Defendant
Un’occasione parzialmente sprecata
Park Jung Woo, un pubblico ministero di Seul, un bel giorno si sveglia in prigione, condannato a morte, senza sapere come ci sia arrivato perché soffre di amnesia. Comincia una lotta contro il tempo e contro nemici onnipresenti e letali per recuperare la memoria e scagionarsi da accuse terribili: avrebbe ucciso l’amatissima moglie e la figlia, e non se ne ricorda.
L’inizio di questo drama è veramente scoppiettante: nel primo episodio succede di tutto e di più, l’adrenalina si spreca, è un’enorme promessa che fin da subito si teme sarà faticoso mantenere. Infatti, già negli episodi successivi, il ritmo cala, e tanto. Troppo. Non sarebbe grave, in fondo alla mia età il rischio infarto aumenta… Il problema è la ripetitività delle situazioni. E non solo quella: in questa serie assistiamo ad una sproporzione assurda, ancor più del solito, fra il potere attribuito ai cattivi e quello esercitabile dai buoni.
Per la stragrande maggioranza del tempo, il nostro carcerato e i pochi che lo appoggiano si dibattono senza sapere che pesci prendere. Il cattivo della situazione, lo psicopatico Cha Min Ho, sotto le spoglie del gemello Cha Sun Ho da lui ucciso, presidente di una importante compagnia commerciale, sembra padrone assoluto di ogni situazione e si diverte a fare il gatto che gioca col topo, ammazzando nel contempo qua e là buona parte di quelli che sanno della sua appropriazione di identità. Ad un certo punto questo folle si attribuisce un omicidio stradale commesso dalla moglie (del fratello) per farsi incarcerare nella stessa cella del protagonista. E poi ne uscirà. Che diavolo, succede tutti i giorni!
Pubblici ministeri, giudici, capintesta della prigione, poliziotti, tutti da lui sono corrotti e usati, insieme alle sue squadracce, contro Park Jung Woo e i suoi pochi amici. Perché tanto accanimento? Perché Park Jung Woo gli stava dando la caccia come assassino del fratello e di una serie di donne. Ma questo presidentucolo da strapazzo non è il presidente della Corea ma solo di una società, e il potere che pare smuovere è completamente sproporzionato alla sua persona. Sembra quasi che invece che in Seul l’azione si svolga in un terrario.
Le cose non migliorano quando si tratta di organizzare la fuga dalla prigione in cui Park Jung Woo è rinchiuso assieme ai suoi compagni di cella. La rocambolesca fuga, lungamente progettata e ripetutamente provata ogni notte dal nostro protagonista, è qualcosa di semplicemente assurdo. La cosa dura diversi giorni e nessuno o quasi si accorge mai di niente, i secondini non vedono o al momento decisivo decidono di non parlare per pararsi il posteriore, e così via.
Il nostro povero protagonista però deve soffrire fino alla fine e soffre veramente bene: Ji Sung è un attore maturo e splendido, che ben si presta alle scene di disperazione, anche se forse la regia l’ha spinto a gridare un po’ troppo. Si perdona molto al drama per via della sua interpretazione, veramente sentita, a volte addirittura troppo sentita, che arriva dritta al cuore dello spettatore. Non è solo disperato, è stranito, dubbioso, deciso, furioso, innamorato… Tutto l’intero spettro delle emozioni umane più probabilmente qualcuna che ha inventato da sé. Anche la figlia, interpretata da un’ottima Park Ha Yun, è veramente toccante. Quest’attrice in erba (classe 2009) è già in grado di dare molti punti a professioniste adulte. E d’altronde, sia pur senza aver mai recitato in ruoli da prima protagonista femminile, a causa dell’età, ha comunque già al suo attivo almeno una trentina di titoli. Si farà.
Uhm Ki Joon, che ha interpretato i due gemelli, è un altro attore navigato, che ha saputo rendere al meglio la follia del big boss, ma anche la sua tristezza e solitudine di fronte al suo essere sempre una seconda scelta rispetto al fratello maggiore. A questo proposito, ho trovato veramente eccessiva la figura del padre, che scopriamo averlo sempre picchiato (addirittura con mazze dal golf!) per il suo bene, anche se non si capisce bene come potesse essere possibile la cosa. La tesi del drama è che sarebbero questi ripetuti maltrattamenti ad averlo trasformato in uno psicopatico, non a caso la mazza da golf sembra essere una delle sue armi preferite. Un villain tormentato e tormentatore, che si ama odiare e si odia amare.
Di solito si parla delle scintille fra la coppia principale. Qui la coppia non è romantica, ma le scintille ci sono, eccome! Si avverte immediatamente la tensione quando i due protagonisti entrano nella stessa stanza. Le riprese ravvicinate sono da brivido, sguardi e espressioni parlano di istinti omicidi, sfide e promesse di vendetta. Standing ovation.
