La canzone del mare
Ogni tanto vi capita di rievocare dei ricordi felici della vostra infanzia? A me ogni tanto succede, e uno tra i momenti che ricordo con più piacere era quello della fiaba della buona notte.
Il letto è sempre stato il mio migliore amico, tanto che ancora oggi divento triste, quando la mattina devo interrompere quell’abbraccio durato tutta la notte. Tuttavia il motivo per cui ricordo con piacere le fiabe non è certo perché andavo a letto, ma quei dieci minuti prima di addormentarmi, quei minuti in cui sognavo ad occhi aperti mondi fantastici, abitati da personaggi stravaganti alle prese con problemi particolari, tutto orchestrato dalla voce narrante di mia madre. Nel mondo in cui viviamo la magia non esiste, eppure per me quel momento era equiparabile alla magia.
Vi chiederete: "Perché fare un'introduzione così personale?" Beh, perché secondo me non c’era modo migliore per introdurre una fiaba animata come “La canzone del mare”, la quale, incredibilmente, mi ha riportato a quella magia vissuta da bambino.
“La canzone del mare” è un film d’animazione irlandese del 2014, anche se a me piace definirlo fiaba animata per adulti e bambini. La storia, seguendo le vicende di Ben (dieci anni) e della sorellina Saoirse (sei anni), apparentemente muta perché ancora non ha imparato a parlare, svilupperà una trama ricca di richiami ad antiche leggende e fiabe irlandesi, adattandole e romanzandole a seconda delle necessità di trama. Nella storia troveremo la selkie, una creatura mitologica che, secondo la leggenda, era capace di trasformare il suo corpo da foca in quello di una donna, per poi tornare alla sua forma originale grazie all'utilizzo del mantello. Troveranno spazio anche altre figure mitologiche come Mac Lir, il dio del mare, e Macha, dea delle battaglie, così come altri personaggi o usanze associabili alla mitologia irlandese.
La trama, per quanto possa risultare interessante, è pensata per un pubblico molto giovane, infatti, soprattutto nella prima parte, un adulto potrebbe accidentalmente emettere qualche sbadiglio profondo con tanto di lacrima; tuttavia, man mano che si prosegue con la storia e le varie trame si intrecciano, quelle che prima erano lacrime da sbadiglio potrebbero trasformarsi in lacrime di commozione, leggera certo, ma pur sempre di commozione (la metamorfosi della lacrime per me è avvenuta).
Se nella narrativa il film potrebbe lasciare un po’ a desiderare, il comparto tecnico, invece, nasconde la parte più bella e preziosa di questo prodotto.
Devo ammettere che, prima di guardare il film, avevo dei dubbi proprio sulla natura tecnica, infatti, guardando le immagini di anteprima, lo stile sembrava abbastanza lontano dai miei gusti e fin troppo semplice... tuttavia, sono bastati i primi cinque minuti per farmi cambiare completamente idea.
Veniamo accolti da una voce narrante femminile molto chiara, dolce e accogliente, accompagnata da disegni dalle linee semplici e sinuose, racchiuse in una vignettatura bianca che ricorda le nuvole, il tutto colorato con delle tonalità prettamente calde e dall’effetto pastello. A completare il tutto c'è una dolce melodia, che fa da cornice a questo quadretto idilliaco iniziale.
Lo stile dei disegni è dominato da linee morbide e sinuose in cui però trovano spazio anche delle linee più nette e spigolose. Questo dualismo è gestito alla perfezione dalla produzione, la quale riesce abilmente a ricreare sia immagini che ricordano i disegni di un bambino, quindi donando un senso di tranquillità e pace allo spettatore più giovane, sia immagini molto più asimmetriche che portano alla memoria di un adulto alcuni famosi quadri di rinomati pittori, tutto questo senza mai tradire l’identità artistica del film. I colori, soprattutto per la gestione delle luci, sono l’elemento grafico che mi ha più impressionato: nonostante uno stile completamente 2D e fatto di fondali piatti, il suo uso dona una tridimensionalità alle scene che raramente mi è capitato di vedere.
L’altro grande elemento di pregio del film è il comparto sonoro. Le scene sono sempre accompagnate da pochi ma da eccentrici suoni: che si tratti di una goccia in una grotta o il vento tra le foglie degli alberi, i suoni sono sempre limpidi e cristallini, ognuno è protagonista, non fanno a botte tra di loro per chi deve prendere il sopravvento alle orecchie dello spettatore, c’è armonia.
A questo valzer ballato da grafica e sonoro, la colonna sonora non poteva che metterci la musica. Che sia una nota cadenzata o un canto, ogni scena in cui c’è l’accompagnamento musicale risulta permeata di un’ulteriore dose di mistero, magia, tristezza, paura e felicità, in relazione ovviamente all’emozione che quella scena voleva mostrare. Per quanto io abbia trovato perfetto l’accompagnamento musicale del film, qualcuno potrebbe trovare le melodie un po’ ripetitive, dato che alcuni motivetti sono riproposti in diverse scene con piccole modifiche.
Consiglierei il film? Sì, perché, nonostante il target di riferimento siano i bambini, anche un adulto, nella morale che il film nasconde, può ritrovarsi ed emozionarsi guardando questo prodotto.
Se si è genitori e si è alla ricerca di un film da guardare con i propri figli, “La canzone del mare” penso sia il film perfetto da guardare in famiglia. Chi invece, come me, da buon lupo solitario ha voglia di rilassarsi un po’, guardando un bel prodotto audio-visivo, potrebbe trovare in questo film il candidato perfetto per passare una dolce e spensierata serata.
Il letto è sempre stato il mio migliore amico, tanto che ancora oggi divento triste, quando la mattina devo interrompere quell’abbraccio durato tutta la notte. Tuttavia il motivo per cui ricordo con piacere le fiabe non è certo perché andavo a letto, ma quei dieci minuti prima di addormentarmi, quei minuti in cui sognavo ad occhi aperti mondi fantastici, abitati da personaggi stravaganti alle prese con problemi particolari, tutto orchestrato dalla voce narrante di mia madre. Nel mondo in cui viviamo la magia non esiste, eppure per me quel momento era equiparabile alla magia.
Vi chiederete: "Perché fare un'introduzione così personale?" Beh, perché secondo me non c’era modo migliore per introdurre una fiaba animata come “La canzone del mare”, la quale, incredibilmente, mi ha riportato a quella magia vissuta da bambino.
“La canzone del mare” è un film d’animazione irlandese del 2014, anche se a me piace definirlo fiaba animata per adulti e bambini. La storia, seguendo le vicende di Ben (dieci anni) e della sorellina Saoirse (sei anni), apparentemente muta perché ancora non ha imparato a parlare, svilupperà una trama ricca di richiami ad antiche leggende e fiabe irlandesi, adattandole e romanzandole a seconda delle necessità di trama. Nella storia troveremo la selkie, una creatura mitologica che, secondo la leggenda, era capace di trasformare il suo corpo da foca in quello di una donna, per poi tornare alla sua forma originale grazie all'utilizzo del mantello. Troveranno spazio anche altre figure mitologiche come Mac Lir, il dio del mare, e Macha, dea delle battaglie, così come altri personaggi o usanze associabili alla mitologia irlandese.
La trama, per quanto possa risultare interessante, è pensata per un pubblico molto giovane, infatti, soprattutto nella prima parte, un adulto potrebbe accidentalmente emettere qualche sbadiglio profondo con tanto di lacrima; tuttavia, man mano che si prosegue con la storia e le varie trame si intrecciano, quelle che prima erano lacrime da sbadiglio potrebbero trasformarsi in lacrime di commozione, leggera certo, ma pur sempre di commozione (la metamorfosi della lacrime per me è avvenuta).
Se nella narrativa il film potrebbe lasciare un po’ a desiderare, il comparto tecnico, invece, nasconde la parte più bella e preziosa di questo prodotto.
Devo ammettere che, prima di guardare il film, avevo dei dubbi proprio sulla natura tecnica, infatti, guardando le immagini di anteprima, lo stile sembrava abbastanza lontano dai miei gusti e fin troppo semplice... tuttavia, sono bastati i primi cinque minuti per farmi cambiare completamente idea.
Veniamo accolti da una voce narrante femminile molto chiara, dolce e accogliente, accompagnata da disegni dalle linee semplici e sinuose, racchiuse in una vignettatura bianca che ricorda le nuvole, il tutto colorato con delle tonalità prettamente calde e dall’effetto pastello. A completare il tutto c'è una dolce melodia, che fa da cornice a questo quadretto idilliaco iniziale.
Lo stile dei disegni è dominato da linee morbide e sinuose in cui però trovano spazio anche delle linee più nette e spigolose. Questo dualismo è gestito alla perfezione dalla produzione, la quale riesce abilmente a ricreare sia immagini che ricordano i disegni di un bambino, quindi donando un senso di tranquillità e pace allo spettatore più giovane, sia immagini molto più asimmetriche che portano alla memoria di un adulto alcuni famosi quadri di rinomati pittori, tutto questo senza mai tradire l’identità artistica del film. I colori, soprattutto per la gestione delle luci, sono l’elemento grafico che mi ha più impressionato: nonostante uno stile completamente 2D e fatto di fondali piatti, il suo uso dona una tridimensionalità alle scene che raramente mi è capitato di vedere.
L’altro grande elemento di pregio del film è il comparto sonoro. Le scene sono sempre accompagnate da pochi ma da eccentrici suoni: che si tratti di una goccia in una grotta o il vento tra le foglie degli alberi, i suoni sono sempre limpidi e cristallini, ognuno è protagonista, non fanno a botte tra di loro per chi deve prendere il sopravvento alle orecchie dello spettatore, c’è armonia.
A questo valzer ballato da grafica e sonoro, la colonna sonora non poteva che metterci la musica. Che sia una nota cadenzata o un canto, ogni scena in cui c’è l’accompagnamento musicale risulta permeata di un’ulteriore dose di mistero, magia, tristezza, paura e felicità, in relazione ovviamente all’emozione che quella scena voleva mostrare. Per quanto io abbia trovato perfetto l’accompagnamento musicale del film, qualcuno potrebbe trovare le melodie un po’ ripetitive, dato che alcuni motivetti sono riproposti in diverse scene con piccole modifiche.
Consiglierei il film? Sì, perché, nonostante il target di riferimento siano i bambini, anche un adulto, nella morale che il film nasconde, può ritrovarsi ed emozionarsi guardando questo prodotto.
Se si è genitori e si è alla ricerca di un film da guardare con i propri figli, “La canzone del mare” penso sia il film perfetto da guardare in famiglia. Chi invece, come me, da buon lupo solitario ha voglia di rilassarsi un po’, guardando un bel prodotto audio-visivo, potrebbe trovare in questo film il candidato perfetto per passare una dolce e spensierata serata.
"He went to sea for the day.
He wanted to know what to say.
When he's asked, what he'd done,
in the past to someone
that he loves endlessly.
Now she's gone, so is he."
Il filo che lega queste parole al film "La canzone del mare" è sottile, ma, con calma, vi accompagno. A cantarle è Lisa Hanningan, una ninfa del folk irlandese che al mare ha dedicato gran parte del suo repertorio. Esordisce con questo singolo, una canzone dall'andamento quasi allegro, che però parla di malinconia e perdita.
Sì, perché la pellicola in questione inizia proprio così, con una perdita, che sarà una nuvola grigia che permeerà costantemente il film. Un film animato che è parecchio lontano da quelli che possono essere i tratti dettagliati dell'animazione nipponica, o dall'animazione 3D tanto gettonata nel resto del mondo. Qui i disegni sembrano quasi un collage, come se fossero ricamati assieme. Le forme variano per ogni soggetto, e il risultato è una narrazione molto visiva ma anche poco incline a dettagli verosimili. Niente che non sia in qualche modo troppo astratto o di difficile comprensione, solo un po' fuori dal comune.
Una festival di forme, sagome e linee che tratteggiano continuamente la storia che il film racconta, come in un flusso di coscienza, o in un sogno. La storia, appunto, è un mix nemmeno troppo scontato di classici per bambini e leggende sul mare del folklore nordico, che vengono volentieri più volte citate. La nostalgia e il mare quindi, un binomio che, come spesso succede, anche in questo film va a braccetto.
Ma il titolo suggerisce un'altra parola. Quella del mare è una canzone, una musica, particolare che non viene mai lasciato da parte nel film. Anzi, tanto importante da essere proprio una canzone, una delle cose più importanti a livello narrativo. Ed è qui che ritorno a chiamare in causa Lisa Hanningan, siccome pare quasi una coincidenza (o una scontata conseguenza) che anni dopo sia proprio lei la voce de "La canzone del mare".
