L'arte della felicità
Un cartone animato che si nutre di realtà: questo è “L'Arte della Felicità”, film d’esordio del regista Rak, divenuto più famoso col successivo “Gatta cenerentola”. Perché se ne sente parlare così poco? L’argomento e la grafica si collocano in una fascia d’animazione adatta ad un pubblico adulto, il che costituisce il primo pregio dell’opera: completamente libero dagli schemi usuali, Rak dipinge la città di Napoli in modo del tutto personale.
Faccio una piccola premessa: ho visto "Gatta cenerentola", prima di questo, e lì la città viene mostrata in uno scenario di degrado e miseria. Ne “L'Arte della Felicità”, le cose non sono molto diverse. Napoli sembra sull’orlo della sua apocalisse (i rimandi che il personaggio dello Speaker fa all’Apocalisse di Giovanni avallano la teoria), è costantemente invasa dai rifiuti, piove di continuo, senza contare la minaccia di eruzione del Vesuvio. Però, come nel secondo film di Rak, viene legittimo chiedersi se i colori grigi e cupi e l’atmosfera tenebrosa non siano piuttosto la proiezione dello stato d’animo del protagonista (ipotesi comprovata dalle scene soleggiate finali e dallo Speaker, che parla di una città più pulita e bella).
La trama c’è e non c’è: Sergio è un tassista. Ha perduto il fratello, ma non riesce a perdonargli l’abbandono. Il suo taxi è la descrizione perfetta del suo personaggio: una miriade di foto colorate e felici, legate al suo passato e un posacenere pieno di mozziconi, legato al suo presente. Il tutto condito dalla presenza costante della radio accesa, l’unica cosa apparentemente felice nella vita di Sergio. Perché la musica fa da padrona per tutto il film, è dappertutto, è ciò che legava i due fratelli, l’unica cosa che il protagonista ancora ama (simbolica la scena della sua prima cliente che, piangendo, chiede che la radio sia spenta, e lui rifiuta).
Oltre a questo, c’è lei: la lettera che Alfredo ha scritto prima di morire e che suo fratello rifiuta di aprire.
La prima ragazza a salire sul taxi sarà la prima crepa nella nuova vita di Sergio… e da lì ogni persona che entrerà in contatto con lui gli ricorderà in qualche modo il fratello perduto. Tutto dialogano con lui, tutti hanno una loro concezione di cosa sia la felicità, ma ancora non basta a un uomo che ha perduto la propria raison d’etre:
“Venite qui, a confidarmi le cose che sono importanti per voi, a raccontarmi le vostre storie, i vostri drammi e poi ve ne andate. E allora io dico, ma che cazzo siete? Anime dannate, fantasmi! E per chi mi avete preso? Per il vostro specchio, per il prete! Vi siete chiesti chi cazzo sono io? Ditemi, cosa me ne frega a me delle vostre storie, se poi ognuno se ne va per i cazzi suoi? Che cazzo mi venite a raccontare gli affaracci vostri, se poi mi dovete lasciare solo in questo cesso di taxi a girare a vuoto per cent'anni? Vaffanculo a quelli che si sfogano con me e poi di me non gliene frega un cazzo!”
Il regista non si limita a raccontare una storia, cerca di indagare su cosa sia l’anima, sul dove essa risieda, se torna in qualche luogo dopo la morte: “Dicono che l'anima ritrova sempre la strada di casa. Non importa quanto tempo è passato, non importa se il momento è quello giusto... L'anima torna. Ma quello che mi chiedo è: qual è la sua casa? Questa città? Noi? Siamo davvero noi la casa dell'anima? O siamo piuttosto la sua gabbia?”
Quanto a citazioni meravigliose, il film non delude minimamente, ne è pieno, e ognuna raggiunge il suo obiettivo di interrogare lo spettatore sul senso della vita.
Faccio una piccola premessa: ho visto "Gatta cenerentola", prima di questo, e lì la città viene mostrata in uno scenario di degrado e miseria. Ne “L'Arte della Felicità”, le cose non sono molto diverse. Napoli sembra sull’orlo della sua apocalisse (i rimandi che il personaggio dello Speaker fa all’Apocalisse di Giovanni avallano la teoria), è costantemente invasa dai rifiuti, piove di continuo, senza contare la minaccia di eruzione del Vesuvio. Però, come nel secondo film di Rak, viene legittimo chiedersi se i colori grigi e cupi e l’atmosfera tenebrosa non siano piuttosto la proiezione dello stato d’animo del protagonista (ipotesi comprovata dalle scene soleggiate finali e dallo Speaker, che parla di una città più pulita e bella).
La trama c’è e non c’è: Sergio è un tassista. Ha perduto il fratello, ma non riesce a perdonargli l’abbandono. Il suo taxi è la descrizione perfetta del suo personaggio: una miriade di foto colorate e felici, legate al suo passato e un posacenere pieno di mozziconi, legato al suo presente. Il tutto condito dalla presenza costante della radio accesa, l’unica cosa apparentemente felice nella vita di Sergio. Perché la musica fa da padrona per tutto il film, è dappertutto, è ciò che legava i due fratelli, l’unica cosa che il protagonista ancora ama (simbolica la scena della sua prima cliente che, piangendo, chiede che la radio sia spenta, e lui rifiuta).
Oltre a questo, c’è lei: la lettera che Alfredo ha scritto prima di morire e che suo fratello rifiuta di aprire.
La prima ragazza a salire sul taxi sarà la prima crepa nella nuova vita di Sergio… e da lì ogni persona che entrerà in contatto con lui gli ricorderà in qualche modo il fratello perduto. Tutto dialogano con lui, tutti hanno una loro concezione di cosa sia la felicità, ma ancora non basta a un uomo che ha perduto la propria raison d’etre:
“Venite qui, a confidarmi le cose che sono importanti per voi, a raccontarmi le vostre storie, i vostri drammi e poi ve ne andate. E allora io dico, ma che cazzo siete? Anime dannate, fantasmi! E per chi mi avete preso? Per il vostro specchio, per il prete! Vi siete chiesti chi cazzo sono io? Ditemi, cosa me ne frega a me delle vostre storie, se poi ognuno se ne va per i cazzi suoi? Che cazzo mi venite a raccontare gli affaracci vostri, se poi mi dovete lasciare solo in questo cesso di taxi a girare a vuoto per cent'anni? Vaffanculo a quelli che si sfogano con me e poi di me non gliene frega un cazzo!”
Il regista non si limita a raccontare una storia, cerca di indagare su cosa sia l’anima, sul dove essa risieda, se torna in qualche luogo dopo la morte: “Dicono che l'anima ritrova sempre la strada di casa. Non importa quanto tempo è passato, non importa se il momento è quello giusto... L'anima torna. Ma quello che mi chiedo è: qual è la sua casa? Questa città? Noi? Siamo davvero noi la casa dell'anima? O siamo piuttosto la sua gabbia?”
Quanto a citazioni meravigliose, il film non delude minimamente, ne è pieno, e ognuna raggiunge il suo obiettivo di interrogare lo spettatore sul senso della vita.