Those Snow White Notes
In soli dodici episodi si è fatto un buon lavoro su uno strumento musicale poco conosciuto da noi: lo shamisen. Dicevo che sono solo dodici episodi, dunque immagino che ci sarà una seconda stagione, perché il fumetto da cui è tratto “Mashiro no Oto” di Marimo Ragawa, pubblicato dalla Kodansha, è già arrivato al ventottesimo volume ed è ancora in corso.
La trama è quella tipica di un romanzo di formazione: scappato a Tokyo dopo la morte del nonno, Setsu scoprirà l’importanza per lui della musica e dell’apprezzamento del pubblico, a cui vorrà offrire il suo suono, contrariando la madre che vuole sentire il suono di suo padre Matsugoro, grande maestro di shamisen che però non si esibiva per le masse. Umeko vuole che il suono con la quale è stata cresciuta venga riconosciuto dal mondo intero.
La crescita di Setsu sta nel comprendere che vuole avere un suono “suo” e che vuole un pubblico, la sua infantilità è che vuole subito essere il numero uno e come in un torneo deve combattere con suoni diversi... ciò lo farà crescere, ma lo farà anche stare male.
Personalmente ho trovato le animazioni dello studio Shin-Ei Animation carine, il problema sta nei personaggi: non so quanti volumi sono stati trasposti, ma è palese che i personaggi secondari sono ombre e svetta il capriccioso Setsu su tutti gli altri, ma la psicologia di questo personaggio non è sfaccettata ma piuttosto ancora infantile.
Alla fine concedo un sette e mezzo, aspettandomi una seconda serie per vedere dove va a parare.
La trama è quella tipica di un romanzo di formazione: scappato a Tokyo dopo la morte del nonno, Setsu scoprirà l’importanza per lui della musica e dell’apprezzamento del pubblico, a cui vorrà offrire il suo suono, contrariando la madre che vuole sentire il suono di suo padre Matsugoro, grande maestro di shamisen che però non si esibiva per le masse. Umeko vuole che il suono con la quale è stata cresciuta venga riconosciuto dal mondo intero.
La crescita di Setsu sta nel comprendere che vuole avere un suono “suo” e che vuole un pubblico, la sua infantilità è che vuole subito essere il numero uno e come in un torneo deve combattere con suoni diversi... ciò lo farà crescere, ma lo farà anche stare male.
Personalmente ho trovato le animazioni dello studio Shin-Ei Animation carine, il problema sta nei personaggi: non so quanti volumi sono stati trasposti, ma è palese che i personaggi secondari sono ombre e svetta il capriccioso Setsu su tutti gli altri, ma la psicologia di questo personaggio non è sfaccettata ma piuttosto ancora infantile.
Alla fine concedo un sette e mezzo, aspettandomi una seconda serie per vedere dove va a parare.
Al di là di quello che è il gusto personale di ognuno, e levato ogni filtro che copre i nostri occhi, bisogna trarre le considerazioni finali su uno degli anime, che almeno a inizio anno, era uno dei più attesi.
“Mashiro no Oto” non è un brutto anime, ma non è nemmeno riuscito a raggiungere la maturità con cui cercava di ricoprirsi dall'inizio alla fine.
Il fulcro centrale dell'anime con cui Setsu e company cercavano di trascinare la serie era la ricerca del proprio suono con cui dominare la scena e mostrarlo alle orecchie degli spettatori, come se fosse una sorta di impronta unica e immutabile, con cui essere riconosciuti nel mondo. L'argomento base posto così in questo modo non era nemmeno brutto, ma non poteva bastare a reggere in piedi una storia del genere. Gli scricchiolii che qualcosa non andasse li abbiamo avuti fin da subito, non appena il focus di trama è stato dichiarato e messo sulla serie, come una sorta di chiavistello da cui far emergere tutte le sue sfumature.