Nonostante queste mie premesse che potrebbero sembrare entusiastiche, il film non brilla sempre, anzi, certe volte procede lento come un mare calmo, e non sempre la sua componente visiva colma una narrazione forse troppo a scomparti e non sempre accattivante. Essendo un film per bambini e ragazzi, non è sempre facile o scontato entrare nella sfera emotiva che richiede.
Non è proprio il tipo di film che incolla allo schermo, ma forse proprio questo può essere il suo punto di forza. Non cercare di stupire con arzigogoli di qualche specie, ma raccontando una storia tenera e contrastante in modo sincero e onesto. Che è come sono le canzoni folk, il mare e la tradizione irlandese.
Certo, poi c'era anche un altro che, invece, del mare diceva che è profondo e che non lo puoi bloccare... ma questa è tutta un'altra storia.
He wanted to know what to say.
When he's asked, what he'd done,
in the past to someone
that he loves endlessly.
Now she's gone, so is he."
Il filo che lega queste parole al film "La canzone del mare" è sottile, ma, con calma, vi accompagno. A cantarle è Lisa Hanningan, una ninfa del folk irlandese che al mare ha dedicato gran parte del suo repertorio. Esordisce con questo singolo, una canzone dall'andamento quasi allegro, che però parla di malinconia e perdita.
Sì, perché la pellicola in questione inizia proprio così, con una perdita, che sarà una nuvola grigia che permeerà costantemente il film. Un film animato che è parecchio lontano da quelli che possono essere i tratti dettagliati dell'animazione nipponica, o dall'animazione 3D tanto gettonata nel resto del mondo. Qui i disegni sembrano quasi un collage, come se fossero ricamati assieme. Le forme variano per ogni soggetto, e il risultato è una narrazione molto visiva ma anche poco incline a dettagli verosimili. Niente che non sia in qualche modo troppo astratto o di difficile comprensione, solo un po' fuori dal comune.
Una festival di forme, sagome e linee che tratteggiano continuamente la storia che il film racconta, come in un flusso di coscienza, o in un sogno. La storia, appunto, è un mix nemmeno troppo scontato di classici per bambini e leggende sul mare del folklore nordico, che vengono volentieri più volte citate. La nostalgia e il mare quindi, un binomio che, come spesso succede, anche in questo film va a braccetto.
Ma il titolo suggerisce un'altra parola. Quella del mare è una canzone, una musica, particolare che non viene mai lasciato da parte nel film. Anzi, tanto importante da essere proprio una canzone, una delle cose più importanti a livello narrativo. Ed è qui che ritorno a chiamare in causa Lisa Hanningan, siccome pare quasi una coincidenza (o una scontata conseguenza) che anni dopo sia proprio lei la voce de "La canzone del mare".
Nonostante queste mie premesse che potrebbero sembrare entusiastiche, il film non brilla sempre, anzi, certe volte procede lento come un mare calmo, e non sempre la sua componente visiva colma una narrazione forse troppo a scomparti e non sempre accattivante. Essendo un film per bambini e ragazzi, non è sempre facile o scontato entrare nella sfera emotiva che richiede.
Non è proprio il tipo di film che incolla allo schermo, ma forse proprio questo può essere il suo punto di forza. Non cercare di stupire con arzigogoli di qualche specie, ma raccontando una storia tenera e contrastante in modo sincero e onesto. Che è come sono le canzoni folk, il mare e la tradizione irlandese.
Certo, poi c'era anche un altro che, invece, del mare diceva che è profondo e che non lo puoi bloccare... ma questa è tutta un'altra storia.
“Con il nome di selkie si identificano talune creature fantastiche appartenenti alla mitologia irlandese, islandese, e scozzese. Secondo le leggende, le selkie vivono nel mare come foche, ma sono in grado di rimuovere il loro manto per assumere un aspetto umano.
Nelle isole scozzesi si credeva che le foche fossero esseri umani trasmutati, per questo si sospettava che ucciderle portasse sfortuna; le storie più diffuse ruotano intorno a personaggi selkie femminili a cui viene rubato il manto e si trovano quindi costrette a restare sulla terraferma. Il manto delle selkie infatti è l'elemento necessario perché possano trasformarsi nuovamente in animali e tornare in mare. Altre storie narrano di come dei personaggi umani non si accorgano di vivere con una selkie e si risveglino una mattina scoprendo che la loro partner... è sparita.”
Mitologia, tribalismo arcaico, pungente sapore di sale, vento gelido e fiabe ancestrali.
Saoirse è una bambina dolcissima, bella, vivace, imprevedibile e incredibilmente coraggiosa. E proprio oggi compie sei anni! Ma... ancora, strano a dirsi, non ha imparato a parlare. Vive con il padre, il fratello maggiore Ben e il cane Cù, un bestione allegro e giocherellone. Tutti insieme abitano sull’isolotto del faro di uno sperdutissimo paese dell’Irlanda del Nord.
In tale scenario freddo, apparentemente inospitale eppur intriso di una magia che lascia trasparire soltanto parte dell’imminente incanto, scopriremo che questa famiglia ha tragicamente smarrito la madre dei due bambini, una bellissima e rassicurante donna di nome Bronagh, proprio il giorno della nascita di Saoirse: una sparizione misteriosa che col tempo è divenuta, inevitabilmente, un lutto da elaborare e infine accettare, poiché di Bronagh non vi sono state più tracce.
Il prologo de “La canzone del mare” ci mostra - in maniera vaga e confusa - la silenziosa ma sofferta scomparsa della donna, evento che ha contribuito a inasprire il rapporto fra Ben e sua sorella minore, collegando in qualche modo quest’ultima alla mancanza dell’adorata madre. Di fronte a una situazione familiare di difficile gestione, comportamenti incoscienti da parte dei ragazzini e un padre intento ad affogare i ricordi legati alla moglie nei pub sulla costa, la nonna di Ben e Saoirse comprende che ormai è aria di cambiare, e decide prenderli e portarli con sé proprio in città, speranzosa che un drastico cambiamento possa promettere ai piccoli un futuro migliore.
Se agli occhi dei piccoli il cambio di dimora possa inizialmente apparire come un peggioramento del tenore di vita, presto si rivelerà un trampolino di lancio verso una realtà oscura, intrigante e incantata, sospesa a metà fra misticismo e tracce di antiche leggende.
Si tratta di un lungometraggio che ci regala atmosfere uniche, un libro di illustrazioni fra il naif e l’allegorico, una pellicola che snocciola immagini meravigliose, colori brillanti, accesi, ricchi di contrasti studiati e preziosi, e nonostante l’incipit si mostri piuttosto amaro e ci comunichi una situazione poco felice, il celtico connubio di suoni e immagini capace di evolversi minuto dopo minuto stupisce e affascina, ammaliando tramite scenari e melodie estremamente curate e coinvolgenti.
Le inflessioni e le venature di radice prettamente nordeuropea si insinuano ovunque, sin dalle prime battute. È un mondo ispirato a leggende norreno-anglosassoni dalle animazioni spigolose, minimali eppure esaustive, plasmanti un clima inflessibile, gelido, rassicurante e misteriosamente affascinante, con un certo retrogusto d’avventura infantile a cui non possiamo assolutamente sottrarci, poiché solletica i nostri ricordi più lontani, radicati nella nostra testa sin da quando eravamo bambini. Esso li stimola, li desta, e infine li riporta a galla in questo gelido mare familiare e spietato, permettendoci di rimembrare com’era sognare quando il mondo ci appariva più semplice e la fantasia si attestava a nostro impalpabile spirito guida.
Premettendo che anche il doppiaggio italiano risulti di grande qualità, lesti ci si ritrova in una fiaba moderna dai contorni antichi e malinconici, a tratti drammatici; un affresco dai fondali traboccanti di sentimenti che ritrae grandi paesaggi ove cieli sterminati si mangiano la scena, divorando spesso e volentieri i raggi del sole e trascinando lo spettatore nelle terre del Nord Europa, magistralmente trasfigurate attraverso impeccabili allegorie minimali. Apprezziamo così orizzonti nuvolosi ed evocativi, scogliere a picco, pioggia battente, contorni confusi e nebbiosi, spesso acquarellati, idratati da pigmenti che si mischiano su carta e danno vita a un rustico realismo virtualmente increspato, genesi d’atmosfere coinvolgenti, ma che non tentano di nascondere grandi, grigie e lugubri città dell’entroterra, dove Halloween è alle porte e la voglia di viaggiare con la fantasia diviene una necessità dell’anima.
Artisticamente parlando non esistono studi di prospettiva, né grandi virtuosismi di sorta. È un continuo sovrapporsi di ritagli d’immagini e colori, un decoupage di contrasti cromatici talvolta gentili, talvolta aspri e ad ogni modo funzionali alla trama; si ha la costante impressione di sfogliare, come già accennato, un libro illustrato dalle pagine cartonate e consumate, un tomo dall’odore di vecchio ma buono che ci trascinerà in un’avventura fuori dal tempo, arricchita da una colonna sonora elaborata, antica e dolce contemporaneamente, vertiginosa quanto basta per cullarci verso una cultura lontana, mistica, algida e meravigliosamente intrigante (sublimi e indimenticabili i canti in gaelico). In parallelo, i gesti, le emozioni e le reazioni dei personaggi si dimostreranno intensi, forti, improvvisi, ma mai troppo eclatanti, permeati da una misurata freddezza propria degli abitanti delle isole del Nord.
Assistiamo quindi a una rivisitazione della selkie gentilmente ritoccata, senza alcuna intenzione di stravolgere le fondamenta di questo mito, ammantata di un velo di mistero - sia fisico che metaforico -, un velluto baltico pregno d’austero misticismo, ignara dello scorrere del tempo come ogni leggenda radicata, mitologicamente pertinente nel suo semplice occultismo fra fiaba e credenze tramandate di generazione in generazione.
Ne “La canzone del mare” si mischiano credenze popolari e racconti ispirati agli dei della Madre Terra secolare, un’eredità pagana attinta dalle creature del mare e della foresta, focalizzandosi sulla selkie, appunto, un folletto ittico che tutt’oggi popola la fantasia di Scozzesi, Irlandesi, Inglesi e Gallesi, senza escludere i popoli ancora più a Nord. Sono racconti fra il malinconico e il superstizioso, legati alle figure sacre di una religione celtico-sassone lontana un’era e più da quella mediterranea.
L’originalità di questa passa anche per l’assenza di vere e proprie controparti malvagie: chi sembra prendere i contorni di un probabile antagonista, più che cattivo si dimostra rassegnato al proprio destino e schiacciato da tristi eventi passati, in balia di forze ed eventi più potenti della propria volontà, ormai appassita e sconfitta.
Artisticamente anacronistico e per questo ancor più stuzzicante, curioso e calamitante, “La canzone del mare” s’è giocato l’Academy Award nel 2015, perdendo il confronto soltanto con il colosso disneyano “Big Hero 6”, anche se per molti avrebbe meritato la vittoria. La forza evocativa degli ambienti, in netta controcorrente rispetto all’imperante computer grafica che asfissia ogni genere di lavoro contemporaneo, si è dimostrata di una potenza emotiva come non si vedeva da tempo. Ed ecco quindi inquadrature a campo lungo, aperto, scenari più iconografici e di contorno che in cerca di un monotono realismo, veri e propri esercizi estetici capaci di suggerire la libertà d’azione dei giovanissimi protagonisti tramite un’occhiata immediata, prima ancora che gli spazi vengano riempiti dall’azione stessa.
Se è vero che la prima parte scorra pigra e poco incisiva, la seconda metà del film accelera di ritmo e interesse, strizzando l’occhio ai fratelli Grimm e ad Andersen, intrisa di leggende popolari che prendono finalmente vita e ci portano in un mondo fatato dalle sfumature tolkieniane di rara delicatezza; l’andamento non più claudicante ci prende per mano e ci guida verso un finale agrodolce, per nulla scontato e di grande impatto, ma nel contempo decisamente attuale.
La colonna sonora è un vero gioiello, e una doverosa menzione va senza dubbio a “Dùlamàn”, celebre canto popolare originariamente in gaelico: dall’equivoco testo metaforico che sembra parlare di alghe marine e delle profondità dell’oceano, in realtà cela una storia di gelosia, d’amore e di famiglie.
“Ricordami nelle tue storie e nelle tue canzoni”, sarà questo il concetto che ci rimarrà nella testa alla fine della visione, metodo antico e affascinante col quale si sono sempre tramandate la maggior parte delle leggende che tutt’oggi ci affascinano ed emozionano in maniera ipnotizzante e viscerale.
