Gozu
Quando i canoni di riferimento del cinema raggiungono la stagnazione, inevitabilmente esso diventa postmoderno, e prendono piede determinati registi "decostruttori" dei modelli prestabiliti, che li citano ma allo stesso tempo li negano, imbastendo un percorso semiotico in cui la trama intesa in senso classico viene meno; la linearità della narrazione degli eventi viene meno; gli idealismi e i romanticismi lasciano spazio a cliché che vanno a formare strutture ad archivio di dati tra le quali, talvolta, senza dover necessariamente passare per il raziocinio, emerge un messaggio esistenzialista figlio del contesto in cui il film nasce. Nella storia del cinema i pioneri di tale modus operandi sono stati Antonioni e Bergman; Takashi Miike in un certo senso rappresenta la fase finale del regista postmoderno: la sua opera è estrema in tutto e per tutto, sia formalmente che contenutisticamente, e la sua tendenza decostruttrice è feroce e paranoica, figlia delle perversioni inconsce di una società estremamente patriarcale, autoreferenziale e rigida come quella giapponese. Il cinema di Miike cerca di svincolarsi dalla sopracitata stagnazione in ogni modo possibile, aggiornando i canoni dell'assurdo e del grottesco con un gusto del kitsch marcio e perverso, che strizza l'occhio allo stile registico funambolico di David Lynch stravolgendo i convenzionalismi tipici del cinema giapponese e non.
Takeshi Miike è un regista che si è formato nel V-cinema, quello concepito esclusivamente per l'home-video - pertanto low budget e dai tempi di realizzazione molto stretti. La quantità esorbitante di film prodotti nella sua carriera, un andirivieni dal cinema mainstream a quello più underground e di nicchia, nasce da un percorso formativo frenetico ed eterogeneo, in cui la libertà di creare nuove pellicole rompendo gli schemi è stata sempre assicurata da costi di produzione contenuti e ritmi di lavoro frenetici. Non per nulla il qui presente "Gozu" è stato concepito inizialmente per il V-cinema, ed è passato nelle sale soltanto in un secondo momento, dopo il consenso ricevuto al Festival di Cannes.
E' così che all'inizio del film Miike fa parlare in sua vece Ozaki, uno yakuza psicopatico che si appresta ad uccidere brutalmente un chihuahua, in quanto lo reputa un cane addestrato appositamente per uccidere gli yakuza. Sebbene l'incipit, per quanto folle, sia a tutti gli effetti un qualcosa che assomiglia ad uno yakuza movie, con il proseguire dei fotogrammi si assisterà ad una delle decostruzioni del genere più imprevedibili mai viste, un viaggio nell'inconscio carico di perversioni sessuali e incubi ad occhi aperti il cui denominatore comune è il completo rigetto delle convenzioni e dei canoni sessuali e sociali vigenti. "Gozu" è uno dei pochi film in grado di mettere lo spettatore in uno stato di sospensione assoluta, una trance dettata dall'incapacità di prevedere "che cosa succederà dopo" ad un determinato evento, giacché le brusche virate delle vicende vissute da Minami, lo "yakuza nel paese delle meraviglie" che si vede costretto dal suo boss ad eliminare il "fratello" Ozaki - a causa della sua mancanza di conformità con i principi della mafia/società, che non tollera la diversità e la follia -, si faranno via via sempre più assurde e grottesche. Le figure del boss e del fratello, messe in relazione al protagonista Minami (dichiaratamente vergine, pertanto non ancora sessualmente e socialmente adulto), sono metafore della figura paterna che va superata, resa femminile - ebbene sì, nel film comparirà un Ozaki dotato di vagina, interpetato dalla bellissima Kimika Yoshino - ed ergo conquistata carnalmente ed "escatologicamente", al fine di poter sviluppare la propria personalità riuscendo finalmente ad aprirsi al mondo, nonostante il senso di oppressione ch'esso esercita data la sua durezza.