Sul fronte degli attori secondari, menzione d’onore va fatta per il gruppo dei compagni di cella del protagonista, che sono spesso il collante che tiene insieme delle vicende carcerarie piuttosto lunghe, ripetitive e noiose. Le interazioni del simpatico mucchio ci regalano qualche sorriso, necessario come l’aria in mezzo a tanta, spesso inutile, angoscia.
Molto meno bene, per quanto mi riguarda, il comparto femminile che, a parte la bambina già citata, vede principalmente l’avvocata Kwon Yu Ri, praticamente inutile ai fine della trama, e la moglie di Cha Sun Ho, che sembra provvista di un’unica espressione per tutto il drama, ma che almeno ha un suo perché.
Lo stesso appunto di mancanza di espressività si può addebitare a Oh Chang Seok, che interpreta Kang Joon Hyuk, pubblico ministero amico di Park Jung Woo. Proprio vero che con certi amici non c’è bisogno di nemici.
Occorre poi notare come, dopo tante angosce e peripezie, la sconfitta del big boss avvenga in modo poco soddisfacente, decisamente piatto. Ci si aspettavano scoppiettanti fuochi d’artificio e invece si finisce con un petardo bagnato. Finale lieto, ma decisamente brutto. Ottimo però il comparto musicale, con diverse canzoni gradevoli ma, soprattutto, con la sua indimenticabile sigla iniziale strumentale Till the end di SAN E. E menzione d’onore per le riprese, veramente eccellenti.
Per tirare le fila, un’interpretazione magistrale da parte degli attori principali, che mi ha tenuta incollata davanti allo schermo anche quando la ripetitività di alcuni frangenti e, soprattutto, la richiesta di sospensione dell’incredulità davanti a certe situazioni esacerbate e assurde si facevano eccessive. Una storia elefantiaca, a volte tirata troppo per i capelli, ma ben girata e recitata, con un ottimo commento musicale. Ma una storia di uomini, non venite qui a cercare personaggi femminili di rilievo, perché non ne trovereste. Si guarda, e si guarda con piacere, ma ci si domanda quale capolavoro avrebbe potuto essere se solo non si fosse voluto spingere troppo il pedale su certe situazioni e si fosse tagliato su altre. Peccato.
Park Jung Woo, un pubblico ministero di Seul, un bel giorno si sveglia in prigione, condannato a morte, senza sapere come ci sia arrivato perché soffre di amnesia. Comincia una lotta contro il tempo e contro nemici onnipresenti e letali per recuperare la memoria e scagionarsi da accuse terribili: avrebbe ucciso l’amatissima moglie e la figlia, e non se ne ricorda.
L’inizio di questo drama è veramente scoppiettante: nel primo episodio succede di tutto e di più, l’adrenalina si spreca, è un’enorme promessa che fin da subito si teme sarà faticoso mantenere. Infatti, già negli episodi successivi, il ritmo cala, e tanto. Troppo. Non sarebbe grave, in fondo alla mia età il rischio infarto aumenta… Il problema è la ripetitività delle situazioni. E non solo quella: in questa serie assistiamo ad una sproporzione assurda, ancor più del solito, fra il potere attribuito ai cattivi e quello esercitabile dai buoni.
Per la stragrande maggioranza del tempo, il nostro carcerato e i pochi che lo appoggiano si dibattono senza sapere che pesci prendere. Il cattivo della situazione, lo psicopatico Cha Min Ho, sotto le spoglie del gemello Cha Sun Ho da lui ucciso, presidente di una importante compagnia commerciale, sembra padrone assoluto di ogni situazione e si diverte a fare il gatto che gioca col topo, ammazzando nel contempo qua e là buona parte di quelli che sanno della sua appropriazione di identità. Ad un certo punto questo folle si attribuisce un omicidio stradale commesso dalla moglie (del fratello) per farsi incarcerare nella stessa cella del protagonista. E poi ne uscirà. Che diavolo, succede tutti i giorni!
Pubblici ministeri, giudici, capintesta della prigione, poliziotti, tutti da lui sono corrotti e usati, insieme alle sue squadracce, contro Park Jung Woo e i suoi pochi amici. Perché tanto accanimento? Perché Park Jung Woo gli stava dando la caccia come assassino del fratello e di una serie di donne. Ma questo presidentucolo da strapazzo non è il presidente della Corea ma solo di una società, e il potere che pare smuovere è completamente sproporzionato alla sua persona. Sembra quasi che invece che in Seul l’azione si svolga in un terrario.