Il segreto per gustarsi questa piccola perla è di non concentrarsi sul ritmo di narrazione, bensì sulle emozioni che ci vengono centellinate di sequenza in sequenza, fino a un finale dove assaggerete felicità e tristezza, in un sol magico boccone.
Catartico, appagante, sincero. Una fiaba da ascoltare davanti a un camino in una fredda notte d’inverno, lasciando che il narratore sia nientemeno che il mare in burrasca.
Nelle isole scozzesi si credeva che le foche fossero esseri umani trasmutati, per questo si sospettava che ucciderle portasse sfortuna; le storie più diffuse ruotano intorno a personaggi selkie femminili a cui viene rubato il manto e si trovano quindi costrette a restare sulla terraferma. Il manto delle selkie infatti è l'elemento necessario perché possano trasformarsi nuovamente in animali e tornare in mare. Altre storie narrano di come dei personaggi umani non si accorgano di vivere con una selkie e si risveglino una mattina scoprendo che la loro partner... è sparita.”
Mitologia, tribalismo arcaico, pungente sapore di sale, vento gelido e fiabe ancestrali.
Saoirse è una bambina dolcissima, bella, vivace, imprevedibile e incredibilmente coraggiosa. E proprio oggi compie sei anni! Ma... ancora, strano a dirsi, non ha imparato a parlare. Vive con il padre, il fratello maggiore Ben e il cane Cù, un bestione allegro e giocherellone. Tutti insieme abitano sull’isolotto del faro di uno sperdutissimo paese dell’Irlanda del Nord.
In tale scenario freddo, apparentemente inospitale eppur intriso di una magia che lascia trasparire soltanto parte dell’imminente incanto, scopriremo che questa famiglia ha tragicamente smarrito la madre dei due bambini, una bellissima e rassicurante donna di nome Bronagh, proprio il giorno della nascita di Saoirse: una sparizione misteriosa che col tempo è divenuta, inevitabilmente, un lutto da elaborare e infine accettare, poiché di Bronagh non vi sono state più tracce.
Il prologo de “La canzone del mare” ci mostra - in maniera vaga e confusa - la silenziosa ma sofferta scomparsa della donna, evento che ha contribuito a inasprire il rapporto fra Ben e sua sorella minore, collegando in qualche modo quest’ultima alla mancanza dell’adorata madre. Di fronte a una situazione familiare di difficile gestione, comportamenti incoscienti da parte dei ragazzini e un padre intento ad affogare i ricordi legati alla moglie nei pub sulla costa, la nonna di Ben e Saoirse comprende che ormai è aria di cambiare, e decide prenderli e portarli con sé proprio in città, speranzosa che un drastico cambiamento possa promettere ai piccoli un futuro migliore.
Se agli occhi dei piccoli il cambio di dimora possa inizialmente apparire come un peggioramento del tenore di vita, presto si rivelerà un trampolino di lancio verso una realtà oscura, intrigante e incantata, sospesa a metà fra misticismo e tracce di antiche leggende.
Si tratta di un lungometraggio che ci regala atmosfere uniche, un libro di illustrazioni fra il naif e l’allegorico, una pellicola che snocciola immagini meravigliose, colori brillanti, accesi, ricchi di contrasti studiati e preziosi, e nonostante l’incipit si mostri piuttosto amaro e ci comunichi una situazione poco felice, il celtico connubio di suoni e immagini capace di evolversi minuto dopo minuto stupisce e affascina, ammaliando tramite scenari e melodie estremamente curate e coinvolgenti.
Le inflessioni e le venature di radice prettamente nordeuropea si insinuano ovunque, sin dalle prime battute. È un mondo ispirato a leggende norreno-anglosassoni dalle animazioni spigolose, minimali eppure esaustive, plasmanti un clima inflessibile, gelido, rassicurante e misteriosamente affascinante, con un certo retrogusto d’avventura infantile a cui non possiamo assolutamente sottrarci, poiché solletica i nostri ricordi più lontani, radicati nella nostra testa sin da quando eravamo bambini. Esso li stimola, li desta, e infine li riporta a galla in questo gelido mare familiare e spietato, permettendoci di rimembrare com’era sognare quando il mondo ci appariva più semplice e la fantasia si attestava a nostro impalpabile spirito guida.
Premettendo che anche il doppiaggio italiano risulti di grande qualità, lesti ci si ritrova in una fiaba moderna dai contorni antichi e malinconici, a tratti drammatici; un affresco dai fondali traboccanti di sentimenti che ritrae grandi paesaggi ove cieli sterminati si mangiano la scena, divorando spesso e volentieri i raggi del sole e trascinando lo spettatore nelle terre del Nord Europa, magistralmente trasfigurate attraverso impeccabili allegorie minimali. Apprezziamo così orizzonti nuvolosi ed evocativi, scogliere a picco, pioggia battente, contorni confusi e nebbiosi, spesso acquarellati, idratati da pigmenti che si mischiano su carta e danno vita a un rustico realismo virtualmente increspato, genesi d’atmosfere coinvolgenti, ma che non tentano di nascondere grandi, grigie e lugubri città dell’entroterra, dove Halloween è alle porte e la voglia di viaggiare con la fantasia diviene una necessità dell’anima.
Artisticamente parlando non esistono studi di prospettiva, né grandi virtuosismi di sorta. È un continuo sovrapporsi di ritagli d’immagini e colori, un decoupage di contrasti cromatici talvolta gentili, talvolta aspri e ad ogni modo funzionali alla trama; si ha la costante impressione di sfogliare, come già accennato, un libro illustrato dalle pagine cartonate e consumate, un tomo dall’odore di vecchio ma buono che ci trascinerà in un’avventura fuori dal tempo, arricchita da una colonna sonora elaborata, antica e dolce contemporaneamente, vertiginosa quanto basta per cullarci verso una cultura lontana, mistica, algida e meravigliosamente intrigante (sublimi e indimenticabili i canti in gaelico). In parallelo, i gesti, le emozioni e le reazioni dei personaggi si dimostreranno intensi, forti, improvvisi, ma mai troppo eclatanti, permeati da una misurata freddezza propria degli abitanti delle isole del Nord.
Assistiamo quindi a una rivisitazione della selkie gentilmente ritoccata, senza alcuna intenzione di stravolgere le fondamenta di questo mito, ammantata di un velo di mistero - sia fisico che metaforico -, un velluto baltico pregno d’austero misticismo, ignara dello scorrere del tempo come ogni leggenda radicata, mitologicamente pertinente nel suo semplice occultismo fra fiaba e credenze tramandate di generazione in generazione.
Ne “La canzone del mare” si mischiano credenze popolari e racconti ispirati agli dei della Madre Terra secolare, un’eredità pagana attinta dalle creature del mare e della foresta, focalizzandosi sulla selkie, appunto, un folletto ittico che tutt’oggi popola la fantasia di Scozzesi, Irlandesi, Inglesi e Gallesi, senza escludere i popoli ancora più a Nord. Sono racconti fra il malinconico e il superstizioso, legati alle figure sacre di una religione celtico-sassone lontana un’era e più da quella mediterranea.
L’originalità di questa passa anche per l’assenza di vere e proprie controparti malvagie: chi sembra prendere i contorni di un probabile antagonista, più che cattivo si dimostra rassegnato al proprio destino e schiacciato da tristi eventi passati, in balia di forze ed eventi più potenti della propria volontà, ormai appassita e sconfitta.
Artisticamente anacronistico e per questo ancor più stuzzicante, curioso e calamitante, “La canzone del mare” s’è giocato l’Academy Award nel 2015, perdendo il confronto soltanto con il colosso disneyano “Big Hero 6”, anche se per molti avrebbe meritato la vittoria. La forza evocativa degli ambienti, in netta controcorrente rispetto all’imperante computer grafica che asfissia ogni genere di lavoro contemporaneo, si è dimostrata di una potenza emotiva come non si vedeva da tempo. Ed ecco quindi inquadrature a campo lungo, aperto, scenari più iconografici e di contorno che in cerca di un monotono realismo, veri e propri esercizi estetici capaci di suggerire la libertà d’azione dei giovanissimi protagonisti tramite un’occhiata immediata, prima ancora che gli spazi vengano riempiti dall’azione stessa.
Se è vero che la prima parte scorra pigra e poco incisiva, la seconda metà del film accelera di ritmo e interesse, strizzando l’occhio ai fratelli Grimm e ad Andersen, intrisa di leggende popolari che prendono finalmente vita e ci portano in un mondo fatato dalle sfumature tolkieniane di rara delicatezza; l’andamento non più claudicante ci prende per mano e ci guida verso un finale agrodolce, per nulla scontato e di grande impatto, ma nel contempo decisamente attuale.
La colonna sonora è un vero gioiello, e una doverosa menzione va senza dubbio a “Dùlamàn”, celebre canto popolare originariamente in gaelico: dall’equivoco testo metaforico che sembra parlare di alghe marine e delle profondità dell’oceano, in realtà cela una storia di gelosia, d’amore e di famiglie.
“Ricordami nelle tue storie e nelle tue canzoni”, sarà questo il concetto che ci rimarrà nella testa alla fine della visione, metodo antico e affascinante col quale si sono sempre tramandate la maggior parte delle leggende che tutt’oggi ci affascinano ed emozionano in maniera ipnotizzante e viscerale.
Il segreto per gustarsi questa piccola perla è di non concentrarsi sul ritmo di narrazione, bensì sulle emozioni che ci vengono centellinate di sequenza in sequenza, fino a un finale dove assaggerete felicità e tristezza, in un sol magico boccone.
Catartico, appagante, sincero. Una fiaba da ascoltare davanti a un camino in una fredda notte d’inverno, lasciando che il narratore sia nientemeno che il mare in burrasca.
“La canzone del mare” è il classico film che è impossibile trovare brutto, ma che allo stesso tempo non è riuscito a piacermi; pur avendone compreso il messaggio e apprezzato lo splendido lato artistico, non sono riuscito a farmi coinvolgere appieno da questa favola, nonostante abbia apprezzato l’impegno dietro e la presentazione; da un certo punto di vista è un peccato, ma allo stesso tempo posso dire che non è stato certamente tempo perso.
Il film, una produzione internazionale europea diretta da Tomm Moore, dal titolo originale “Song of the Sea”, reinterpreta aspetti della mitologia nord-europea, in particolare irlandese; protagonisti della storia sono Ben, ragazzino di dieci anni, e sua sorella minore Saoirse, due bambini che vivono su un’isola al largo delle coste irlandesi col padre Conor, guardiano del faro del posto. In un flashback iniziale ci viene presentata anche la madre dei due, Bronagh, la quale è misteriosamente scomparsa nel momento in cui ha dato luce alla figlia, e proprio questo evento ha portato alla difficile situazione attuale, visto che Ben ha un rapporto tutt’altro che sereno con la sorella, che accusa inconsciamente di aver provocato la sparizione della madre, e la stessa Saoirse soffre per il comportamento del fratello, rinchiudendosi in un mutismo che perdura da anni. La scossa a questa situazione verrà data dalla nonna dei ragazzi, che li strapperà alla vita dell’isola per portarli a vivere con sé nella più sicura città di Dublino, una soluzione che porterà scompiglio nell’universo fantastico costruito nel film a cui la piccola Saoirse sembra appartenere e dove, con l’aiuto del fratello, dovrà probabilmente tornare.
L’incipit del film è grossomodo questo, ma, e penso sia uno dei suoi difetti, non è neanche tanto in meno rispetto a quello che si vedrà da qui in poi. Il viaggio dei due fratelli per tornare alla casa natia non è stato studiato per essere semplice, eppure, complici una trama prevedibile e un ritmo narrativo non proprio incalzante, diciamo, sembra che nessuno degli eventi in cui resteranno coinvolti riesca davvero a sorprendere o interessare lo spettatore. Ad aggravare questo scenario, poi, si aggiunge, a parer mio, l’assenza di personaggi al di fuori della cerchia familiare di Ben e Saoirse che riescano a far breccia nel cuore di chi guarda, che siano essi antagonisti o spalle a cui appoggiarsi: compaiono più o meno in sordina e altrettanto rapidamente te li dimentichi, concentrandoti unicamente sui bambini e le loro peripezie. La risoluzione finale, che dipana il mistero principale ed esalta l’insostituibile valore dei rapporti familiari, è naturalmente benevola ed emotivamente coinvolgente, ma non vale, a mio modo di vedere chiaramente, la strada percorsa per arrivarci, che, a livello temporale almeno, non appare così ingombrante sulla carta, ma che io ho percepito in alcuni momenti davvero lunga e pesante.