Scevro di barocchismi intellettuali e dotato di un sarcasmo grottesco impareggiabile, Miike descrive una moltitudine di trasformazioni del corpo, che per la sua poetica è l'equivalente dello spirito. Tali metamorfosi vengono coadiuvate da un'attenzione maniacale della macchina da presa per i fluidi corporei dei personaggi - sangue che scorre a fiotti, latte che fuorisce dalle mammelle e così via. L'apice del simbolismo inerente l'alchimia del film è la sua scena finale, in cui il mascolino fuorisce dal femminino in un bagno di sangue, fluidi vaginali e sudore: l'unità nella molteplicità è stata archiviata, la personalità adulta si è creata, l'individuazione del sé è stata raggiunta e pertanto si può uscire allo scoperto, alla luce, in un mondo privo di nevrosi e di soffocanti patriarchi che uccidono l'identità sul nascere. Gli strani personaggi del film contribuiscono al percorso di formazione del protagonista attraverso comportamenti assurdi e contradditori, incarnando i vari archetipi dell'inconscio - lo strano Nose, satiro dal volto in parte coperto di vernice che sostiene di avere problemi di depigmentazione, corrisponde a quello del folle/buffone; la padrona della locanda, che pare avere una relazione incestuosa con il fratello ritardato, a quello della strega (cercherà addirittura di invocare le anime dei morti prendendo il fratello a frustate); il Gozu che dà il nome al film indubbiamente ricalca la figura del mago, che applica la magia della corporeità mediante una raccapricciante leccata in faccia, rappresentando palesemente, con il suo corpo mezzo umano e mezzo animale, un simbolo di trasformazione della libido.
Registicamente Miike è in grado di creare momenti di tensione/risoluzione imprevedibili, che lasciano lo spettatore attonito; talvolta, il suo giocare con la postmodernità fa assumere al film i connotati di una fiaba per bambini troppo cresciuti, un mood che aggiunge un ulteriore contrasto all'horrorifico mare di simboli che soltanto un Miike giunto alla piena maturità artistica può rappresentare. Non mancano all'appello alcune graffiate d'autore prive di qualsivoglia compromesso, delle scene che non hanno nulla da invidiare ai truci fasti di "Visitor Q", "Ichi the Killer" e "Audition", tutti film girati nel periodo di maggior ispirazione del regista. Detto ciò, in conclusione, "Gozu" è in estrema sintesi un messaggio di libertà estremo, che si fa beffe del formalismo e del raziocinio stimolando direttamente i sensi, il subconscio e l'istinto, decretando che la vera essenza della libertà è innegabilmente perversa, in quanto non corrisponde ad alcun canone prestabilito dalla ragione e dall'etica patriarcale.
Takeshi Miike è un regista che si è formato nel V-cinema, quello concepito esclusivamente per l'home-video - pertanto low budget e dai tempi di realizzazione molto stretti. La quantità esorbitante di film prodotti nella sua carriera, un andirivieni dal cinema mainstream a quello più underground e di nicchia, nasce da un percorso formativo frenetico ed eterogeneo, in cui la libertà di creare nuove pellicole rompendo gli schemi è stata sempre assicurata da costi di produzione contenuti e ritmi di lavoro frenetici. Non per nulla il qui presente "Gozu" è stato concepito inizialmente per il V-cinema, ed è passato nelle sale soltanto in un secondo momento, dopo il consenso ricevuto al Festival di Cannes.
Tutto quello che sto per dirvi è uno scherzo, quindi non prendetemi sul serio.