L'argomento base era incredibilmente debole. È vero che la velleità artistica non è un tratto che può essere sottovalutato e nemmeno ridimensionato ad argomento secondario, ma non si può fare di quello nemmeno la barca in cui trascinare la narrazione e far viaggiare tutti quanti. L'idea di fuga solitaria alla ricerca del proprio suono e del confezionare ogni rapporto in base a quello sembrava come una puntina di un disco che non riesce a stare nel proprio solco. Se paragonato ad altre storie di cui questa faceva il verso, e di cui la regia si è avvalsa delle volte come spunto per raccontare sé stessa, se lo paragono a un “Marzo da Leoni” appunto, emerge una differenza abissale. Mentre la storia di Rei si basava sul fatto di un brutto anatroccolo aggiunto a una famiglia non propria e dove si è sempre sentito un estraneo, e che ritrova la propria dimensione solo quando un’altra, nel quartiere Marzo, lo sceglie, strappandolo all'inverno della sua infanzia, “Mashiro no Oto” nei rapporti interpersonali invece si è rivelato un vero fallimento. L'idea dell'illustre nonno sconosciuto, che ha fatto del suo suono personale il proprio mondo, messa nella storia sembrava sì un buono spunto, ma si è rivelato a lungo andare più un pretesto che altro. I flashback infatti non sono mai riusciti a sondare a fondo il rapporto tra i personaggi. E persino con Setsu non hanno mai mostrato un legame immutabile di quelli solidi che in genere caratterizzano nonno e nipote. Si consumava solo nell'arte musicale di cui diventava esempio, ma per quanto riguarda l'affettività e il proprio posto nel cuore, non aveva né dimensione né spazio. Allo stesso modo, anche per quanto riguarda i rapporti con il resto della famiglia, siamo rimasti esposti a una costellazione frammentata dove abbiamo dovuto farci andare bene le varie luci che ne facevano parte.
Ma è qui che arrivano davvero le note amare di questa serie. Per ogni elemento della famiglia che veniva tirato in ballo, mancava sempre un approfondimento a valle che ci facesse capire bene i turbamenti e l'ossatura psicologica di un ragazzo che per la prima volta si avventurava nelle scuole superiori. La distanza che intercorreva tra lui e la madre, star di una delle aziende di bellezza del paese nipponico, si è solo intravista e spesso usata come escamotage comico, quando invece bisognava farlo diventare uno degli argomenti principali. Invece ne dissipava l'argomento, diradandolo e spingendolo con dei rimandi, dandoci sempre l'impressione che probabilmente ne avrebbero parlato dopo. Ma quel dopo non è mai sopraggiunto. Allo stesso modo per ogni personaggio aggiunto allo spartito della trama, non si è mai fatta luce. Così, anche quando abbiamo visto il fratello maggiore, il loro rapporto è rimasto nell'ombra. Ogni elemento di cui ci sarebbe stato da dire veniva messo a dormire e tenuto nelle sotto-trame un po' come se non fosse importante. Così, quando per la prima volta, arrivati nella parte finale, abbiamo incontrato il padre, la storia sembrava già con tanta di quella ruggine addosso, che i buoni intenti sono tutti precipitati al suolo.
Il canovaccio alla fine era sempre lo stesso, la trama tirava fuori un nuovo personaggio importante, ma la stessa non ne parlava, e veniva esposto invece l'elemento strumentale come unica leva a cui fare riferimento: “il suono di Setsu e il suono del nonno” oppure “il suono del padre e il suono che avrebbe voluto la madre”, ma fatto sempre senza mai mostrare i legami che tenevano uniti i vari elementi, tenendoli insabbiati come se non avessero previsto di mostrarceli fin dall'inizio.
Senza ombra di dubbio, c'era qualcosa di molto dissonante nella serie, visto che ad ogni episodio fatto bene, se ne accompagnavano altri claudicanti. Tanto che ho avuto l'impressione che l'autrice, Marimo Ragawa, stesse solo andando a tentativi, e non avesse previsto uno schema narrativo su cui architettare l'intera serie. L'idea che stesse andando a braccio si è palesato subito fin dall'inizio, quando il protagonista giunge per la prima volta a Tokyo e inserisce dei personaggi episodici, per poi decespugliarli subito dopo e mandarli eternamente in vacanza. Una cosa del genere io non l'avevo mai vista. E sentivo in giro per la rete dei vari gruppi Facebook addiritura dei commenti che dicevano: “A me sembra anche meglio di «Kono Oto Tomare»”... ok, basta con gli scherzi, mi dicevo, va bene tutto, ed è giusto parlare di impressioni, quando ci sono. Ma qua si parla di comparare una trama solida come quella di “Kono Oto Tomare”, costruita in maniera certosina, dove l'architettura centrale è rappresentata dal dramma di Chika, la cui vita viene distrutta e stravolta dai dispiaceri e dell'essere rimasto orfano persino della musica, e dove veniva puntato come una bussola, come se fosse un teppista che aveva distrutto la sua famiglia, a una storia dove l'unica cosa che suonava alle nostre orecchie era che il povero Setsu non avesse un suo suono. Ecco, mi sembrava di non aver compreso bene, e che probabilmente le impressioni iniziali si sarebbero diradate strada facendo. Una cosa che io vedevo fin da subito ad altri è stata chiara solo a fine della serie. “Mashiro no Oto” aveva dei problemi di fondo dati dal fatto che la sua autrice avesse deciso di suo pugno di alleggerirla, mostrando solo il pretesto e mai l'insieme dei suoi elementi, e soprattutto nell'idea di andare a tentativi o forse, meglio dire, a salti, nel far avanzare le dinamiche della narrazione.