C’è qualcosa quindi per cui valga la pena guardare “La canzone del mare”? Decisamente sì, e mi riferisco alla sua componente estetica, meravigliosamente fiabesca e in piena sintonia con le richieste della storia; non posso farne una specifica analisi tecnica, non avendo le competenze al riguardo, ma non per questo non mi sento in grado di esaltare uno spettacolo così gradevole: partendo dal character design dei personaggi che ricorda un libro illustrato per ragazzi fino ai variopinti fondali di ambienti reali e fantastici, senza dimenticare le comunque buone animazioni, “La canzone del mare” rappresenta uno splendido dipinto in movimento capace di conquistare i bambini a cui è naturalmente rivolto, ma anche di far brillare gli occhi agli spettatori più adulti, e rappresenta inoltre una piacevole alternativa agli stilemi grafici dell’animazione giapponese a cui io sono più abituato. Non mi ha colpito allo stesso modo, ma non per questo merita meno apprezzamenti, la bella colonna sonora dalle forti influenze celtiche firmata da Bruno Coulais, in collaborazione col gruppo irlandese Kila, dove spicca la canzone title track omonima del film sia in versione normale che in versione ninna nanna cantata nel film dalla madre dei due protagonisti.
Il doppiaggio italiano è affidato a solidi professionisti del settore (vedi Alessio Cigliano nei panni del padre Connor o Francesca Fiorentini in quelli della madre Bronagh) e fa degnamente il suo lavoro anche nei panni dei giovanissimi Lorenzo D’Agata (Ben) e Anita Ferraro (Saoirse).
In definitiva, posso dire di non considerare “La canzone del mare” un film riuscito al cento per cento, ma, come anticipavo all’inizio, non è neanche un’operazione da smontare con fermezza; questo lungometraggio è una favola valida che mi ha colpito gli occhi prima del cuore, ma è una visione che può provocare tranquillamente sensazioni diverse in altre persone, per questo è consigliabile davvero a chiunque, meglio ancora se goduta in famiglia, probabilmente il suo posto naturale.
Il film, una produzione internazionale europea diretta da Tomm Moore, dal titolo originale “Song of the Sea”, reinterpreta aspetti della mitologia nord-europea, in particolare irlandese; protagonisti della storia sono Ben, ragazzino di dieci anni, e sua sorella minore Saoirse, due bambini che vivono su un’isola al largo delle coste irlandesi col padre Conor, guardiano del faro del posto. In un flashback iniziale ci viene presentata anche la madre dei due, Bronagh, la quale è misteriosamente scomparsa nel momento in cui ha dato luce alla figlia, e proprio questo evento ha portato alla difficile situazione attuale, visto che Ben ha un rapporto tutt’altro che sereno con la sorella, che accusa inconsciamente di aver provocato la sparizione della madre, e la stessa Saoirse soffre per il comportamento del fratello, rinchiudendosi in un mutismo che perdura da anni. La scossa a questa situazione verrà data dalla nonna dei ragazzi, che li strapperà alla vita dell’isola per portarli a vivere con sé nella più sicura città di Dublino, una soluzione che porterà scompiglio nell’universo fantastico costruito nel film a cui la piccola Saoirse sembra appartenere e dove, con l’aiuto del fratello, dovrà probabilmente tornare.
L’incipit del film è grossomodo questo, ma, e penso sia uno dei suoi difetti, non è neanche tanto in meno rispetto a quello che si vedrà da qui in poi. Il viaggio dei due fratelli per tornare alla casa natia non è stato studiato per essere semplice, eppure, complici una trama prevedibile e un ritmo narrativo non proprio incalzante, diciamo, sembra che nessuno degli eventi in cui resteranno coinvolti riesca davvero a sorprendere o interessare lo spettatore. Ad aggravare questo scenario, poi, si aggiunge, a parer mio, l’assenza di personaggi al di fuori della cerchia familiare di Ben e Saoirse che riescano a far breccia nel cuore di chi guarda, che siano essi antagonisti o spalle a cui appoggiarsi: compaiono più o meno in sordina e altrettanto rapidamente te li dimentichi, concentrandoti unicamente sui bambini e le loro peripezie. La risoluzione finale, che dipana il mistero principale ed esalta l’insostituibile valore dei rapporti familiari, è naturalmente benevola ed emotivamente coinvolgente, ma non vale, a mio modo di vedere chiaramente, la strada percorsa per arrivarci, che, a livello temporale almeno, non appare così ingombrante sulla carta, ma che io ho percepito in alcuni momenti davvero lunga e pesante.
C’è qualcosa quindi per cui valga la pena guardare “La canzone del mare”? Decisamente sì, e mi riferisco alla sua componente estetica, meravigliosamente fiabesca e in piena sintonia con le richieste della storia; non posso farne una specifica analisi tecnica, non avendo le competenze al riguardo, ma non per questo non mi sento in grado di esaltare uno spettacolo così gradevole: partendo dal character design dei personaggi che ricorda un libro illustrato per ragazzi fino ai variopinti fondali di ambienti reali e fantastici, senza dimenticare le comunque buone animazioni, “La canzone del mare” rappresenta uno splendido dipinto in movimento capace di conquistare i bambini a cui è naturalmente rivolto, ma anche di far brillare gli occhi agli spettatori più adulti, e rappresenta inoltre una piacevole alternativa agli stilemi grafici dell’animazione giapponese a cui io sono più abituato. Non mi ha colpito allo stesso modo, ma non per questo merita meno apprezzamenti, la bella colonna sonora dalle forti influenze celtiche firmata da Bruno Coulais, in collaborazione col gruppo irlandese Kila, dove spicca la canzone title track omonima del film sia in versione normale che in versione ninna nanna cantata nel film dalla madre dei due protagonisti.
Il doppiaggio italiano è affidato a solidi professionisti del settore (vedi Alessio Cigliano nei panni del padre Connor o Francesca Fiorentini in quelli della madre Bronagh) e fa degnamente il suo lavoro anche nei panni dei giovanissimi Lorenzo D’Agata (Ben) e Anita Ferraro (Saoirse).
In definitiva, posso dire di non considerare “La canzone del mare” un film riuscito al cento per cento, ma, come anticipavo all’inizio, non è neanche un’operazione da smontare con fermezza; questo lungometraggio è una favola valida che mi ha colpito gli occhi prima del cuore, ma è una visione che può provocare tranquillamente sensazioni diverse in altre persone, per questo è consigliabile davvero a chiunque, meglio ancora se goduta in famiglia, probabilmente il suo posto naturale.
"La canzone del mare" è un film d'animazione del 2014, di produzione internazionale, diretto da Tomm Moore, uscito in Italia con due anni di ritardo.
Il film racconta la storia dei due fratellini Ben e Saorsie, che vivono con il padre e il fedele cane Cù presso un faro su di un'isola irlandese. La madre scompare misteriosamente alla nascita della bimba, lasciando tutta la famiglia profondamente scossa: un marito (e un padre) che affoga i suoi dispiaceri al pub, un primogenito con un cattivissimo rapporto con la sorella, e una bambina che, nonostante abbia ormai sei anni, non ha ancora imparato a parlare e fatica quindi a relazionarsi.
Tuttavia, questa situazione infelice è destinata a cambiare quando Saorsie scova uno strano mantello nascosto in un baule, e una volta indossato inizierà per lei, e per la sua famiglia, una nuova avventura legata al mondo delle selkies.
È un film che ci parla essenzialmente di legami, tradizioni e folklore celtico. Il tutto raccontato con uno stile dal disegno iconico, a due dimensioni, interamente fatto a mano, e caratterizzato da dettagli stilizzati. Stile che può sembrare poco attraente, ma reso invece tale dalla varietà, corposità e scelta dei colori che ci danno come risultato fotogrammi pari alla bellezza di un quadro. Un quadro naïf.
Chi ricorda Ligabue, non potrà non trovarci una qualche assonanza con lo stile iconografico del pittore italiano, il quale, attraverso la sua semplicità grafica, ci ha regalato quadri dal forte potere evocativo. È quello che ci comunica questo film: evoca leggende di Paesi lontani, figure del folklore celtico come le selkies, creature mitologiche che vivono nel mare come foche, ma in grado di assumere un aspetto umano se rimosso il proprio manto. E i raccontastorie "seanchaì", che in irlandese significa "portatore di vecchie tradizioni". Infatti nell'antica cultura gaelica la storia del popolo non veniva scritta, ma memorizzata in poesie recitate dai bardi, in una tradizione echeggiata, appunto, dai seanchaì raccontastorie.
Un uso raffinato della tecnica per scenografie e paesaggi, e la scelta di un disegno bidimensionale, per l'appunto, quasi privo di profondità, paradossalmente, proiettano meglio lo spettatore in questa dimensione "da fiaba".
A ricordare il ritmo di una favola, la narrazione non potrà che essere lenta, ma questo procedere in modo misurato, come lo sfogliare delle pagine di un libro, è necessario per poterci soffermare sui sentimenti, sui canti, sui suoni.
Questo non è semplicemente un film di animazione, ma è una storia che rivede le antiche funzioni catartiche del racconto, attraverso una linea narrativa davvero preziosa, e ancestrale, che difficilmente ritroviamo in altre produzioni.
Temi importanti sono la famiglia, il viaggio, l'abbandono e il dolore. Ma anche la solidarietà, la purezza delle azioni, e soprattutto l'amore.
Il film ci dà un gran bel messaggio: amare qualcuno non significa eliminare il suo dolore, o sostituirsi ad esso, bensì aiutarlo a sopportarne il peso, a supportalo e ad incitarlo affinché si affronti con le proprie forze il proprio fardello personale; solo così si potrà godere anche delle gioie che presto o tardi arriveranno. Ci comunica che ci si deve impegnare ad affrontare la realtà, le proprie emozioni, per vivere intensamente, e per non cadere vittime di una vita bloccata, statica, fredda, e grigia come pietre, come le creature magiche che i fratellini tenteranno di aiutare, o come la vita triste del loro padre che piange la moglie scomparsa. O come McLire.
È l'errore che commette anche la strega "cattiva" che, pensando di agire bene, svuota le persone dei loro sentimenti per eliminarne il dolore, non capendo, invece, che tutte le emozioni vanno vissute, siano esse gioiose o strazianti, e che sono tutte queste esperienze insieme a rendere unico l'uomo. E i due sensibili e coraggiosi fratellini sembrano, a poco a poco, comprenderlo. E dal loro dolore famigliare inizierà un percorso, un viaggio, destinato a far rinascere la loro piccola famiglia.
Un film, il cui titolo stesso riporta l'importanza della musica, non poteva sottovalutare la colonna sonora. E infatti, un particolare plauso va proprio a quest'ultima, con il merito di aver sublimato tutte le caratteristiche di pregio di questo lungometraggio.
Bruno Coulais, in collaborazione con la folk-band irlandese Kíla, ne è l'autore. Musica che è, sì, frutto del suo genio artistico, ma in parte ispirata da vere canzoni tradizionali irlandesi.
Gli appassionati di musica e tradizioni celtiche di sicuro avranno riconosciuto "Dùlamàn" (un tipo di alga commestibile), una famosa canzone popolare, cantata in un buffo teatrino dagli esseri di pietra. Ci sono molte versioni tradizionali e contemporanee della melodia della canzone. Tra quelle più note vorrei ricordare quella dei Clannad, del 1976.
Il testo della canzone si riferisce alla pratica irlandese di raccogliere alghe, ma in particolar modo ci racconta (ecco un altro modo di raccontar storie, alla "seanchaì"), al ritmo di una ballata, della figlia di un "dùlamàn gaelach" che ha due pretendenti. Uno le vuole comprare un bel paio di scarpe e l'altro la tenta con l’acquisto di un pettine. La scelta della ragazza, non corrispondente alle aspettative del padre, porterà a una "fuitina" risolutrice.
Ecco che, ancora una volta, per mezzo di un canto, ci viene raccontata una tradizione popolare tramandata nel tempo. Un racconto nel racconto.
"Dúlamán" colpisce in modo particolare, perché particolarmente orecchiabile, ma è tutto il comparto sonoro a dare quel tocco "celtico" in più, che ti porta dritto dritto al Nord, in Irlanda.
Che altro dire riguardo a questo film, se non che ve ne consiglio caldamente la visione?
E quindi, mettetevi comodi, e godetevi questa bella favola, un contenitore di leggende e musiche dal sapore antico, un film dal profumo di salsedine, che ti invita a socchiudere gli occhi e sentire il rumore del mare.
Da guardare quando fuori piove e il mare è in tempesta.
Io l'ho fatto.
