Harakiri
Non ricordo quando tempo fà su Badtaste ci fu una discussione in merito a questo film, iniziata se non sbaglio da parte di un utente, che mi colpì così tanto che quando mi sono ritrovato innanzi ai miei occhi alla Feltrinelli il dvd di Harakiri di Masaki Kobayashi (1962), l'ho comprato a scatola chiusa e dopo la visione non me ne sono pentito affatto.
Tra gli stereotipi del Giappone, conosciuto da tante persone è il seppuku (titolo originale del film tra l'altro), il suicidio rituale posto in essere dal samurai spesso per salvaguardare il proprio onore; in effetti mi aspettavo un film celebrativo ed invece Kobayashi sfruttando intelligentemente l'ottima sceneggiatura di Shonobu Hashimoto (collaboratore di alcuni film di Akira Kurosawa tra cui Rashamon), sfrutta questo rito come mero Mcguffin per parlare in realtà della società Giapponese, ritraendola spietatamente in quello che dovrebbe essere il rituale che ne celebra la purezza, ed invece dietro l'apparenza si disvela un paese profondamente ipocrita ed ancorato a delle tradizioni di facciata prive di qualsiasi senso pratico.
Nel 1630, il Giappone è unificato dalla casata dei Tokugawa da circa 30 anni dopo la battaglia di Sekigahara, le guerre sono terminate ed i samurai si sono riciclati per la maggior parte come burocrati all'interno delle amministrazioni dei potenti clan e finchè la famiglia prospera non ci sono problemi; purtroppo per Hanshiro Tsugumo (Tatsuya Nakadai) la rovina e l'esilio del suo del suo signore lo hanno portato da un giorno all'altro in miseria e a diventare un ronin, un samurai senza padrone.
Cercare un nuovo clan per mettersi al servizio dovrebbe essere facile, purtroppo in tempi di pace i guerrieri non servono più e così Tsugumo dopo anni di miserie e stenti chiede al potente casato degli Iyi, di poter compiere un onorevole seppuku all'interno della loro dimora.
Dietro un film che in apparenza dovrebbe celebrare la fine più onorevole che possa fare un samurai tramite il suicidio rituale se gli risulta impossibile la morte in battaglia, Kobayashi in realtà muove un forte attacco alla società Giapponese contemporanea ad ai potenti che gestiscono le leve del potere, imponendo un insensato status quo sociale ed insensibili ad ogni istanza di cambiamento, trincerandosi dietro una presunta quanto vacua difesa delle tradizioni più pure.
Il film si dipana attraverso numerosi flashback scaturiti dalla narrazione degli avvenimenti della propria vita da parte di Tsugumo nel giardino interno del casato degli Iyi, così una scelta radicale seppur gloriosa come quella di compiere seppuku da parte di questo samurai, in realtà diventa un percorso di di uomo che era rimasto ancorato a stupidi simboli di un passato oramai tramontato ed incapace di vedere un presente, cadendo così nella totale rovina sia personale che familiare, Tsugumo capirà la vacuità delle proprie convinzioni intraprendendo un percorso di ricostruzione della propria persona alla luce di questa traumatica maturazione.
I flashback mostrano un nuovo modo di vedere la realtà, tanto che quello che dapprima sembrava una mera digressione dal racconto principale incentrata all'apparenza su un ronin approfittatore di nome Motome Chijiwa (Akira Ishihama) ed il suo maldestro seppuku all'apparenza fin troppo onorevole per un volgare imbroglione come lui, il quadro completo svela i retroscena della sua tragica figura, che finiscono per trasformarlo in vittima di un sistema ipocrita di cui il casato Iyi si fà portatore, risultando ciecamente imbalsamato in queste brutali e militariste convinzioni, proprio come i resti statuari del fondatore della casata su cui Kobayashi si sofferma ad inizio film.
