The Taste of Tea
Gli Haruno vivono in una modesta casa di campagna nella periferia di Tokyo. Insieme formano una famiglia che, sì, potremmo definire normale, ma che, nella sua variegatura, fa di ogni suo componente un vero e proprio personaggio: il papà, che di professione fa l'ipnoterapista; la mamma, una disegnatrice che ha seguito le orme del genitore, uno 'sprintoso' e carismatico nonnetto, con qualche rotella ormai fuori posto; il timido figlio maschio adolescente, che si è perdutamente invaghito di una neo arrivata compagna di classe (come nel più classico degli anime scolastici); e una femminuccia, che in casa parla meno di tutti poiché è sempre immersa nei suoi pensieri, imbronciata, per colpa di quei piccoli grandi problemi che gli adulti non possono capire; c'è poi lo zio, un tipo strano, che lavorava come fonico, ma che adesso trascorre il tempo ad oziare; mai eccentrico quanto un parente fumettista con la tendenza a scrivere canzonette di dubbio gusto. A fare da contorno troviamo figure minori, alcune delle quali piuttosto grottesche, che si affacciano e riaffacciano nelle vite dei protagonisti, in un modo che sembra del tutto casuale, ma che è assolutamente in sintonia con la narrazione.
Il "Sapore del tè" è un titolo che rappresenta esattamente le sensazioni che la visione del film garantisce: un po' dolci, un po' amare, quotidiane, che conosciamo e che ci appartengono (nel nostro caso ci vedremmo meglio il caffè). Come è da sacra tradizione giapponese bere il tè, tradizionale, pur nella sua stravaganza, è l'impianto familiare che ci viene ritratto. È il 2004 quando Katsuhito Ishii si accinge, con grande personalità, a dirigere la sua terza pellicola cinematografica. L'esito ottenuto è un ritorno alle atmosfere, ai temi (famiglia, contrasto campagna-città ecc.), alle inquadrature ferme e dilatate, del cinema di Ozu, che abbellisce con spruzzate di surrealismo pop - sia scenico sia visivo - armoniosamente inserite nella quotidianità. Ma soprattutto garantisce un'esperienza rilassante e a tratti elegiaca per lo spettatore, accolto in una dimensione intima che sfiora la memoria sensoriale, spesso col solo ausilio di un'immagine o di un suono. D'altronde la fotografia e il sonoro danno adito agli splendidi scenari, che parlano da soli, di comunicarci tutte le sensazioni di cui abbiamo bisogno, limitando i movimenti della macchina da presa. Particolare (ma non perfetto) è l'utilizzo di effetti grafici abbastanza cartooneschi, che spuntano qua e là a voler sottolineare l'alone surreale che avvolge il racconto.
Nonostante la condizione di estraneità e di leggero spaesamento che è facile provare in partenza, Ishii è bravo a far sì che ci riconosciamo, a poco a poco, in almeno uno dei protagonisti, o in una fase della vita, o in una delle piccole abitudini, che li caratterizzano.
A far respirare aria di casa ci pensano anche le buonissime prove attoriali di quasi tutto il cast. Fra i volti noti spicca quello di Tadanobu Asano, nei panni dello zio "vagabondo", di ineccepibile bravura anche in questo frangente, sebbene di fatto non si veda moltissimo; da segnalare poi due inaspettate presenze, che mi hanno perfino strappato un sorriso: il primo, famigerato Susumu Terajima, che ormai mi sono rassegnato a identificare come "quello che fa lo yakuza in ogni film giapponese che vedo", e che porta avanti la tradizione anche qui, pur comparendo in poche sequenze; il secondo è un signore che per gli anime-fan non avrà bisogno di presentazioni, ovvero Hideaki Anno, qui nei panni di regista, o meglio, proprio nei suoi panni. Non a caso l'argomento "anime e manga" viene proposto più volte nel corso del film (memorabile anche la scena degli otaku in treno), difatti Katsuhito Ishii è anche un animatore affermato. Valide le interpretazioni dei tre giovanissimi: Takahiro Sato nei panni del riservato Hajime, Anna Tsuchiya (che si farà conoscere anche con "Kamikaze Girls", lo stesso anno) come compagna di banco, e la dolce Maya Banno, classe '96, a impersonare la piccola Sachiko.