Il film racconta la storia dei due fratellini Ben e Saorsie, che vivono con il padre e il fedele cane Cù presso un faro su di un'isola irlandese. La madre scompare misteriosamente alla nascita della bimba, lasciando tutta la famiglia profondamente scossa: un marito (e un padre) che affoga i suoi dispiaceri al pub, un primogenito con un cattivissimo rapporto con la sorella, e una bambina che, nonostante abbia ormai sei anni, non ha ancora imparato a parlare e fatica quindi a relazionarsi.
Tuttavia, questa situazione infelice è destinata a cambiare quando Saorsie scova uno strano mantello nascosto in un baule, e una volta indossato inizierà per lei, e per la sua famiglia, una nuova avventura legata al mondo delle selkies.
È un film che ci parla essenzialmente di legami, tradizioni e folklore celtico. Il tutto raccontato con uno stile dal disegno iconico, a due dimensioni, interamente fatto a mano, e caratterizzato da dettagli stilizzati. Stile che può sembrare poco attraente, ma reso invece tale dalla varietà, corposità e scelta dei colori che ci danno come risultato fotogrammi pari alla bellezza di un quadro. Un quadro naïf.
Chi ricorda Ligabue, non potrà non trovarci una qualche assonanza con lo stile iconografico del pittore italiano, il quale, attraverso la sua semplicità grafica, ci ha regalato quadri dal forte potere evocativo. È quello che ci comunica questo film: evoca leggende di Paesi lontani, figure del folklore celtico come le selkies, creature mitologiche che vivono nel mare come foche, ma in grado di assumere un aspetto umano se rimosso il proprio manto. E i raccontastorie "seanchaì", che in irlandese significa "portatore di vecchie tradizioni". Infatti nell'antica cultura gaelica la storia del popolo non veniva scritta, ma memorizzata in poesie recitate dai bardi, in una tradizione echeggiata, appunto, dai seanchaì raccontastorie.
Un uso raffinato della tecnica per scenografie e paesaggi, e la scelta di un disegno bidimensionale, per l'appunto, quasi privo di profondità, paradossalmente, proiettano meglio lo spettatore in questa dimensione "da fiaba".
A ricordare il ritmo di una favola, la narrazione non potrà che essere lenta, ma questo procedere in modo misurato, come lo sfogliare delle pagine di un libro, è necessario per poterci soffermare sui sentimenti, sui canti, sui suoni.
Questo non è semplicemente un film di animazione, ma è una storia che rivede le antiche funzioni catartiche del racconto, attraverso una linea narrativa davvero preziosa, e ancestrale, che difficilmente ritroviamo in altre produzioni.
Temi importanti sono la famiglia, il viaggio, l'abbandono e il dolore. Ma anche la solidarietà, la purezza delle azioni, e soprattutto l'amore.
Il film ci dà un gran bel messaggio: amare qualcuno non significa eliminare il suo dolore, o sostituirsi ad esso, bensì aiutarlo a sopportarne il peso, a supportalo e ad incitarlo affinché si affronti con le proprie forze il proprio fardello personale; solo così si potrà godere anche delle gioie che presto o tardi arriveranno. Ci comunica che ci si deve impegnare ad affrontare la realtà, le proprie emozioni, per vivere intensamente, e per non cadere vittime di una vita bloccata, statica, fredda, e grigia come pietre, come le creature magiche che i fratellini tenteranno di aiutare, o come la vita triste del loro padre che piange la moglie scomparsa. O come McLire.
È l'errore che commette anche la strega "cattiva" che, pensando di agire bene, svuota le persone dei loro sentimenti per eliminarne il dolore, non capendo, invece, che tutte le emozioni vanno vissute, siano esse gioiose o strazianti, e che sono tutte queste esperienze insieme a rendere unico l'uomo. E i due sensibili e coraggiosi fratellini sembrano, a poco a poco, comprenderlo. E dal loro dolore famigliare inizierà un percorso, un viaggio, destinato a far rinascere la loro piccola famiglia.
Un film, il cui titolo stesso riporta l'importanza della musica, non poteva sottovalutare la colonna sonora. E infatti, un particolare plauso va proprio a quest'ultima, con il merito di aver sublimato tutte le caratteristiche di pregio di questo lungometraggio.
Bruno Coulais, in collaborazione con la folk-band irlandese Kíla, ne è l'autore. Musica che è, sì, frutto del suo genio artistico, ma in parte ispirata da vere canzoni tradizionali irlandesi.
Gli appassionati di musica e tradizioni celtiche di sicuro avranno riconosciuto "Dùlamàn" (un tipo di alga commestibile), una famosa canzone popolare, cantata in un buffo teatrino dagli esseri di pietra. Ci sono molte versioni tradizionali e contemporanee della melodia della canzone. Tra quelle più note vorrei ricordare quella dei Clannad, del 1976.
Il testo della canzone si riferisce alla pratica irlandese di raccogliere alghe, ma in particolar modo ci racconta (ecco un altro modo di raccontar storie, alla "seanchaì"), al ritmo di una ballata, della figlia di un "dùlamàn gaelach" che ha due pretendenti. Uno le vuole comprare un bel paio di scarpe e l'altro la tenta con l’acquisto di un pettine. La scelta della ragazza, non corrispondente alle aspettative del padre, porterà a una "fuitina" risolutrice.
Ecco che, ancora una volta, per mezzo di un canto, ci viene raccontata una tradizione popolare tramandata nel tempo. Un racconto nel racconto.
"Dúlamán" colpisce in modo particolare, perché particolarmente orecchiabile, ma è tutto il comparto sonoro a dare quel tocco "celtico" in più, che ti porta dritto dritto al Nord, in Irlanda.
Che altro dire riguardo a questo film, se non che ve ne consiglio caldamente la visione?
E quindi, mettetevi comodi, e godetevi questa bella favola, un contenitore di leggende e musiche dal sapore antico, un film dal profumo di salsedine, che ti invita a socchiudere gli occhi e sentire il rumore del mare.
Da guardare quando fuori piove e il mare è in tempesta.
Io l'ho fatto.
Premesso che, da molti anni, l’animazione non orientale viene da me fruita in modo molto, ma molto sporadico, sono rimasta favorevolmente colpita dal titolo in questione, anche se non entusiasta.
Stiamo parlando di una coproduzione europea del 2014, quindi ancora abbastanza recente.
Si tratta di un titolo che, all’apparenza, parrebbe destinato a un pubblico molto giovane: i disegni, le situazioni drammatiche abilmente diffuse, i personaggi “cattivi” sconfitti facilmente, la relativa stessa linearità del racconto, tutto sembrerebbe indicare un target di fruitori che ancora non va alle medie.
Ma... c’è un ma. Anche agli occhi della sottoscritta, così pigra e ben poco disposta ad approfondire i numerosi richiami alle mitologie nordiche, appare ben presto evidente la presenza, a malapena velata, di un sottotesto complesso che, probabilmente, sarebbe molto più immediato per uno spettatore di Paesi più nordici, come possono essere gli Irlandesi.
Sarei rimasta completamente spiazzata se non avessi avuto almeno una vaga idea, pescata da chissà dove, chi si ricorda più ormai, di cosa sia una selkie: una donna che, per mezzo di un mantello di pelliccia di foca, può trasformarsi in questo animale, dalle caratteristiche magiche. Nella fattispecie, il canto della selkie sarebbe addirittura in grado di salvare le creature fantastiche, braccate e cacciate dai gufi della strega Macha. Di solito davanti alla parola ‘strega’ si usa mettere ‘perfida’: non in questo caso, perché in realtà la strega non è poi così cattiva...
Ma procediamo con ordine. In un faro su un’isola vive una famigliola non proprio felice: ci sono il padre, il figlio Ben, la figlia minore Saorsie e il cane Cu. Saorsie a cinque anni ancora non parla, Ben non sa nuotare ed è terrorizzato dall’acqua, dove ritiene sia scomparsa la madre il giorno in cui nacque la sorella, verso cui ha un visibile astio. C’è poi una nonna che si intromette per portare via i bambini da una situazione che ritiene pericolosa, e li porta in città. Nel frattempo, il padre ha pensato bene di gettare in fondo al mare il mantello di Saorsie, per impedire che potesse sparire anche lei come la madre. Ma Saorsie ne ha bisogno per non morire, e c’è bisogno della sua canzone per salvare il mondo magico, quindi i due ragazzini fuggono e iniziano un viaggio di ricerca che sarà anche di maturazione, specialmente per Ben.
La visione è accompagnata da una colonna sonora molto gradevole e suggestiva, che ben sa sottolineare le immagini che scorrono sullo schermo. E che immagini! Semplici, sì, ma solo apparentemente. In realtà sono curatissime e ben si attagliano al racconto fantastico di una fiaba. I fondali sono veramente magici e i personaggi non faticano a farci comprendere le loro emozioni. Quanto è tenera Saorsie in veste di foca!
Se un appunto si può fare, è che la prima metà dell’opera è piuttosto lenta. Dirò sinceramente che a tratti mi sono annoiata un pochino, ma la perseveranza mi ha fatto superare questo piccolo scoglio e sono stata ripagata dalla seconda metà del film, molto più movimentata e godibile. D’altronde, i disegni così diversi dal solito hanno contribuito a dare una sensazione di piacevole novità.
In definitiva, un titolo pulito e gentile, una fiaba per adulti e piccini e che, per questo, mi sento di consigliare a chiunque. Ottima, ora che viene l’inverno, per il pomeriggio di una domenica uggiosa: la visione, con tutta la famiglia riunita sul divano davanti allo schermo, magari con una cioccolata calda e una coperta sulle ginocchia, saprà soddisfare tutti.
Stiamo parlando di una coproduzione europea del 2014, quindi ancora abbastanza recente.
Si tratta di un titolo che, all’apparenza, parrebbe destinato a un pubblico molto giovane: i disegni, le situazioni drammatiche abilmente diffuse, i personaggi “cattivi” sconfitti facilmente, la relativa stessa linearità del racconto, tutto sembrerebbe indicare un target di fruitori che ancora non va alle medie.
Ma... c’è un ma. Anche agli occhi della sottoscritta, così pigra e ben poco disposta ad approfondire i numerosi richiami alle mitologie nordiche, appare ben presto evidente la presenza, a malapena velata, di un sottotesto complesso che, probabilmente, sarebbe molto più immediato per uno spettatore di Paesi più nordici, come possono essere gli Irlandesi.
Sarei rimasta completamente spiazzata se non avessi avuto almeno una vaga idea, pescata da chissà dove, chi si ricorda più ormai, di cosa sia una selkie: una donna che, per mezzo di un mantello di pelliccia di foca, può trasformarsi in questo animale, dalle caratteristiche magiche. Nella fattispecie, il canto della selkie sarebbe addirittura in grado di salvare le creature fantastiche, braccate e cacciate dai gufi della strega Macha. Di solito davanti alla parola ‘strega’ si usa mettere ‘perfida’: non in questo caso, perché in realtà la strega non è poi così cattiva...
Ma procediamo con ordine. In un faro su un’isola vive una famigliola non proprio felice: ci sono il padre, il figlio Ben, la figlia minore Saorsie e il cane Cu. Saorsie a cinque anni ancora non parla, Ben non sa nuotare ed è terrorizzato dall’acqua, dove ritiene sia scomparsa la madre il giorno in cui nacque la sorella, verso cui ha un visibile astio. C’è poi una nonna che si intromette per portare via i bambini da una situazione che ritiene pericolosa, e li porta in città. Nel frattempo, il padre ha pensato bene di gettare in fondo al mare il mantello di Saorsie, per impedire che potesse sparire anche lei come la madre. Ma Saorsie ne ha bisogno per non morire, e c’è bisogno della sua canzone per salvare il mondo magico, quindi i due ragazzini fuggono e iniziano un viaggio di ricerca che sarà anche di maturazione, specialmente per Ben.
La visione è accompagnata da una colonna sonora molto gradevole e suggestiva, che ben sa sottolineare le immagini che scorrono sullo schermo. E che immagini! Semplici, sì, ma solo apparentemente. In realtà sono curatissime e ben si attagliano al racconto fantastico di una fiaba. I fondali sono veramente magici e i personaggi non faticano a farci comprendere le loro emozioni. Quanto è tenera Saorsie in veste di foca!
Se un appunto si può fare, è che la prima metà dell’opera è piuttosto lenta. Dirò sinceramente che a tratti mi sono annoiata un pochino, ma la perseveranza mi ha fatto superare questo piccolo scoglio e sono stata ripagata dalla seconda metà del film, molto più movimentata e godibile. D’altronde, i disegni così diversi dal solito hanno contribuito a dare una sensazione di piacevole novità.