Però, ovvio, come ho detto all'inizio, “Mashiro no Oto” alla fine non è un brutto anime, ci sono delle cose che sono rimaste nella memoria e difficilmente se ne andranno, come i momenti in cui il suono si diffonde dallo shamisen, e noi veniamo catturati dalle suggestioni emotive delle note, capaci di farci vedere sottopelle le emozioni dei protagonisti. O sulle vicende del club scolastico, anche se, ad essere onesto, potevano certamente fare maggiormente e portare in luce l'odissea sentimentale che si covava nascosta nel petto di tutti i suoi elementi. Quindi, alla fine non è tutto da buttare, ma devo essere franco, la storia non è riuscita ad emergere come avrebbe dovuto fare. Non va oltre un sette, e mi dispiace davvero per tutto il potenziale inespresso e tenuto a freno dal pretesto con cui l'autrice cerca di confezionare questo prodotto.
Così proprio non va, cara Marimo Ragawa.
“Mashiro no Oto” non è un brutto anime, ma non è nemmeno riuscito a raggiungere la maturità con cui cercava di ricoprirsi dall'inizio alla fine.
Il fulcro centrale dell'anime con cui Setsu e company cercavano di trascinare la serie era la ricerca del proprio suono con cui dominare la scena e mostrarlo alle orecchie degli spettatori, come se fosse una sorta di impronta unica e immutabile, con cui essere riconosciuti nel mondo. L'argomento base posto così in questo modo non era nemmeno brutto, ma non poteva bastare a reggere in piedi una storia del genere. Gli scricchiolii che qualcosa non andasse li abbiamo avuti fin da subito, non appena il focus di trama è stato dichiarato e messo sulla serie, come una sorta di chiavistello da cui far emergere tutte le sue sfumature.
L'argomento base era incredibilmente debole. È vero che la velleità artistica non è un tratto che può essere sottovalutato e nemmeno ridimensionato ad argomento secondario, ma non si può fare di quello nemmeno la barca in cui trascinare la narrazione e far viaggiare tutti quanti. L'idea di fuga solitaria alla ricerca del proprio suono e del confezionare ogni rapporto in base a quello sembrava come una puntina di un disco che non riesce a stare nel proprio solco. Se paragonato ad altre storie di cui questa faceva il verso, e di cui la regia si è avvalsa delle volte come spunto per raccontare sé stessa, se lo paragono a un “Marzo da Leoni” appunto, emerge una differenza abissale. Mentre la storia di Rei si basava sul fatto di un brutto anatroccolo aggiunto a una famiglia non propria e dove si è sempre sentito un estraneo, e che ritrova la propria dimensione solo quando un’altra, nel quartiere Marzo, lo sceglie, strappandolo all'inverno della sua infanzia, “Mashiro no Oto” nei rapporti interpersonali invece si è rivelato un vero fallimento. L'idea dell'illustre nonno sconosciuto, che ha fatto del suo suono personale il proprio mondo, messa nella storia sembrava sì un buono spunto, ma si è rivelato a lungo andare più un pretesto che altro. I flashback infatti non sono mai riusciti a sondare a fondo il rapporto tra i personaggi. E persino con Setsu non hanno mai mostrato un legame immutabile di quelli solidi che in genere caratterizzano nonno e nipote. Si consumava solo nell'arte musicale di cui diventava esempio, ma per quanto riguarda l'affettività e il proprio posto nel cuore, non aveva né dimensione né spazio. Allo stesso modo, anche per quanto riguarda i rapporti con il resto della famiglia, siamo rimasti esposti a una costellazione frammentata dove abbiamo dovuto farci andare bene le varie luci che ne facevano parte.