E' così che all'inizio del film Miike fa parlare in sua vece Ozaki, uno yakuza psicopatico che si appresta ad uccidere brutalmente un chihuahua, in quanto lo reputa un cane addestrato appositamente per uccidere gli yakuza. Sebbene l'incipit, per quanto folle, sia a tutti gli effetti un qualcosa che assomiglia ad uno yakuza movie, con il proseguire dei fotogrammi si assisterà ad una delle decostruzioni del genere più imprevedibili mai viste, un viaggio nell'inconscio carico di perversioni sessuali e incubi ad occhi aperti il cui denominatore comune è il completo rigetto delle convenzioni e dei canoni sessuali e sociali vigenti. "Gozu" è uno dei pochi film in grado di mettere lo spettatore in uno stato di sospensione assoluta, una trance dettata dall'incapacità di prevedere "che cosa succederà dopo" ad un determinato evento, giacché le brusche virate delle vicende vissute da Minami, lo "yakuza nel paese delle meraviglie" che si vede costretto dal suo boss ad eliminare il "fratello" Ozaki - a causa della sua mancanza di conformità con i principi della mafia/società, che non tollera la diversità e la follia -, si faranno via via sempre più assurde e grottesche. Le figure del boss e del fratello, messe in relazione al protagonista Minami (dichiaratamente vergine, pertanto non ancora sessualmente e socialmente adulto), sono metafore della figura paterna che va superata, resa femminile - ebbene sì, nel film comparirà un Ozaki dotato di vagina, interpetato dalla bellissima Kimika Yoshino - ed ergo conquistata carnalmente ed "escatologicamente", al fine di poter sviluppare la propria personalità riuscendo finalmente ad aprirsi al mondo, nonostante il senso di oppressione ch'esso esercita data la sua durezza.
Scevro di barocchismi intellettuali e dotato di un sarcasmo grottesco impareggiabile, Miike descrive una moltitudine di trasformazioni del corpo, che per la sua poetica è l'equivalente dello spirito. Tali metamorfosi vengono coadiuvate da un'attenzione maniacale della macchina da presa per i fluidi corporei dei personaggi - sangue che scorre a fiotti, latte che fuorisce dalle mammelle e così via. L'apice del simbolismo inerente l'alchimia del film è la sua scena finale, in cui il mascolino fuorisce dal femminino in un bagno di sangue, fluidi vaginali e sudore: l'unità nella molteplicità è stata archiviata, la personalità adulta si è creata, l'individuazione del sé è stata raggiunta e pertanto si può uscire allo scoperto, alla luce, in un mondo privo di nevrosi e di soffocanti patriarchi che uccidono l'identità sul nascere. Gli strani personaggi del film contribuiscono al percorso di formazione del protagonista attraverso comportamenti assurdi e contradditori, incarnando i vari archetipi dell'inconscio - lo strano Nose, satiro dal volto in parte coperto di vernice che sostiene di avere problemi di depigmentazione, corrisponde a quello del folle/buffone; la padrona della locanda, che pare avere una relazione incestuosa con il fratello ritardato, a quello della strega (cercherà addirittura di invocare le anime dei morti prendendo il fratello a frustate); il Gozu che dà il nome al film indubbiamente ricalca la figura del mago, che applica la magia della corporeità mediante una raccapricciante leccata in faccia, rappresentando palesemente, con il suo corpo mezzo umano e mezzo animale, un simbolo di trasformazione della libido.
Registicamente Miike è in grado di creare momenti di tensione/risoluzione imprevedibili, che lasciano lo spettatore attonito; talvolta, il suo giocare con la postmodernità fa assumere al film i connotati di una fiaba per bambini troppo cresciuti, un mood che aggiunge un ulteriore contrasto all'horrorifico mare di simboli che soltanto un Miike giunto alla piena maturità artistica può rappresentare. Non mancano all'appello alcune graffiate d'autore prive di qualsivoglia compromesso, delle scene che non hanno nulla da invidiare ai truci fasti di "Visitor Q", "Ichi the Killer" e "Audition", tutti film girati nel periodo di maggior ispirazione del regista. Detto ciò, in conclusione, "Gozu" è in estrema sintesi un messaggio di libertà estremo, che si fa beffe del formalismo e del raziocinio stimolando direttamente i sensi, il subconscio e l'istinto, decretando che la vera essenza della libertà è innegabilmente perversa, in quanto non corrisponde ad alcun canone prestabilito dalla ragione e dall'etica patriarcale.