In definitiva, un titolo pulito e gentile, una fiaba per adulti e piccini e che, per questo, mi sento di consigliare a chiunque. Ottima, ora che viene l’inverno, per il pomeriggio di una domenica uggiosa: la visione, con tutta la famiglia riunita sul divano davanti allo schermo, magari con una cioccolata calda e una coperta sulle ginocchia, saprà soddisfare tutti.
Approcciarsi all’animazione occidentale non è cosa scontata, soprattutto quando, da parte del sottoscritto, è presente una discreta non conoscenza di fondo che rischierebbe, nel corso della stesura della recensione, d'intaccare negativamente la qualità del giudizio, rendendolo ancor più fallace di quanto già non sia. In effetti anime e cartoni animati sono alla fine la stessa cosa, eppure, proprio come un bislacco ossimoro, allo stesso tempo divergono notevolmente. Concetti, ideologie e culture diversificano infatti quello che all’apparenza può apparire come un semplice cartone animato, un linguaggio visivo universale per tutti, indipendentemente dalla bandiera d’origine. È dunque toccato un attento studio, nei limiti del mio (ahimè) fin troppo limitato tempo libero, per poter colmare queste mie lacune inerenti la mitologia irlandese, permettendomi così, finalmente, di giudicare un’opera non solo nei suoi aspetti meramente narrativi e scenografici, ma di comprenderne appieno i significati culturali in essa celati. "La canzone del mare", film d’animazione del 2014 di Tomm Moore, agli occhi di un bambino, ma anche di uno spettatore “distratto” (come lo ero io stesso a inizio visione), può apparire come una semplice storiella, una piccola leggenda narrata per i più piccini, priva di chissà quali psicologie contorte o di sviluppi degni di nota... eppure intrattiene egregiamente, forte del suo sottile, ma oculato, equilibrio tra narrazione e folklore.
La storia si apre con un flashback di Ben, piccolo bambino residente su un'isola al largo delle coste irlandesi insieme a suo padre Conor, che lavora come guardiano del faro, e la misteriosa madre Bronagh, incinta della futura sorellina Saoirse. Tutto sembrerebbe andare per il verso giusto, sennonché, prima di partorire, Bronagh sparisce misteriosamente tra le tempestose onde del mare, non prima di aver consegnato a Conor, come dono d’addio, la piccola Saoirse avvolta in un velo bianco. Gli anni passano, ma, indipendentemente dall’aiuto dei dottori, Saroise non riesce in alcuna maniera a parlare. Ben, d’altro canto, pur avendo compiuto dieci anni, non è in grado nuotare, e rifugge dall’acqua poiché traumatizzato dal doloroso ricordo della madre, scomparsa nel profondo oceano. Come se non bastasse, detesta la sorellina, incolpandola indirettamente del tragico lutto. Le vite dei due bambini prendono una svolta quando Saoirse ritrova il misterioso mantello bianco, lasciatole in eredità dalla madre. Conor, tormentato dal ricordo di Bronagh, accetta però, controvoglia, di allontanare i due bambini dal faro, facendoli ospitare in città a casa della nonna, non prima di essersi sbarazzato del mantello, gettandolo in fondo al mare dentro un robusto baule. Dopo varie peripezie, i due bambini scopriranno che Saoirse è in realtà una selkie, una leggendaria creatura in grado di trasformarsi in foca e dagli straordinari poteri magici. Purtroppo, però, privata del mantello, rischia una tragica morte. I due bambini, volenti o nolenti, si trovano così costretti in un lungo viaggio alla ricerca del bianco oggetto, tallonati nel mentre dai gufi della strega Macha, una malvagia creatura in grado di privare gli esseri viventi delle proprie emozioni.
I personaggi sono semplici, ma genialmente delineati. Alcuni, come il protagonista Ben e il padre Conor, rappresentano la componente più “umana” del cast, ed entrambi sono soggetti a un processo di maturazione, nel corso del film, non indifferente. Soprattutto Ben, che da piccolo bambino incapace di accettare la scomparsa della madre, comprende il proprio dolore, finendo così per accettare la propria sorellina “speciale”, e diventarne così la spalla nel corso delle varie peripezie. Altri personaggi, come la bella Bronagh, la piccola Saroise, il cane Cu e la strega Macha, sono invece puro folklore: tutti quanti sono estrapolati dalla mitologia irlandese, e s’incastrano nella storia con una semplicità disarmante, forti di una sceneggiatura lineare ed efficace. La trama, infatti, viaggia parallelamente alla leggenda, generando così due piani interpretativi tanto diversi quanto complementari. Si potrebbe quasi dire che l’opera di Moore possa essere visionata in due prospettive: da un lato abbiamo una bella favola per i più piccini, dall’altro c’è un’interessante lezione di folklore per i più curiosi. Forse non è azzardato un paragone con le opere del maestro Miyazaki, intrise della stessa magia e rispetto per le tradizioni. Ci sarebbe infine da trattare a dovere il personaggio di Macha, la grande antagonista della storia, ma, poiché anche solo a parlarne si finirebbe per generare spoiler, soprassiedo. Ad ogni modo voglio lo stesso lasciarvi un input, un dilemma aperto: una vita senza emozioni può davvero negare la sofferenza?
Graficamente l’anime è complesso. Moore sperimenta, immagine dopo immagine, frame dopo frame, un curioso contrasto tra composizioni rigorosamente geometriche, simili alle illustrazioni di un libro per bambini, e un character design morbido, spensierato, in netto contrasto con la meticolosa attenzione per i dettagli, sfumature, accostamenti cromatici, mai ripetitivi e sempre suggestivi. I colori cambiano drasticamente, dalle cupe ambientazioni cittadine, alle vivaci praterie, fino alle profonde, solenni onde del mare, acquerellate di un blu intenso e maestoso. Le ambientazioni, per alcuni aspetti, ricordano un impressionismo di matrice vangoghiana, tanto surreale quanto significativo. L’animatore irlandese sfrutta a proprio favore l’assenza di prospettiva, sfruttando la bidimensionalità per raccontare al meglio la favola, senza tridimensionalità e realismi che avrebbero potuto distogliere l’attenzione. A tratti si può quasi percepire il cambio di scena come un libro che viene sfogliato, quasi come una dolce madre che racconta una favola della buona notte.
La colonna sonora è notevole, dove poche ma significative tracce, tutte a tema, lasciano spazio alla suggestiva “canzone del mare”, perla folkloristica nonché fototessera del film. La musica accompagna silenziosamente lo spettatore, introducendolo alla scena ma mai rubandola, mantenendo così toni pacati, in pieno stile narrativo, senza scadere in un musical disneyano, che mai come in questo caso sarebbe stato fuori contesto.
Concludendo, si può dire che Moore, con “La canzone del mare”, abbia lasciato in eredità una commovente favola sulle innumerevoli difficoltà della vita, sull’elaborazione del dolore ma anche sul significato, imprescindibile, delle emozioni. Sfruttando con abilità la tradizione irlandese, Moore ha realizzato un piccolo capolavoro, una storia per tutte le età dal finale amaro ma universale. Consiglio caldamente la visione a tutti, dai più grandi ai più piccini. Vale davvero la pena imitare la nostra selkie: prendete coraggio e tuffatevi in questo oceano animato, non resterete delusi.
La storia si apre con un flashback di Ben, piccolo bambino residente su un'isola al largo delle coste irlandesi insieme a suo padre Conor, che lavora come guardiano del faro, e la misteriosa madre Bronagh, incinta della futura sorellina Saoirse. Tutto sembrerebbe andare per il verso giusto, sennonché, prima di partorire, Bronagh sparisce misteriosamente tra le tempestose onde del mare, non prima di aver consegnato a Conor, come dono d’addio, la piccola Saoirse avvolta in un velo bianco. Gli anni passano, ma, indipendentemente dall’aiuto dei dottori, Saroise non riesce in alcuna maniera a parlare. Ben, d’altro canto, pur avendo compiuto dieci anni, non è in grado nuotare, e rifugge dall’acqua poiché traumatizzato dal doloroso ricordo della madre, scomparsa nel profondo oceano. Come se non bastasse, detesta la sorellina, incolpandola indirettamente del tragico lutto. Le vite dei due bambini prendono una svolta quando Saoirse ritrova il misterioso mantello bianco, lasciatole in eredità dalla madre. Conor, tormentato dal ricordo di Bronagh, accetta però, controvoglia, di allontanare i due bambini dal faro, facendoli ospitare in città a casa della nonna, non prima di essersi sbarazzato del mantello, gettandolo in fondo al mare dentro un robusto baule. Dopo varie peripezie, i due bambini scopriranno che Saoirse è in realtà una selkie, una leggendaria creatura in grado di trasformarsi in foca e dagli straordinari poteri magici. Purtroppo, però, privata del mantello, rischia una tragica morte. I due bambini, volenti o nolenti, si trovano così costretti in un lungo viaggio alla ricerca del bianco oggetto, tallonati nel mentre dai gufi della strega Macha, una malvagia creatura in grado di privare gli esseri viventi delle proprie emozioni.
I personaggi sono semplici, ma genialmente delineati. Alcuni, come il protagonista Ben e il padre Conor, rappresentano la componente più “umana” del cast, ed entrambi sono soggetti a un processo di maturazione, nel corso del film, non indifferente. Soprattutto Ben, che da piccolo bambino incapace di accettare la scomparsa della madre, comprende il proprio dolore, finendo così per accettare la propria sorellina “speciale”, e diventarne così la spalla nel corso delle varie peripezie. Altri personaggi, come la bella Bronagh, la piccola Saroise, il cane Cu e la strega Macha, sono invece puro folklore: tutti quanti sono estrapolati dalla mitologia irlandese, e s’incastrano nella storia con una semplicità disarmante, forti di una sceneggiatura lineare ed efficace. La trama, infatti, viaggia parallelamente alla leggenda, generando così due piani interpretativi tanto diversi quanto complementari. Si potrebbe quasi dire che l’opera di Moore possa essere visionata in due prospettive: da un lato abbiamo una bella favola per i più piccini, dall’altro c’è un’interessante lezione di folklore per i più curiosi. Forse non è azzardato un paragone con le opere del maestro Miyazaki, intrise della stessa magia e rispetto per le tradizioni. Ci sarebbe infine da trattare a dovere il personaggio di Macha, la grande antagonista della storia, ma, poiché anche solo a parlarne si finirebbe per generare spoiler, soprassiedo. Ad ogni modo voglio lo stesso lasciarvi un input, un dilemma aperto: una vita senza emozioni può davvero negare la sofferenza?
Graficamente l’anime è complesso. Moore sperimenta, immagine dopo immagine, frame dopo frame, un curioso contrasto tra composizioni rigorosamente geometriche, simili alle illustrazioni di un libro per bambini, e un character design morbido, spensierato, in netto contrasto con la meticolosa attenzione per i dettagli, sfumature, accostamenti cromatici, mai ripetitivi e sempre suggestivi. I colori cambiano drasticamente, dalle cupe ambientazioni cittadine, alle vivaci praterie, fino alle profonde, solenni onde del mare, acquerellate di un blu intenso e maestoso. Le ambientazioni, per alcuni aspetti, ricordano un impressionismo di matrice vangoghiana, tanto surreale quanto significativo. L’animatore irlandese sfrutta a proprio favore l’assenza di prospettiva, sfruttando la bidimensionalità per raccontare al meglio la favola, senza tridimensionalità e realismi che avrebbero potuto distogliere l’attenzione. A tratti si può quasi percepire il cambio di scena come un libro che viene sfogliato, quasi come una dolce madre che racconta una favola della buona notte.
La colonna sonora è notevole, dove poche ma significative tracce, tutte a tema, lasciano spazio alla suggestiva “canzone del mare”, perla folkloristica nonché fototessera del film. La musica accompagna silenziosamente lo spettatore, introducendolo alla scena ma mai rubandola, mantenendo così toni pacati, in pieno stile narrativo, senza scadere in un musical disneyano, che mai come in questo caso sarebbe stato fuori contesto.
Concludendo, si può dire che Moore, con “La canzone del mare”, abbia lasciato in eredità una commovente favola sulle innumerevoli difficoltà della vita, sull’elaborazione del dolore ma anche sul significato, imprescindibile, delle emozioni. Sfruttando con abilità la tradizione irlandese, Moore ha realizzato un piccolo capolavoro, una storia per tutte le età dal finale amaro ma universale. Consiglio caldamente la visione a tutti, dai più grandi ai più piccini. Vale davvero la pena imitare la nostra selkie: prendete coraggio e tuffatevi in questo oceano animato, non resterete delusi.