Harakiri è un'opera dalla forte libertà non solo narrativa ma anche stilistica, infatti Kobayashi sfrutta appieno l'ampio bagaglio tecnico e di inquadrature di cui fa ampio sfoggio nell'arco delle oltre due ore del film, dimostrando una conoscenza del mezzo registico molto profonda. Il casato Iyi e la figura di Tsugumo prima della sua tragica decostruzione, sono inquadrate spesso con campi totali atti ad esaltare la rigidità delle loro convenzioni, in questo il regista è aiutato dalle notevoli doto alla fotografia di Yoshio Miyajima, che con l'uso della profondità di campo regala composizioni visive di notevole pregio, specie negli interni della dimora del casato Iyi con quelle stanze ampie e vaste, delimitate da quei numerosi rettangoli infiniti e sconfinati il cui numero si perde a vista d'occhio. Se per i membri del casato il piano fisso resta l'inquadratura più adoperata dal regista, per Tsugumo dopo la conversione (sancita da un teatrale mutamento della fotografia che inquadra il personaggio con una sorta di occhio di bue, scurendo tutto il resto), Kobayashi sfrutta primi piani, inquadrature sghembe e zoom improvvisi che sembrano anticipare Sergio Leone, senza contare le carrellate che si spostano da Tsugumo al primogenito del casato, per sottolineare la differenza netta di vedute nel loro scontro dialettico.
Harakiri denuncia un codice d'onore oramai totalmente privo di valenza pratica, poichè viene usato dai potenti al solo scopo per ribadire il loro dominio sulla massa; totalmente messo a nudo da Tsugumo tale ipocrisia rigida, il casato Iyi resterà sordo a qualsiasi vento di possibile cambiamento e per questo si arriverà ad un crescendo finale che porterà un ineluttabile scontro tra chi viene lodato pubblicamente per rispettare i valori sociali, quando in realtà si fà portatore di un sistema rigido e disumano (e neanche rispettato da coloro che tanto lo decantano) ed un anziano samurai, figura reazionaria e conservatrice all'apparenza, e che invece in tarda età è stato capace di liberarsi da tali sovrastrutture sociali per mettere finalmente in primo piano la fragilità dei sentimenti, dei legami e delle emozioni umane. Harakiri è un film progressista che usa la storia per parlare dell'universalità del presente; vincitore del Premio della Giuria a Cannes, oggi si può annoverarlo tra i capolavori assoluti della storia del cinema.
Tra gli stereotipi del Giappone, conosciuto da tante persone è il seppuku (titolo originale del film tra l'altro), il suicidio rituale posto in essere dal samurai spesso per salvaguardare il proprio onore; in effetti mi aspettavo un film celebrativo ed invece Kobayashi sfruttando intelligentemente l'ottima sceneggiatura di Shonobu Hashimoto (collaboratore di alcuni film di Akira Kurosawa tra cui Rashamon), sfrutta questo rito come mero Mcguffin per parlare in realtà della società Giapponese, ritraendola spietatamente in quello che dovrebbe essere il rituale che ne celebra la purezza, ed invece dietro l'apparenza si disvela un paese profondamente ipocrita ed ancorato a delle tradizioni di facciata prive di qualsiasi senso pratico.
Nel 1630, il Giappone è unificato dalla casata dei Tokugawa da circa 30 anni dopo la battaglia di Sekigahara, le guerre sono terminate ed i samurai si sono riciclati per la maggior parte come burocrati all'interno delle amministrazioni dei potenti clan e finchè la famiglia prospera non ci sono problemi; purtroppo per Hanshiro Tsugumo (Tatsuya Nakadai) la rovina e l'esilio del suo del suo signore lo hanno portato da un giorno all'altro in miseria e a diventare un ronin, un samurai senza padrone.
Cercare un nuovo clan per mettersi al servizio dovrebbe essere facile, purtroppo in tempi di pace i guerrieri non servono più e così Tsugumo dopo anni di miserie e stenti chiede al potente casato degli Iyi, di poter compiere un onorevole seppuku all'interno della loro dimora.