Ma è qui che arrivano davvero le note amare di questa serie. Per ogni elemento della famiglia che veniva tirato in ballo, mancava sempre un approfondimento a valle che ci facesse capire bene i turbamenti e l'ossatura psicologica di un ragazzo che per la prima volta si avventurava nelle scuole superiori. La distanza che intercorreva tra lui e la madre, star di una delle aziende di bellezza del paese nipponico, si è solo intravista e spesso usata come escamotage comico, quando invece bisognava farlo diventare uno degli argomenti principali. Invece ne dissipava l'argomento, diradandolo e spingendolo con dei rimandi, dandoci sempre l'impressione che probabilmente ne avrebbero parlato dopo. Ma quel dopo non è mai sopraggiunto. Allo stesso modo per ogni personaggio aggiunto allo spartito della trama, non si è mai fatta luce. Così, anche quando abbiamo visto il fratello maggiore, il loro rapporto è rimasto nell'ombra. Ogni elemento di cui ci sarebbe stato da dire veniva messo a dormire e tenuto nelle sotto-trame un po' come se non fosse importante. Così, quando per la prima volta, arrivati nella parte finale, abbiamo incontrato il padre, la storia sembrava già con tanta di quella ruggine addosso, che i buoni intenti sono tutti precipitati al suolo.
Il canovaccio alla fine era sempre lo stesso, la trama tirava fuori un nuovo personaggio importante, ma la stessa non ne parlava, e veniva esposto invece l'elemento strumentale come unica leva a cui fare riferimento: “il suono di Setsu e il suono del nonno” oppure “il suono del padre e il suono che avrebbe voluto la madre”, ma fatto sempre senza mai mostrare i legami che tenevano uniti i vari elementi, tenendoli insabbiati come se non avessero previsto di mostrarceli fin dall'inizio.
Senza ombra di dubbio, c'era qualcosa di molto dissonante nella serie, visto che ad ogni episodio fatto bene, se ne accompagnavano altri claudicanti. Tanto che ho avuto l'impressione che l'autrice, Marimo Ragawa, stesse solo andando a tentativi, e non avesse previsto uno schema narrativo su cui architettare l'intera serie. L'idea che stesse andando a braccio si è palesato subito fin dall'inizio, quando il protagonista giunge per la prima volta a Tokyo e inserisce dei personaggi episodici, per poi decespugliarli subito dopo e mandarli eternamente in vacanza. Una cosa del genere io non l'avevo mai vista. E sentivo in giro per la rete dei vari gruppi Facebook addiritura dei commenti che dicevano: “A me sembra anche meglio di «Kono Oto Tomare»”... ok, basta con gli scherzi, mi dicevo, va bene tutto, ed è giusto parlare di impressioni, quando ci sono. Ma qua si parla di comparare una trama solida come quella di “Kono Oto Tomare”, costruita in maniera certosina, dove l'architettura centrale è rappresentata dal dramma di Chika, la cui vita viene distrutta e stravolta dai dispiaceri e dell'essere rimasto orfano persino della musica, e dove veniva puntato come una bussola, come se fosse un teppista che aveva distrutto la sua famiglia, a una storia dove l'unica cosa che suonava alle nostre orecchie era che il povero Setsu non avesse un suo suono. Ecco, mi sembrava di non aver compreso bene, e che probabilmente le impressioni iniziali si sarebbero diradate strada facendo. Una cosa che io vedevo fin da subito ad altri è stata chiara solo a fine della serie. “Mashiro no Oto” aveva dei problemi di fondo dati dal fatto che la sua autrice avesse deciso di suo pugno di alleggerirla, mostrando solo il pretesto e mai l'insieme dei suoi elementi, e soprattutto nell'idea di andare a tentativi o forse, meglio dire, a salti, nel far avanzare le dinamiche della narrazione.
Però, ovvio, come ho detto all'inizio, “Mashiro no Oto” alla fine non è un brutto anime, ci sono delle cose che sono rimaste nella memoria e difficilmente se ne andranno, come i momenti in cui il suono si diffonde dallo shamisen, e noi veniamo catturati dalle suggestioni emotive delle note, capaci di farci vedere sottopelle le emozioni dei protagonisti. O sulle vicende del club scolastico, anche se, ad essere onesto, potevano certamente fare maggiormente e portare in luce l'odissea sentimentale che si covava nascosta nel petto di tutti i suoi elementi. Quindi, alla fine non è tutto da buttare, ma devo essere franco, la storia non è riuscita ad emergere come avrebbe dovuto fare. Non va oltre un sette, e mi dispiace davvero per tutto il potenziale inespresso e tenuto a freno dal pretesto con cui l'autrice cerca di confezionare questo prodotto.
Così proprio non va, cara Marimo Ragawa.