinario. Cosa c'è di ordinario in una donna qualunque che, senza poteri sovrannaturali o capacità speciali, mossa solo dall'amore materno (che già di per sé ordinario non è), sfida una montagna per riavere suo figlio? Il regista ci mostra dei lupi per farci ricordare degli uomini.
Si potrebbe infine rimproverare a Hosoda un primo atto troppo lento, una parte centrale troppo prolissa e i personaggi di contorno assai poco caratterizzati, ma la verità è che tutto questo non importa. È grazie al regista che questo film esiste. È grazie alla madre ordinaria che i figli possono essere straordinari. La loro. La nostra.
Un passo alla volta, però. "Wolf Children" è, innanzitutto, una metafora o lo è almeno nella misura in cui tenta di spiegare la realtà in termini irreali. Ecco che la storia di una madre e di due figli-lupo diventa la storia di ogni madre e di ogni figlio. Hosoda, il regista, si serve dei tratti bestiali dei bambini per rendere evidente la rappresentazione dei loro istinti e della loro impulsività. La natura dicotomica dei bambini-lupo è invece il riflesso della conflittualità intrinseca nell'adolescenza, della ricerca di identità e della paura di scoprire parti di sé stessi selvagge e incontrollabili. Forse l'uomo è la parte razionale e il lupo quella istintiva (l'uno l'apollinea l'altra la dionisiaca, come vorrebbe Nietzsche). Forse, ma non è ancora abbastanza. In realtà ogni tentativo di spiegare la metafora finisce per sminuirla, non diversamente da come una parafrasi svilisce inevitabilmente una poesia. Chi riuscirebbe infatti a esaurire tutti i significati contenuti nella scena in cui Hana chiede ai figli se vogliono essere uomini o lupi? Chi potrebbe elencare tutte le sfaccettature psicologiche del momento in cui i figli decidono quale identità rendere predominante?
La componente sovrannaturale non è poi mai usata come escamotage narrativo: "Wolf Children" non è un film sui licantropi, ma un film sulla famiglia. Ci si chiede allora le ragioni dietro una scelta così azzardata, il perché raccontare la natura umana attraverso degli uomini-lupo. Lo si capisce perfettamente nella sequenza dello scontro tra i due piccoli protagonisti: un effetto lo dà vedere due ragazzini che litigano, uno completamente diverso osservare due lupi che lottano all'ultimo sangue. Il regista si serve del sovrannaturale come di una potentissima cassa di risonanza, in modo tale che il significato delle immagini che pone su schermo ne risulti amplificato, arricchito e più emotivamente intenso.
È infatti proprio l'emotività l'aspetto più memorabile dell'opera, la capacità di insinuarsi in profondità nell'occhio e nell'animo dello spettatore attraverso scene struggenti dipinte con poche pennellate e con poche parole. Questo perché "Wolf Children" è innanzitutto un film essenziale, a partire dal tratto, dalla scelta di non abusare mai degli effetti speciali o di dettagli inutili, fino ad arrivare alla sceneggiatura: mai una parola di troppo.
Accanto allo straordinario dei piccoli 'wolf children', non resta mai in secondo piano l'apparente normalità di Hana, la giovane madre, la quale, pur priva di qualsiasi dote particolare, ma armata solo di umiltà, determinazione e affetto, riesce comunque a crescere due creature così complesse e impegnative. Ecco il segreto: rendere straordinario l'ordinario. Il film fa però ancora di più, cioè mostrare che lo straordinario c'è sempre stato nell'ordinario. Hosoda cosparge di luce la poesia della vita, perché tutti possano osservarla: i percorsi montuosi, una collina innevata, il romanticismo di camminare vicino senza neppure sfiorarsi, un piatto caldo preparato con cura, i piccoli istanti irripetibili che si vivono nel crescere delle nuove vite, l'impresa di non insegnare loro semplicemente a sopravvivere, ma di renderli in grado di decidere autonomamente come vivere.
L'immedesimazione con i cuccioli non serve infatti a far comprendere i figli, bensì la madre. Non è importante che Yuki e Ame siano bambini-lupo, quanto che Hana sia la madre dei bambini-lupo. Non è importante che loro siano straordinari, ma che la madre sia ordinaria. "Wolf Children" ci chiede quanto ci sia davvero di ordinario nell'ordinario. Cosa c'è di ordinario in una donna qualunque che, senza poteri sovrannaturali o capacità speciali, mossa solo dall'amore materno (che già di per sé ordinario non è), sfida una montagna per riavere suo figlio? Il regista ci mostra dei lupi per farci ricordare degli uomini.
Si potrebbe infine rimproverare a Hosoda un primo atto troppo lento, una parte centrale troppo prolissa e i personaggi di contorno assai poco caratterizzati, ma la verità è che tutto questo non importa. È grazie al regista che questo film esiste. È grazie alla madre ordinaria che i figli possono essere straordinari. La loro. La nostra.