Le cose non migliorano quando si tratta di organizzare la fuga dalla prigione in cui Park Jung Woo è rinchiuso assieme ai suoi compagni di cella. La rocambolesca fuga, lungamente progettata e ripetutamente provata ogni notte dal nostro protagonista, è qualcosa di semplicemente assurdo. La cosa dura diversi giorni e nessuno o quasi si accorge mai di niente, i secondini non vedono o al momento decisivo decidono di non parlare per pararsi il posteriore, e così via.
Il nostro povero protagonista però deve soffrire fino alla fine e soffre veramente bene: Ji Sung è un attore maturo e splendido, che ben si presta alle scene di disperazione, anche se forse la regia l’ha spinto a gridare un po’ troppo. Si perdona molto al drama per via della sua interpretazione, veramente sentita, a volte addirittura troppo sentita, che arriva dritta al cuore dello spettatore. Non è solo disperato, è stranito, dubbioso, deciso, furioso, innamorato… Tutto l’intero spettro delle emozioni umane più probabilmente qualcuna che ha inventato da sé. Anche la figlia, interpretata da un’ottima Park Ha Yun, è veramente toccante. Quest’attrice in erba (classe 2009) è già in grado di dare molti punti a professioniste adulte. E d’altronde, sia pur senza aver mai recitato in ruoli da prima protagonista femminile, a causa dell’età, ha comunque già al suo attivo almeno una trentina di titoli. Si farà.
Uhm Ki Joon, che ha interpretato i due gemelli, è un altro attore navigato, che ha saputo rendere al meglio la follia del big boss, ma anche la sua tristezza e solitudine di fronte al suo essere sempre una seconda scelta rispetto al fratello maggiore. A questo proposito, ho trovato veramente eccessiva la figura del padre, che scopriamo averlo sempre picchiato (addirittura con mazze dal golf!) per il suo bene, anche se non si capisce bene come potesse essere possibile la cosa. La tesi del drama è che sarebbero questi ripetuti maltrattamenti ad averlo trasformato in uno psicopatico, non a caso la mazza da golf sembra essere una delle sue armi preferite. Un villain tormentato e tormentatore, che si ama odiare e si odia amare.
Di solito si parla delle scintille fra la coppia principale. Qui la coppia non è romantica, ma le scintille ci sono, eccome! Si avverte immediatamente la tensione quando i due protagonisti entrano nella stessa stanza. Le riprese ravvicinate sono da brivido, sguardi e espressioni parlano di istinti omicidi, sfide e promesse di vendetta. Standing ovation.
Sul fronte degli attori secondari, menzione d’onore va fatta per il gruppo dei compagni di cella del protagonista, che sono spesso il collante che tiene insieme delle vicende carcerarie piuttosto lunghe, ripetitive e noiose. Le interazioni del simpatico mucchio ci regalano qualche sorriso, necessario come l’aria in mezzo a tanta, spesso inutile, angoscia.
Molto meno bene, per quanto mi riguarda, il comparto femminile che, a parte la bambina già citata, vede principalmente l’avvocata Kwon Yu Ri, praticamente inutile ai fine della trama, e la moglie di Cha Sun Ho, che sembra provvista di un’unica espressione per tutto il drama, ma che almeno ha un suo perché.
Lo stesso appunto di mancanza di espressività si può addebitare a Oh Chang Seok, che interpreta Kang Joon Hyuk, pubblico ministero amico di Park Jung Woo. Proprio vero che con certi amici non c’è bisogno di nemici.
Occorre poi notare come, dopo tante angosce e peripezie, la sconfitta del big boss avvenga in modo poco soddisfacente, decisamente piatto. Ci si aspettavano scoppiettanti fuochi d’artificio e invece si finisce con un petardo bagnato. Finale lieto, ma decisamente brutto. Ottimo però il comparto musicale, con diverse canzoni gradevoli ma, soprattutto, con la sua indimenticabile sigla iniziale strumentale Till the end di SAN E. E menzione d’onore per le riprese, veramente eccellenti.
Per tirare le fila, un’interpretazione magistrale da parte degli attori principali, che mi ha tenuta incollata davanti allo schermo anche quando la ripetitività di alcuni frangenti e, soprattutto, la richiesta di sospensione dell’incredulità davanti a certe situazioni esacerbate e assurde si facevano eccessive. Una storia elefantiaca, a volte tirata troppo per i capelli, ma ben girata e recitata, con un ottimo commento musicale. Ma una storia di uomini, non venite qui a cercare personaggi femminili di rilievo, perché non ne trovereste. Si guarda, e si guarda con piacere, ma ci si domanda quale capolavoro avrebbe potuto essere se solo non si fosse voluto spingere troppo il pedale su certe situazioni e si fosse tagliato su altre. Peccato.