“La canzone del mare” (titolo originale “Song of the Sea”) è un lungometraggio animato di produzione internazionale europea del 2014. Diretto da Tomm Moore e uscito nelle sale italiane con due anni di ritardo, è stato candidato all’Oscar per il miglior film d’animazione nell’annata 2015.
Trama: il piccolo Ben, che vive con i genitori e il cane Cù in un faro di cui il padre è custode, è rimasto orfano di madre il giorno stesso in cui è venuta al mondo la sua sorellina, la cui nascita era attesa con trepidazione ed entusiasmo. Sei anni dopo, la bambina, Saoirse, è ancora incapace di parlare e non sembra essere mai riuscita ad aprire una breccia nel cuore del fratello maggiore, che le si rivolge frequentemente con toni aspri e insofferenti, mentre il papà dei due è ancora visibilmente provato dall’allontanamento della moglie.
In seguito a un apparente incidente in mare, la nonna dei ragazzini decide di portarli con sé in città, allontanandoli da quello che ritiene un ambiente poco sicuro, ed è proprio qui che, paradossalmente, Ben e Saoirse si ritrovano immersi in una realtà magica, in cui è il folklore celtico (e soprattutto irlandese) a farla da padrone.
“La canzone del mare” è una fiaba moderna che riesce ad essere al contempo delicata e straordinariamente intensa, facendo affidamento a un mondo fantastico che, sebbene tangibile quanto quello reale, funge da allegoria per quest’ultimo, introducendo e spiegando concetti direttamente collegati alla difficile situazione famigliare di Ben e Saoirse tramite continui rimandi, visivi e narrativi, ai personaggi mitologici (ben noti ai protagonisti) e alle loro storie. L’intreccio semplice e i personaggi non particolarmente complessi ma terribilmente umani nulla tolgono alla forza del racconto, che fin dalle prime battute avvolge lo spettatore in un piacevole tepore affettivo, senza però sminuire la carica emotiva delle scene più toccanti e drammatiche.
Il cast, con le sue motivazioni ed esperienze, risulta affascinante e concreto, e bastano pochi dialoghi per afferrare i traumi del passato e le speranze per il futuro di ognuno, sia per quanto riguarda i personaggi principali che quelli secondari, a cui è impossibile non rivolgere sguardi colmi di comprensione e tristezza. L’ostilità di Ben nei confronti della dolce Saoirse è irrazionale e lo rende potenzialmente antipatico e insopportabile, almeno finché non si prendono in considerazione la sua giovanissima età e l’associazione tra la sparizione dell’amata madre e la nascita della sorellina. Lo stesso dicasi per la nonna, una figura quasi dispotica e crudele apparentemente intenzionata a distruggere un già fragile nucleo famigliare, ma in realtà semplicemente in apprensione per un figlio che non ha mai superato il dolore per la perdita della compagna e per dei nipoti cresciuti quasi in isolamento e con problemi comportamentali.
Si configura così una storia in cui non vi sono dei veri e propri antagonisti, quanto piuttosto situazioni conflittuali dovute a una reazione non salutare alla sofferenza, a un adagiarsi nella disperazione, al totale diniego dei ricordi infelici per confinarsi in un’illusoria pace priva di sentimenti e turbamenti di alcuna sorta. La bellezza della pellicola emerge proprio in un messaggio positivo, in un’accettazione della vita nella sua interezza, con i suoi dispiaceri e i momenti più allegri, poiché ignorare il malessere interiore è un atteggiamento miope con pericolose conseguenze di deumanizzazione, mentre l’abbandono passivo a un presente deprimente e cupo mortifica le persone care.
Il comparto grafico assume un ruolo di primo piano all’interno del lungometraggio, cui dona uno stile unico e inconfondibile, e accompagna mirabilmente gli sviluppi narrativi, assumendo tonalità cromatiche che vanno dallo spento al brillante a seconda delle circostanze. La prospettiva realistica viene messa da parte in favore di una percezione bidimensionale degli sfondi, a metà tra le incisioni dei manoscritti medievali e i libri pop-up, che si manifestano come semplici ma non privi di dettagli. Lo stesso character design presenta particolari spigolosi, ma non diviene mai duro e tagliente, rivelandosi invece morbido e tenero, perfetto per delle animazioni fluide.
Considerato il titolo, fin dal prologo “La canzone del mare” esprime un legame indissolubile con la musica, che riveste un ruolo fondamentale all’interno della vicenda stessa, in un misto di brani diegetici ed extra-diegetici. La colonna sonora, eseguita perlopiù con strumenti tradizionali, è discretamente versatile e include pezzi ritmati e vivaci e altri più solenni e mistici, restando per la maggior parte del tempo di una commovente bellezza. Molto buono anche il doppiaggio italiano.
In conclusione, “La canzone del mare” è un piccolo capolavoro, un’incantevole opera di splendida sartoria cinematografica dotata di profonda creatività visiva e umanità, in cui l’introspezione psicologica non spettacolare è compensata, come in alcuni dei lavori del maestro Miyazaki, dalle interpretazioni e dalle reazioni emotive dei protagonisti, credibili e capaci di smuovere le corde del più arido degli animi.
Si tratta di una pellicola magica e graziosa, coinvolgente e trascinante, un autentico film per tutta la famiglia, con tutte le implicazioni positive del termine.
Trama: il piccolo Ben, che vive con i genitori e il cane Cù in un faro di cui il padre è custode, è rimasto orfano di madre il giorno stesso in cui è venuta al mondo la sua sorellina, la cui nascita era attesa con trepidazione ed entusiasmo. Sei anni dopo, la bambina, Saoirse, è ancora incapace di parlare e non sembra essere mai riuscita ad aprire una breccia nel cuore del fratello maggiore, che le si rivolge frequentemente con toni aspri e insofferenti, mentre il papà dei due è ancora visibilmente provato dall’allontanamento della moglie.
In seguito a un apparente incidente in mare, la nonna dei ragazzini decide di portarli con sé in città, allontanandoli da quello che ritiene un ambiente poco sicuro, ed è proprio qui che, paradossalmente, Ben e Saoirse si ritrovano immersi in una realtà magica, in cui è il folklore celtico (e soprattutto irlandese) a farla da padrone.
“La canzone del mare” è una fiaba moderna che riesce ad essere al contempo delicata e straordinariamente intensa, facendo affidamento a un mondo fantastico che, sebbene tangibile quanto quello reale, funge da allegoria per quest’ultimo, introducendo e spiegando concetti direttamente collegati alla difficile situazione famigliare di Ben e Saoirse tramite continui rimandi, visivi e narrativi, ai personaggi mitologici (ben noti ai protagonisti) e alle loro storie. L’intreccio semplice e i personaggi non particolarmente complessi ma terribilmente umani nulla tolgono alla forza del racconto, che fin dalle prime battute avvolge lo spettatore in un piacevole tepore affettivo, senza però sminuire la carica emotiva delle scene più toccanti e drammatiche.
Il cast, con le sue motivazioni ed esperienze, risulta affascinante e concreto, e bastano pochi dialoghi per afferrare i traumi del passato e le speranze per il futuro di ognuno, sia per quanto riguarda i personaggi principali che quelli secondari, a cui è impossibile non rivolgere sguardi colmi di comprensione e tristezza. L’ostilità di Ben nei confronti della dolce Saoirse è irrazionale e lo rende potenzialmente antipatico e insopportabile, almeno finché non si prendono in considerazione la sua giovanissima età e l’associazione tra la sparizione dell’amata madre e la nascita della sorellina. Lo stesso dicasi per la nonna, una figura quasi dispotica e crudele apparentemente intenzionata a distruggere un già fragile nucleo famigliare, ma in realtà semplicemente in apprensione per un figlio che non ha mai superato il dolore per la perdita della compagna e per dei nipoti cresciuti quasi in isolamento e con problemi comportamentali.
Si configura così una storia in cui non vi sono dei veri e propri antagonisti, quanto piuttosto situazioni conflittuali dovute a una reazione non salutare alla sofferenza, a un adagiarsi nella disperazione, al totale diniego dei ricordi infelici per confinarsi in un’illusoria pace priva di sentimenti e turbamenti di alcuna sorta. La bellezza della pellicola emerge proprio in un messaggio positivo, in un’accettazione della vita nella sua interezza, con i suoi dispiaceri e i momenti più allegri, poiché ignorare il malessere interiore è un atteggiamento miope con pericolose conseguenze di deumanizzazione, mentre l’abbandono passivo a un presente deprimente e cupo mortifica le persone care.
Il comparto grafico assume un ruolo di primo piano all’interno del lungometraggio, cui dona uno stile unico e inconfondibile, e accompagna mirabilmente gli sviluppi narrativi, assumendo tonalità cromatiche che vanno dallo spento al brillante a seconda delle circostanze. La prospettiva realistica viene messa da parte in favore di una percezione bidimensionale degli sfondi, a metà tra le incisioni dei manoscritti medievali e i libri pop-up, che si manifestano come semplici ma non privi di dettagli. Lo stesso character design presenta particolari spigolosi, ma non diviene mai duro e tagliente, rivelandosi invece morbido e tenero, perfetto per delle animazioni fluide.
Considerato il titolo, fin dal prologo “La canzone del mare” esprime un legame indissolubile con la musica, che riveste un ruolo fondamentale all’interno della vicenda stessa, in un misto di brani diegetici ed extra-diegetici. La colonna sonora, eseguita perlopiù con strumenti tradizionali, è discretamente versatile e include pezzi ritmati e vivaci e altri più solenni e mistici, restando per la maggior parte del tempo di una commovente bellezza. Molto buono anche il doppiaggio italiano.
In conclusione, “La canzone del mare” è un piccolo capolavoro, un’incantevole opera di splendida sartoria cinematografica dotata di profonda creatività visiva e umanità, in cui l’introspezione psicologica non spettacolare è compensata, come in alcuni dei lavori del maestro Miyazaki, dalle interpretazioni e dalle reazioni emotive dei protagonisti, credibili e capaci di smuovere le corde del più arido degli animi.
Si tratta di una pellicola magica e graziosa, coinvolgente e trascinante, un autentico film per tutta la famiglia, con tutte le implicazioni positive del termine.
Se la giuria degli Oscar fosse stata onesta, questo film avrebbe vinto nel 2015. Diecimila volte meglio del commercialissimo "Big Hero 6" (il vincitore della Disney del 2015), questo film non è solo per mocciosi, anche se va bene soprattutto per loro.
Grande protagonista di questa storia è il mare, che come una divinità prende e dà. Ci troviamo su un'isoletta dove il guardiano del faro vive con i suoi adorabili figlioletti. Il maggiore è un ragazzino che sente tanto la mancanza della madre e incolpa la sorellina per la sua mancanza, mentre la piccolina, che non capisce perché il fratello maggiore sia così insofferente verso di lei, non sente la mancanza della madre, perché non l'ha mai conosciuta. Su questa isola semi-felice sbarca la nonna a rovinare i pochi equilibri precari della famiglia, portando via i bambini con sé, dal faro in città; lì i due non si troveranno molto bene e decideranno di scappare. Nella fuga si scoprirà la verità sulla bambina, che non può rivelare il segreto dietro la sparizione della madre, e nascerà un vero legame tra i due fratelli.
Tra fantasia e realtà, questo film vi emozionerà tanto, non solo per la trama ma anche per il chara dei personaggi e per gli sfondi decisamente originali e molto d'ispirazione.
Non è banale, nella sua storia semplice ma complessa, piacerà non solo ai bambini ma anche agli adulti. Le musiche che vi accompagneranno per tutta la durata del film vi immergeranno ancora di più tra i colori sognanti di questa magica e originale favola moderna.
Grande protagonista di questa storia è il mare, che come una divinità prende e dà. Ci troviamo su un'isoletta dove il guardiano del faro vive con i suoi adorabili figlioletti. Il maggiore è un ragazzino che sente tanto la mancanza della madre e incolpa la sorellina per la sua mancanza, mentre la piccolina, che non capisce perché il fratello maggiore sia così insofferente verso di lei, non sente la mancanza della madre, perché non l'ha mai conosciuta. Su questa isola semi-felice sbarca la nonna a rovinare i pochi equilibri precari della famiglia, portando via i bambini con sé, dal faro in città; lì i due non si troveranno molto bene e decideranno di scappare. Nella fuga si scoprirà la verità sulla bambina, che non può rivelare il segreto dietro la sparizione della madre, e nascerà un vero legame tra i due fratelli.
Tra fantasia e realtà, questo film vi emozionerà tanto, non solo per la trama ma anche per il chara dei personaggi e per gli sfondi decisamente originali e molto d'ispirazione.