Dietro un film che in apparenza dovrebbe celebrare la fine più onorevole che possa fare un samurai tramite il suicidio rituale se gli risulta impossibile la morte in battaglia, Kobayashi in realtà muove un forte attacco alla società Giapponese contemporanea ad ai potenti che gestiscono le leve del potere, imponendo un insensato status quo sociale ed insensibili ad ogni istanza di cambiamento, trincerandosi dietro una presunta quanto vacua difesa delle tradizioni più pure.
Il film si dipana attraverso numerosi flashback scaturiti dalla narrazione degli avvenimenti della propria vita da parte di Tsugumo nel giardino interno del casato degli Iyi, così una scelta radicale seppur gloriosa come quella di compiere seppuku da parte di questo samurai, in realtà diventa un percorso di di uomo che era rimasto ancorato a stupidi simboli di un passato oramai tramontato ed incapace di vedere un presente, cadendo così nella totale rovina sia personale che familiare, Tsugumo capirà la vacuità delle proprie convinzioni intraprendendo un percorso di ricostruzione della propria persona alla luce di questa traumatica maturazione.
I flashback mostrano un nuovo modo di vedere la realtà, tanto che quello che dapprima sembrava una mera digressione dal racconto principale incentrata all'apparenza su un ronin approfittatore di nome Motome Chijiwa (Akira Ishihama) ed il suo maldestro seppuku all'apparenza fin troppo onorevole per un volgare imbroglione come lui, il quadro completo svela i retroscena della sua tragica figura, che finiscono per trasformarlo in vittima di un sistema ipocrita di cui il casato Iyi si fà portatore, risultando ciecamente imbalsamato in queste brutali e militariste convinzioni, proprio come i resti statuari del fondatore della casata su cui Kobayashi si sofferma ad inizio film.
Harakiri è un'opera dalla forte libertà non solo narrativa ma anche stilistica, infatti Kobayashi sfrutta appieno l'ampio bagaglio tecnico e di inquadrature di cui fa ampio sfoggio nell'arco delle oltre due ore del film, dimostrando una conoscenza del mezzo registico molto profonda. Il casato Iyi e la figura di Tsugumo prima della sua tragica decostruzione, sono inquadrate spesso con campi totali atti ad esaltare la rigidità delle loro convenzioni, in questo il regista è aiutato dalle notevoli doto alla fotografia di Yoshio Miyajima, che con l'uso della profondità di campo regala composizioni visive di notevole pregio, specie negli interni della dimora del casato Iyi con quelle stanze ampie e vaste, delimitate da quei numerosi rettangoli infiniti e sconfinati il cui numero si perde a vista d'occhio. Se per i membri del casato il piano fisso resta l'inquadratura più adoperata dal regista, per Tsugumo dopo la conversione (sancita da un teatrale mutamento della fotografia che inquadra il personaggio con una sorta di occhio di bue, scurendo tutto il resto), Kobayashi sfrutta primi piani, inquadrature sghembe e zoom improvvisi che sembrano anticipare Sergio Leone, senza contare le carrellate che si spostano da Tsugumo al primogenito del casato, per sottolineare la differenza netta di vedute nel loro scontro dialettico.
Harakiri denuncia un codice d'onore oramai totalmente privo di valenza pratica, poichè viene usato dai potenti al solo scopo per ribadire il loro dominio sulla massa; totalmente messo a nudo da Tsugumo tale ipocrisia rigida, il casato Iyi resterà sordo a qualsiasi vento di possibile cambiamento e per questo si arriverà ad un crescendo finale che porterà un ineluttabile scontro tra chi viene lodato pubblicamente per rispettare i valori sociali, quando in realtà si fà portatore di un sistema rigido e disumano (e neanche rispettato da coloro che tanto lo decantano) ed un anziano samurai, figura reazionaria e conservatrice all'apparenza, e che invece in tarda età è stato capace di liberarsi da tali sovrastrutture sociali per mettere finalmente in primo piano la fragilità dei sentimenti, dei legami e delle emozioni umane. Harakiri è un film progressista che usa la storia per parlare dell'universalità del presente; vincitore del Premio della Giuria a Cannes, oggi si può annoverarlo tra i capolavori assoluti della storia del cinema.