Passato in rassegna a Cannes e vincitore di numerosi premi in patria e all'estero, "Cha no Aji" è sicuramente uno dei film contemporanei nipponici che più ricorderò con piacere. È una commedia/slice of life certamente atipica ma intrisa di sensazioni comuni, un'opera che elegantemente mescola la poetica del minimalismo alla fantasia del weird (che contaminerà ampiamente il successivo lavoro del regista, "Funky Forest"). Fino ad ora avevo accostato il termine "slice of life" soltanto ad opere d'animazione, ma credo che in questo caso calzi proprio a pennello. Un film che non teme il peso della sua durata, bensì una visione estremamente delicata, leggera. Come il cuore di un bambino che dopo aver raggiunto un primo, piccolo grande obiettivo nella vita, può finalmente lasciarsi andare a un sorriso liberatorio e spensierato. Un sorriso che oltrepassa lo schermo e ci contagia, durante e dopo i titoli di coda.
Il "Sapore del tè" è un titolo che rappresenta esattamente le sensazioni che la visione del film garantisce: un po' dolci, un po' amare, quotidiane, che conosciamo e che ci appartengono (nel nostro caso ci vedremmo meglio il caffè). Come è da sacra tradizione giapponese bere il tè, tradizionale, pur nella sua stravaganza, è l'impianto familiare che ci viene ritratto. È il 2004 quando Katsuhito Ishii si accinge, con grande personalità, a dirigere la sua terza pellicola cinematografica. L'esito ottenuto è un ritorno alle atmosfere, ai temi (famiglia, contrasto campagna-città ecc.), alle inquadrature ferme e dilatate, del cinema di Ozu, che abbellisce con spruzzate di surrealismo pop - sia scenico sia visivo - armoniosamente inserite nella quotidianità. Ma soprattutto garantisce un'esperienza rilassante e a tratti elegiaca per lo spettatore, accolto in una dimensione intima che sfiora la memoria sensoriale, spesso col solo ausilio di un'immagine o di un suono. D'altronde la fotografia e il sonoro danno adito agli splendidi scenari, che parlano da soli, di comunicarci tutte le sensazioni di cui abbiamo bisogno, limitando i movimenti della macchina da presa. Particolare (ma non perfetto) è l'utilizzo di effetti grafici abbastanza cartooneschi, che spuntano qua e là a voler sottolineare l'alone surreale che avvolge il racconto.
Nonostante la condizione di estraneità e di leggero spaesamento che è facile provare in partenza, Ishii è bravo a far sì che ci riconosciamo, a poco a poco, in almeno uno dei protagonisti, o in una fase della vita, o in una delle piccole abitudini, che li caratterizzano.
A far respirare aria di casa ci pensano anche le buonissime prove attoriali di quasi tutto il cast. Fra i volti noti spicca quello di Tadanobu Asano, nei panni dello zio "vagabondo", di ineccepibile bravura anche in questo frangente, sebbene di fatto non si veda moltissimo; da segnalare poi due inaspettate presenze, che mi hanno perfino strappato un sorriso: il primo, famigerato Susumu Terajima, che ormai mi sono rassegnato a identificare come "quello che fa lo yakuza in ogni film giapponese che vedo", e che porta avanti la tradizione anche qui, pur comparendo in poche sequenze; il secondo è un signore che per gli anime-fan non avrà bisogno di presentazioni, ovvero Hideaki Anno, qui nei panni di regista, o meglio, proprio nei suoi panni. Non a caso l'argomento "anime e manga" viene proposto più volte nel corso del film (memorabile anche la scena degli otaku in treno), difatti Katsuhito Ishii è anche un animatore affermato. Valide le interpretazioni dei tre giovanissimi: Takahiro Sato nei panni del riservato Hajime, Anna Tsuchiya (che si farà conoscere anche con "Kamikaze Girls", lo stesso anno) come compagna di banco, e la dolce Maya Banno, classe '96, a impersonare la piccola Sachiko.
Passato in rassegna a Cannes e vincitore di numerosi premi in patria e all'estero, "Cha no Aji" è sicuramente uno dei film contemporanei nipponici che più ricorderò con piacere. È una commedia/slice of life certamente atipica ma intrisa di sensazioni comuni, un'opera che elegantemente mescola la poetica del minimalismo alla fantasia del weird (che contaminerà ampiamente il successivo lavoro del regista, "Funky Forest"). Fino ad ora avevo accostato il termine "slice of life" soltanto ad opere d'animazione, ma credo che in questo caso calzi proprio a pennello. Un film che non teme il peso della sua durata, bensì una visione estremamente delicata, leggera. Come il cuore di un bambino che dopo aver raggiunto un primo, piccolo grande obiettivo nella vita, può finalmente lasciarsi andare a un sorriso liberatorio e spensierato. Un sorriso che oltrepassa lo schermo e ci contagia, durante e dopo i titoli di coda.