Non è banale, nella sua storia semplice ma complessa, piacerà non solo ai bambini ma anche agli adulti. Le musiche che vi accompagneranno per tutta la durata del film vi immergeranno ancora di più tra i colori sognanti di questa magica e originale favola moderna.
"Song of the Sea" è una curiosa coproduzione europea che dà vita a un'opera di animazione diversa da quelle che popolano i cinema negli ultimi anni, con uno stile grafico unico, per quel che mi riguarda artisticamente di raro impatto. Ci troviamo di fronte a un prodotto realizzato in animazione quasi tradizionale, senza 3D, con un character design che al primo impatto può sembrare infantile, ma che si dimostra in realtà artisticamente molto ispirato. " Song of the Sea", che sicuramente non ha budget stellari, punta moltissimo sulla ricercatezza di fondali e su soluzioni artisticamente originali, dando vita a immagini di forte impatto ed evocative, nonostante la loro semplicità.
La trama intende trasporre in animazione un'antica leggenda irlandese, le silkie, entità metà foca e metà umane che nelle notti di luna piena potevano trasformarsi in donne e vivere fugacemente tra gli uomini. Se tuttavia qualcuno avesse rubato la loro pelliccia, sarebbero state intrappolare nel loro aspetto umano. Si dice che una di queste sia voluta restare con il suo amato e che abbia dato vita anche a dei figli. Da qui parte "Song of the Sea", proprio da questi figli, cresciuti in questo caso senza una madre.
Le vicende si snodano in modo abbastanza semplice e lineare, senza particolari svolte narrative, e pertanto gli eventi sono un po' prevedibili. Vi sono degli antagonisti, tuttavia non risultano così temibili e incisivi, e non riescono realmente a mettere apprensione allo spettatore. Quello che colpisce, piuttosto, sono le canzoni e le musiche, che, unite alla grafica, rendono alcuni passaggi ricchi di poesia. Lo stile si integra perfettamente con la leggenda narrata, la evoca e le crea una ambientazione affascinante e ricca di misticità, facendo fiorire intorno alle vicende narrate un'aurea magica che pervade i paesaggi e i personaggi con l'essenza del folklore irlandese, che sfocia da ogni glifo e runa che adornano continuamente paesaggi e oggetti. Seguire "Song of the Sea" è stato per me un piacere per gli occhi e per le orecchie.
Nel complesso "Song of the Sea" non è certo un lungometraggio avvincente o dal ritmo incalzante, ma è una perla dalla realizzazione unica, e trasforma una leggenda irlandese in una fiaba piacevole e assolutamente da assaggiare.
La trama intende trasporre in animazione un'antica leggenda irlandese, le silkie, entità metà foca e metà umane che nelle notti di luna piena potevano trasformarsi in donne e vivere fugacemente tra gli uomini. Se tuttavia qualcuno avesse rubato la loro pelliccia, sarebbero state intrappolare nel loro aspetto umano. Si dice che una di queste sia voluta restare con il suo amato e che abbia dato vita anche a dei figli. Da qui parte "Song of the Sea", proprio da questi figli, cresciuti in questo caso senza una madre.
Le vicende si snodano in modo abbastanza semplice e lineare, senza particolari svolte narrative, e pertanto gli eventi sono un po' prevedibili. Vi sono degli antagonisti, tuttavia non risultano così temibili e incisivi, e non riescono realmente a mettere apprensione allo spettatore. Quello che colpisce, piuttosto, sono le canzoni e le musiche, che, unite alla grafica, rendono alcuni passaggi ricchi di poesia. Lo stile si integra perfettamente con la leggenda narrata, la evoca e le crea una ambientazione affascinante e ricca di misticità, facendo fiorire intorno alle vicende narrate un'aurea magica che pervade i paesaggi e i personaggi con l'essenza del folklore irlandese, che sfocia da ogni glifo e runa che adornano continuamente paesaggi e oggetti. Seguire "Song of the Sea" è stato per me un piacere per gli occhi e per le orecchie.
Nel complesso "Song of the Sea" non è certo un lungometraggio avvincente o dal ritmo incalzante, ma è una perla dalla realizzazione unica, e trasforma una leggenda irlandese in una fiaba piacevole e assolutamente da assaggiare.
Attenzione: la recensione contiene lievi spoiler
"Come away oh human child,
to the waters and the wild,
with the fairy hand in hand,
to the world most full of weeping that you could understand"
Con questa bellissima poesia, interpretata in sottofondo con bellissimi disegni che richiamano le tinte acquerello, veniamo introdotti in un mondo magico.
La storia comincia dal passato, presentandoci Bronagh, giovane madre in attesa del secondo figlio, intenta a dipingere con il figlio più piccolo, Ben, mentre cerca d'insegnarli una canzone in irlandese (o gaelico). I colori sono sfumati e tutta la scena diventa sempre più onirica, mentre il piccolo Ben si addormenta. La scena cambia accompagnata dall'incupirsi dei colori, fattisi ora più scuri e tetri, e finalmente il film può cominciare.
Sono passati sei anni dalla scomparsa di Bronagh e Ben, suo padre, il bellissimo cane Cu e la sorellina Saorsie vivono su un'isola nel mare d'Irlanda, occupandosi del faro. Rispetto ai sentimenti dolci che il piccolo Ben provava per l'arrivo del nuovo bambino, questo Ben di dieci anni si mostra sgarbato e scontroso nei confronti della sorellina che ritiene responsabile della scomparsa della loro madre. La piccola prova una strana attrazione verso il mare e una sera, seguendo delle piccole luci misteriose, scopre un manto bianco con il quale può trasformarsi in una foca. Infatti, è una Selkie, creatura della mitologia irlandese.
La storia si complica quando la nonna dei due ragazzi decide che i due bambini non possono assolutamente continuare a vivere in quel luogo e di peso li porta in città. Qui, i due bambini dovranno intraprendere un lungo e pericoloso viaggio per tornare a casa, da loro padre, per fare in modo che Saorsie possa ritrovare il suo mantello e cantare la "canzone" delle Selkie per salvare le creature magiche dall'estinzione.
La trama, a primo avviso, può sembrare solo l'introduzione a un film semplice e piuttosto comune - ma non è così.
I sentimenti di Ben, anche quelli sgradevoli, sono realistici, e anche il suo sviluppo emotivo lo è altrettanto. L'incontro con i variegati abitanti del mondo magico lo aiuterà a capire di più quello che accade attorno a sé, ma soprattutto durante lo scontro con Macha, la "strega gufo", che non si può scappare dai sentimenti, ma che bisogna accettarli per quello che sono: per quanto a volte possano essere dolorosi, non possiamo fare a meno di provarli, ma, soprattutto, che alcune cose accadono senza che per questo sia colpa di qualcuno.
La rassomiglianza dei personaggi soprannaturali con figure care a Ben è stato quel tocco in più alla serie, mostrandoci il paradosso e la similitudine che accompagnano queste due facce della stessa medaglia. L'incontro con il grande Seanachai ci fornisce un momento di comicità, spezzando il ritmo che finora aveva guidato la storia. Grazie a lui, Ben scoprirà la verità su quanto accaduto a sua madre.
Il momento culminante del film, a mio avviso, è quando la conchiglia/ocarina s'infrange a terra e la piccola Saorsie, ormai al limite, cade al suolo con essa. Il momento in cui si ricongiunge al suo manto e canta la canzone per liberare il mondo magico è forse uno dei più toccanti di tutto il film. La canzone gaelica rende l'atmosfera ancora più magica.
Il finale, che non voglio citare per questioni di spoiler, farà scendere qualche lacrimuccia, ma ci lascia con un bellissimo messaggio: andrà tutto bene.
Le animazioni in acqua erano splendide, mi è spiaciuto solo non vederne di più, ma i paesaggi e la colonna sonora hanno ampiamente compensato in tutto e per tutto.
"Song of the Sea" è un film adatto a tutti, dai più grandi ai più piccoli, il suo stile di animazione - ancora legato al 2D - ci fa trarre un sospiro di sollievo dai classici film americani ormai dominati dal CGI e dal computer. Lo stile di disegno è molto simile a quello del suo predecessore, "The secret of Kells", ma senza quella marcatura per i contorni che fu tipica di quella pellicola.
Insomma, è un film da guardare e riguardare - anche solo per le bellissime musiche e la splendida canzone che ci accompagna nel corso della visione.
Un peccato che non abbia potuto vincere l'Oscar, ma non essendo Disney era piuttosto scontato.
"Come away oh human child,
to the waters and the wild,
with the fairy hand in hand,
to the world most full of weeping that you could understand"
Con questa bellissima poesia, interpretata in sottofondo con bellissimi disegni che richiamano le tinte acquerello, veniamo introdotti in un mondo magico.
La storia comincia dal passato, presentandoci Bronagh, giovane madre in attesa del secondo figlio, intenta a dipingere con il figlio più piccolo, Ben, mentre cerca d'insegnarli una canzone in irlandese (o gaelico). I colori sono sfumati e tutta la scena diventa sempre più onirica, mentre il piccolo Ben si addormenta. La scena cambia accompagnata dall'incupirsi dei colori, fattisi ora più scuri e tetri, e finalmente il film può cominciare.
Sono passati sei anni dalla scomparsa di Bronagh e Ben, suo padre, il bellissimo cane Cu e la sorellina Saorsie vivono su un'isola nel mare d'Irlanda, occupandosi del faro. Rispetto ai sentimenti dolci che il piccolo Ben provava per l'arrivo del nuovo bambino, questo Ben di dieci anni si mostra sgarbato e scontroso nei confronti della sorellina che ritiene responsabile della scomparsa della loro madre. La piccola prova una strana attrazione verso il mare e una sera, seguendo delle piccole luci misteriose, scopre un manto bianco con il quale può trasformarsi in una foca. Infatti, è una Selkie, creatura della mitologia irlandese.
La storia si complica quando la nonna dei due ragazzi decide che i due bambini non possono assolutamente continuare a vivere in quel luogo e di peso li porta in città. Qui, i due bambini dovranno intraprendere un lungo e pericoloso viaggio per tornare a casa, da loro padre, per fare in modo che Saorsie possa ritrovare il suo mantello e cantare la "canzone" delle Selkie per salvare le creature magiche dall'estinzione.
La trama, a primo avviso, può sembrare solo l'introduzione a un film semplice e piuttosto comune - ma non è così.
I sentimenti di Ben, anche quelli sgradevoli, sono realistici, e anche il suo sviluppo emotivo lo è altrettanto. L'incontro con i variegati abitanti del mondo magico lo aiuterà a capire di più quello che accade attorno a sé, ma soprattutto durante lo scontro con Macha, la "strega gufo", che non si può scappare dai sentimenti, ma che bisogna accettarli per quello che sono: per quanto a volte possano essere dolorosi, non possiamo fare a meno di provarli, ma, soprattutto, che alcune cose accadono senza che per questo sia colpa di qualcuno.
La rassomiglianza dei personaggi soprannaturali con figure care a Ben è stato quel tocco in più alla serie, mostrandoci il paradosso e la similitudine che accompagnano queste due facce della stessa medaglia. L'incontro con il grande Seanachai ci fornisce un momento di comicità, spezzando il ritmo che finora aveva guidato la storia. Grazie a lui, Ben scoprirà la verità su quanto accaduto a sua madre.
Il momento culminante del film, a mio avviso, è quando la conchiglia/ocarina s'infrange a terra e la piccola Saorsie, ormai al limite, cade al suolo con essa. Il momento in cui si ricongiunge al suo manto e canta la canzone per liberare il mondo magico è forse uno dei più toccanti di tutto il film. La canzone gaelica rende l'atmosfera ancora più magica.
Il finale, che non voglio citare per questioni di spoiler, farà scendere qualche lacrimuccia, ma ci lascia con un bellissimo messaggio: andrà tutto bene.
Le animazioni in acqua erano splendide, mi è spiaciuto solo non vederne di più, ma i paesaggi e la colonna sonora hanno ampiamente compensato in tutto e per tutto.
"Song of the Sea" è un film adatto a tutti, dai più grandi ai più piccoli, il suo stile di animazione - ancora legato al 2D - ci fa trarre un sospiro di sollievo dai classici film americani ormai dominati dal CGI e dal computer. Lo stile di disegno è molto simile a quello del suo predecessore, "The secret of Kells", ma senza quella marcatura per i contorni che fu tipica di quella pellicola.
Insomma, è un film da guardare e riguardare - anche solo per le bellissime musiche e la splendida canzone che ci accompagna nel corso della visione.
Un peccato che non abbia potuto vincere l'Oscar, ma non essendo Disney era piuttosto scontato.